Cosa dobbiamo aspettarci dall’amministrazione Trump su Israele e Palestina
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La mattina del 6 novembre Donald Trump è diventato il 47° presidente degli Stati Uniti d’America: è il giorno 396 dal 7 ottobre 2023, il giorno 36 dall'ingresso delle Israeli Defence Force in Libano, il giorno 11 dalla risposta israeliana all’attacco missilistico iraniano.
Israele è nel più lungo conflitto della sua storia ma Donald J. Trump trova uno scenario molto più definito di quello che via via aveva dovuto affrontare Joe Biden. L’offensiva principale a Gaza è terminata, Yahya Sinwar, lo stratega del “Sabato Nero” dell’ottobre 2023 è stato ucciso, i 24 battaglioni delle Brigate Ezzedin al Qassam smantellati e in quel momento la stima complessiva di morti palestinesi tra civili e militari ha raggiunto il numero record di 43.000 persone (tra questi si è parlato presumibilmente di circa 15.000 terroristi, senza però fornire dettagli o evidenze). Le Israeli Defense Forces si sono posizionate a nord della Striscia operando missioni mirate nelle aree dove si presume che ci siano ciò che resta della forza armata di Hamas. In Libano l’esercito israeliano ha iniziato a smantellare i presidi armati di Hezbollah al confine con la Galilea e continuando ad attaccare obiettivi militari in Siria.
Al momento dell’elezione di Trump Israele stava beneficiando non solo del più consistente stanziamento di aiuti militari USA della sua storia voluto da Barack Obama (un piano di stanziamenti monstre di oltre 3 miliardi di dollari l’anno fino al 2028), ma anche del piano voluto da Joe Biden e dal Congresso degli Stati Uniti che per sostenere Israele militarmente a cavallo tra fine 2023 al 30 ottobre 2024 ha stanziato circa 23 miliardi di dollari tra vecchi e nuovi finanziamenti.
Ma quali potrebbero essere gli indirizzi della nuova amministrazione Trump per il Medio-Oriente alla luce delle sue recenti nomine, di quanto sta avvenendo all'interno di Israele e nella regione?
Di cosa parliamo in questo articolo:
Le nomine nei ruoli chiave
Le nomine fatte da Trump dicono molto ma non abbastanza su cosa possiamo aspettarci nei prossimi quattro anni.
Il neo Segretario di Stato, Marco Rubio è considerato politicamente un “falco” pro-israeliano e anti-iraniano da sempre, a parole. Quando è stato chiamato a ratificare nel febbraio 2024 un provvedimento quadro di aiuti a Israele, Taiwan e Ucraina proposto da Biden e dai deputati democratici ha votato contro.
Le motivazioni sono state più di metodo che di merito per attaccare la presidenza Biden. Quando a fine aprile 2024, dopo mesi di trattative tra democratici e repubblicani si è arrivati a un accordo bipartisan per lo stesso provvedimento, ha votato nuovamente contro. Anche questa volta il suo mancato sostegno è stato argomentato in maniera capziosa per criticare l’amministrazione democratica.
Più lineare è Mike Waltz, ex Berretto verde, designato come Consigliere per la sicurezza nazionale. In lui troviamo una figura a favore di Israele seppur in chiave anti-iraniana, forse la più solida del Gabinetto Trump. Anche John Ratcliffe, nuovo direttore della CIA, nonché tra gli estensori del Project 2025, appare allineato con chi vede in Israele una sorta di “proxy” degli USA contro l’Iran e i suoi alleati nella regione.
La nomina più politicamente opaca è decisamente quella di Tulsi Gabbard, Direttrice dell'intelligence nazionale. Come Rubio, Gabbard appare essere “isolazionista eccetto che per Israele”. Tuttavia in passato ha manifestato delle poco comprensibili aperture per il regime di Assad in Siria nonché altrettanto poco comprensibili aperture verso il regime di Putin, primo alleato dell’Iran creando non poche perplessità.
Se Gabbard è una figura opaca, il vicepresidente JD Vance appare invece ambiguo sia verso Israele, sia verso il mondo ebraico. Sin dalla sua designazione non sono mancati i dubbi sulle sue idee e per le sue vicinanze con giornalisti molto compiacenti con personaggi antisemiti.
Come Rubio, JD Vance ha votato per ben due volte contro il pacchetto di aiuti dopo aver proposto un improbabile scorporo di quanto destinato per Israele, sia in febbraio che nel voto finale in aprile. Da notare che solo nove giorni prima del voto primaverile, in occasione dell'attacco missilistico iraniano, aveva dichiarato su X: “ Preghiamo per il popolo di Israele, e in particolare per alcuni cari amici. Che Dio li protegga”. A ridosso poi dalle elezioni, confermando il doppio registro rispetto a Israele, ha dichiarato che gli interessi degli USA potrebbero essere distinti in caso di un conflitto più ampio con l’Iran.
Hegseth e Huckabee, i cristiani sionisti
Ma per comprendere le venature irrazionali nello staff di Trump, in particolare quando si parla di Medio Oriente, vale la penale soffermarsi su Pete Hegseth, il futuro Segretario alla Difesa.
La figura di Hegseth è emblematica di come il fervore religioso faccia da base ideologica per una posizione politica fortemente a favore di Israele . I due suoi tatuaggi - il motto dei crociati "Deus Vult" e “La Croce di Gerusalemme” - sono stati immediatamente riconosciuti come parte dell’estetica dell’estrema destra islamofoba. Il che corrisponde al vero: nel variegato mondo anti-islamista dell’Alt-right motti e simboli del genere sono ricorrenti nei gruppi cristiani.
Nel 2021, identificati dall’intelligence per il loro “valore”puramente politico, Hegseth venne sollevato dal prestare servizio a Capitol Hill dopo la rivolta del 6 gennaio che aveva visto come protagonisti estremisti di destra. A seguito di questa decisione dei suoi superiori, si dimise dalla Guardia Nazionale dove aveva prestato servizio per oltre 20 anni.
Ma i significati di questi tatuaggi vanno ben oltre l’uso superficiale della politica estrema e assumono un valore ben più consistente quando andiamo a vedere a quale sistema di riferimenti simbolici e di credenze sono collegati e in che relazione entrano con “l’idea di Israele”. Pete Hegseth, è un ricostruzionista cristiano affiliato alla Communion of Reformed Evangelical Churches considerata una congregazione di estrema destra cristiana.
Gli evangelical reformed (da non confondere con gli evangelici), poco noti in Europa, sono “cristiani sionisti” un termine che sembrerebbe amichevole verso i cittadini israeliani. Ma dietro questo termine si nasconde una visione teologica che di amichevole ha ben poco, sia per gli israeliani che per i palestinesi.
Con una lente pre-millenarista i cristiani sionisti vedono come requisito fondamentale un Israele biblico a piena sovranità ebraica per un successivo terreno di scontro apocalittico tra le forze del bene e del male. Le posizioni politiche di Hegseth, che spaziano dall’esclusione delle donne dall’esercito all’abolizione della scuola pubblica passando per la demonizzazione dell’Islam, riflettono esattamente quelle della sua chiesa.
Ma la religione si riflette anche nelle sue scelte familiari di Hegseth, al punto tale da essersi trasferito in Tennessee per garantire a suo figlio la frequentazione di una scuola evangelica riformata. Risulta così molto chiaro quale substrato pre-politico e culturale sostenga il suo sentimento filo israeliano e in particolare la sua avversione per l'Iran.
L’altra figura le cui visioni sono influenzate dal suo credo religioso è l'ex pastore battista, ex governatore dell'Arkansas e conduttore televisivo Mike Huckabee come prossimo ambasciatore USA in Israele.
Dato il ruolo assegnatogli, Huckabee non sarà portatore di sue politiche personali ma indiscutibilmente è molto gradito dalle destre messianiche israeliane come si è potuto notare dalle loro reazioni alla notizia della sua designazione.
Il ministro della Sicurezza nazionale del governo Netanyahu, Itamar Ben-Gvir, ha salutato con entusiasmo la sua nomina, mentre il ministro delle finanze Bezalel Smotrich lo ha definito “un amico coerente e leale dello Stato di Israele e sostenitore dell'impresa di insediamento in Giudea e Samaria”.
Mike Huckabee 🇺🇸❤️🇮🇱
— איתמר בן גביר (@itamarbengvir) November 12, 2024
Meno aggressivo di Hegseth, Huckabee è anche lui evangelicale ma appartiene alla Southern Baptist Convention che ha dei canoni meno letteralisti delle Sacre Scritture. Come l’ha definito la storica rivista ebraica americana The Forward è un "old-school Christian Zionist”.
Assiduo frequentatore di Benjamin Netanyahu, da oltre 50 anni visita Israele con continuità, è uno storico sostenitore delle ambizioni dei coloni, un convinto oppositore della soluzione “Due popoli, due Stati” e, più in generale, brilla in negativo per l’assenza di considerazione dei minimi diritti dei palestinesi.
Di fronte a queste figure così estreme, la totale inesperienza come diplomatico del businessman Steve Witkoff, storico amico di Donald Trump e futuro “inviato in Medio-oriente”, sembra passare in secondo piano.
Ciò che invece rende critica la sua designazione, è il conflitto di interessi legato al suo futuro ruolo alla luce del fatto che intrattiene consistenti rapporti d’affari con il Qatar e Dubai.
La nomina poi della “lealista trumpiana” Elise Stefanik come ambasciatrice degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, un falco filo-israeliano, notoriamente avversa all’istituzione dove rappresenterà il suo paese, appare essere una vera e propria dichiarazione di guerra di Trump all’ONU.
Salita alla ribalta per aver condotto alle dimissioni i rettori dell’università di Harvard, Pennsylvania e Columbia, dopo le udienze sulle manifestazioni venate di antisemitismo degli studenti filo-palestinesi e non sanzionate, e pur non avendo una particolare esperienza diplomatica, Stefanik dovrebbe mantenere una linea fermissima su quelle che alcuni definiscono derive antisemite alle Nazioni Unite .
Trump a Netanyahu: “Fai quello che devi fare”
Ma per quanto i membri del futuro Gabinetto e diplomatici, lascino presagire delle linee d’azione degli Stati Uniti estremamente aggressive in Medio Oriente, il decisore ultimo è Donald Trump, che con certezza mira ad un obiettivo principale: la pacificazione dell’area a tutti i costi.
Non è un mistero che abbia chiesto ripetutamente a Netanyahu di porre fine al conflitto a Gaza prima del suo insediamento, invito ribadito anche nei giorni immediatamente precedenti alla sua elezione estendendolo anche al conflitto in Libano, apostrofando telefonicamente il premier israeliano con un secco: "Fai quello che devi fare".
La prima risposta concreta di Netanyahu a questa richiesta di "sollecitudine" da oltreoceano, se la tregua appena dichiarata si dovesse consolidare, potrebbe essere la pace in Libano. Nonostante la forza militare di Hezbollah sia stata largamente distrutta dall’esercito israeliano, l’occupazione sovradimensionata di figure squisitamente politiche del "Partito di Dio" dei vertici delle istituzioni libanesi, grazie alla pressione indiretta dell’ala militare, non è stata per adesso intaccata. Così come permane al momento quel sistema elettorale, nato per garantire in primis tutte le confessioni religiose, che si è rivelato disfunzionale per dare stabilità al paese. Una fragilità dell’assetto democratico molto ben esemplificata dalla non elezione di un presidente della repubblica da oltre due anni.
Dall’altro lato del confine, l’opinione pubblica interna israeliana si attende la piena attuazione dei 13 punti di quanto concordato. L’accordo, che ricalca con una buona approssimazione la disattesa da parte libanese della Risoluzione 1701, se concretamente attuato, potrebbe garantire dopo un anno il rientro a casa agli oltre 50 mila sfollati delle comunità e kibbutz della Galilea al confine nord e garantire una concreta e duratura prospettiva di serenità.
Più a est, gli attacchi mirati all’Iran di aprile e ottobre 2024, hanno ottenuto dei risultati poco noti, quanto significativi, nell’indebolire le difese aeree più avanzate e l’industria militare del paese.Tuttavia, su richiesta dell’amministrazione Biden, in entrambe le occasioni non sono stati toccati gli impianti nucleari. Che atteggiamento avrà Trump nei confronti dell’Iran, data la sua storia, apre degli scenari molto meno concilianti ma resta comunque un punto interrogativo.
Verso gli Accordi di Abramo 2.0?
Il vero banco di prova in Medio Oriente per le ambizioni della futura amministrazione Trump è la questione palestinese. É opinione diffusa che quando Donald Trump parla della sua determinazione ad arrivare “pace” in Israele e Palestina stia sottintendendo la volontà di riprendere le fila di quel percorso politico che ha intrapreso con Israele nel quadriennio 2016 - 2020.
Una parziale conferma di questo approccio è ravvisabile anche in un documento di intenti di America First Policy Institute, think tank che, assieme Project 2025, è considerato l'estensione delle future linee di governo. In questo documento viene tracciata la proposta di un “Middle East Peace Project” che nei suoi tratti fondamentali riprende esplicitamente il metodo che portò agli Accordi di Abramo. In maniera schematica delinea una politica fatta di creazione di opportunità di collaborazione tra paesi, di pressione preventiva - anche militare ove necessario - per mitigare le ambizioni iraniane nella regione, di sostegno pragmatico dei paesi definiti “amici” e di un impegno diplomatico per il superamento di quelli che vengono definiti “problemi di lunga data”.
Nonostante la crisi della regione, Trump può godere di alcuni punti di forza per far ripartire molto di quanto impostato durante il suo primo mandato. L’amministrazione Biden ha ereditato la copertura politica e diplomatica degli Accordi di Abramo ovvero la normalizzazione dei rapporti tra Israele, gli Emirati Arabi Uniti e altri paesi arabi e, nonostante la guerra a Gaza, i rapporti definiti allora hanno sostanzialmente tenuto.
A questo mantenimento dello status quo diplomatico si è unito un preziosissimo percorso di normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita, seppur con alti e bassi, grazie ad un impegno statunitense che è destinato a proseguire.
Non va perso di vista che da quasi dieci anni è in corso un conflitto regionale tra Iran e Arabia Saudita che trova nella “guerra per procura” in Yemen la sua manifestazione più evidente e che ha facilitato questo, seppur lento, avvicinamento. L’Arabia Saudita ha comunque bisogno dell’ombrello militare americano, nonostante alcuni tentativi per stemperare la tensione tra i due paesi, e la naturale contropartita è arrivare nel tempo alla sua firma degli Accordi di Abramo.
Un volano di questo processo di adesione potrebbe essere l’ineludibile necessità della ricostruzione di Gaza e quanto si renderà necessario. A Gaza, il conflitto sembra essere avviato verso le sue ultime fasi: le truppe israeliane dislocate nel nord della Striscia nord e il genio militare ha creato una segmentazione fisica del territorio attraverso un sistema di strade e demolizioni controllate.
Questa disposizione dell'esercito e questa suddivisione del territorio finalizzata al controllo è coerente con la volontà, ribadita anche recentemente, di “distruggere Hamas” ma cosa avverrà dopo continua a non essere chiaro.
Se le ipotesi di una vera e propria pulizia etnica avanzate dall’estrema destra israeliana per poi creare degli insediamenti appaiono divisive anche all’interno della stessa società israeliana, resta un’ipotesi concreta una occupazione senza limiti temporali da parte di un Netanyahu che continua a non dare al paese e al mondo un’idea concreta per il futuro di Gaza.
L’unica certezza vede Gaza nelle immediatezze pienamente amministrata dal COGAT, il governatorato militare dei Territori Occupati come previsto dalla Convenzione di Ginevra, in attesa che venga definita una governance per la Striscia di Gaza.
Già a fine agosto era stato designato per il ruolo di coordinamento operativo il generale Elad Goren. Qualora si intraprendesse un percorso internazionale di ricostruzione della Striscia di Gaza l’Autorità Nazionale Palestinese è pronta da tempo. Circa due mesi fa è stata ufficializzata la nascita di un gruppo di lavoro che dovrà insediarsi in vista della ricostruzione. La sua composizione è stata oggetto di accese discussioni interne perché risente delle tensioni legate al riassetto politico palestinese ora necessario più che mai ma problematico da oltre 20 anni. Forse grazie alla mediazione egiziana e statunitense dovrebbe essere stato raggiunto un accordo su ruolo e competenze tra le fazioni palestinesi.
Ma i costi e i tempi sono semplicemente proibitivi e non possono essere affrontati dalla sola Autorità Nazionale Palestinese e si rende necessario un ampissimo coinvolgimento internazionale in cui i capitali sauditi e degli emirati potrebbero essere protagonisti. Così, come ventilato in altre occasioni, sarebbe accolto sia dai palestinesi che dal governo di Gerusalemme un loro presidio militare che vada a sostituire gradualmente l’esercito israeliano.
Uno scenario del genere, all’interno di un quadro razionale, potrebbe portare a un notevole passo in avanti verso la sottoscrizione degli Accordi di Abramo da parte dei sauditi poiché vedrebbero una risposta molto concreta rispetto alle loro richieste ad Israele.
Ma un quadro razionale al momento stenta a definirsi anche per le responsabilità dell’attuale governo israeliano. L’esecutivo è schiacciato sulle posizioni dei partiti religiosi e sulle loro visioni “messianiche” anche per Gaza. Netanyahu sta affrontando vecchi e nuovi scandali e la sua tenuta come premier non è così solida come si pensa, anche in virtù del recente mandato di arresto della CPI che lo ha depotenziato a livello internazionale. Nel frattempo, in Cisgiordania le politiche espansive delle colonie in violazione del Diritto Internazionale proseguono e i coloni confidano in un sostegno dell’amministrazione Trump
Il leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmud Abbas, però, sembrerebbe aver inaugurato una nuova e diversa stagione con Trump dopo che la precedente si era conclusa con il rifiuto da parte palestinese del piano di pace proposto da Trump, Peace to prosperity.
Il piano, sviluppato da un gruppo di lavoro coordinato dal genero di Trump Jared Kushner, pur prevedendo 50 miliardi di dollari di investimenti vedeva solo il 70% di restituzione dei Territori occupati nel 1967 in Cisgiordania. Ma tutto ciò è alle spalle e ciò che appare più significativo di questo episodio è che nella visione di Trump uno Stato palestinese non è fuori dal senso.
Essendo la creazione di uno Stato palestinese una pre-condizione per una pacificazione complessiva dell’area, oltre che per far aderire l’Arabia Saudita agli Accordi di Abramo, Trump potrebbe intraprendere una nuova iniziativa già al suo insediamento alla Casa Bianca qualora un cessate il fuoco a Gaza fosse in essere o ormai prossimo.
Superare le resistenze israeliane
La neo-amministrazione Trump si troverà di fronte a uno scenario dove pressioni a tutti i governi dei paesi della regione sono ineludibili se vuole ottenere quella “pace” che il neo-presidente auspica con forza. Pressioni che potrebbero non essere gradite ma che devono essere rivolte senza esitazioni in particolare verso il governo di un paese “alleato”, Israele. Va capito, tuttavia, cosa si intende per “pressioni” che non necessariamente implica “levare” ma può significare anche “dare” in maniera intelligente.
Il dato di partenza è che mai come adesso Israele ha bisogno di un governo che non abbia mire avventuristiche destinate comunque a fallire. Il sistema paese è esausto anche se dal punto di vista economico si conferma una sostanziale solidità nonostante il conflitto. Ma non va perso di vista che centinaia di migliaia di israeliani hanno passato in divisa dai 3 ai 5 mesi nell’ultimo anno e questo impatta in negativo sul morale complessivo del paese.
Al momento una consultazione elettorale potrebbe non vedere confermato un esecutivo a guida Netanyahu e la sua attuale compagine. Da più di 12 mesi non c’è rilevazione dei media israeliani, a parte quelle del filo governativo Channel 14, che non veda l’attuale governo in minoranza nel consenso dei cittadini in caso di elezioni.
L’orizzonte certo in cui si può sperare che Israele sia pronto per il cambiamento sono le elezioni di ottobre 2026, se l’attuale governo dovesse tenere. Ma il rischio è che si formi l’ennesimo governo di “sopravvivenza politica regionale” come potrebbe essere un governo a guida di Naftali Bennett, qualora decidesse di presentarsi. Un ritorno di Bennett spariglierebbe ogni previsione fatta sino ad oggi e sicuramente porterebbe un apprezzabile riassetto interno come ha dimostrato nella sua breve esperienza come premier. Tuttavia il suo durissimo posizionamento nei rapporti con i palestinesi non lo rende la figura adatta per inserirsi in un percorso verso una riedizione degli Accordi di Abramo.
Serve un progetto per la regione, rivolto a tutti, che avvicini tutti, in cui si ponga con forza il tema della ragionevolezza, della necessaria cessione delle proprie ambizioni territoriali, politiche e di una pacificazione non solo necessaria ma non più eludibile.
"Trump pacificatore, Trump uomo di pace"
Questa ambiguità ricorre nella vecchia e nuova propaganda e nessuno dei due termini offre una vera definizione dell’attitudine di Trump verso i conflitti armati. Se si va a guardare la storia del primo mandato Trump non sono mancate azioni dirette, come l’attacco missilistico Shayrat del 2017 ordinato unilateralmente, o indirette, come porre il veto presidenziale a uno stop congressuale sul supporto militare all’Arabia Saudita o mirate come l’omicidio del generale iraniano Qasem Soleimani. Per quanto poi riguarda direttamente Israele anche in fase di spending review non ha mai definanziato quanto ha ereditato dal suo predecessore Obama come sostegno militare.
Data questa premessa l’appellativo “uomo di pace” poco si adatta al neo presidente USA così come quella di “pacificatore”. L’accordo che strinse con i talebani al vertice di Doha che portò al ritiro di circa 11.000 soldati americani è paradigmatica. È stata di fatto la riapertura al crudele regime dei talebani, non un atto di pacificazione. Così come il disimpegno dal nord della Siria del 2019 che lasciò i Curdi schiacciati tra Turchia ed esercito di Assad.
Ora come allora il concetto guida è “America first” in nome di una politica estera che prevede sostegno economico ad altre nazioni solo per minacce o obiettivi strategici comuni. I concetti di “pace” o “pacificazione” nella loro accezione nobile non sono contemplati nelle motivazioni di Donald J. Trump ma solo ed unicamente se funzionali ad un metodo che di nobile ha ben poco.
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