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La vittoria di Trump e Musk: il mondo è sempre più nelle mani di razzisti autoritari e classisti

9 Novembre 2024 10 min lettura

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La vittoria di Trump e Musk: il mondo è sempre più nelle mani di razzisti autoritari e classisti

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L’analista neoconservatore Robert Kagan disse nel 2016 di Trump: i fascisti non torneranno con la camicia e il passo dell'oca ma con un imbonitore televisivo. Il grande storico del fascismo, Robert Paxton, sempre scettico sull'uso dell'accusa di fascismo, dopo Capitol Hill, nel 2021, fu costretto a ricredersi sulle colonne di Newsweek.

Trump usava i media (Fox News ieri, X di Musk oggi) per la sua propaganda come i fascisti. Attaccava le élite come i fascisti (pur facendone parte). Attacca i valori devianti rispetto alla famiglia etero-patriarcale mettendosi a capo dei valori tradizionali delle campagne contro le città moderne, come il fascismo. Tuttavia la situazione economica e istituzionale nel 2016 era diversa dall’Europa degli anni ’30. Il rapporto con il grande capitale era inoltre diverso: mentre Mussolini e Hitler inizialmente, formalmente, vi confliggevano, Trump gli ha sempre dato quel che voleva. Più che un fascista è un oligarca, un plutocrate, scriveva Paxton.

Ma Capitol Hill ha cambiato tutto: l’invito di Trump alla violenza delle masse contro gli organi della democrazia rappresentativa non lasciava spazio a dubbi.

Tre anni dopo, Trump, nel suo discorso della vittoria, ha ringraziato Elon Musk: nessuno, né la Cina né la Russia, possono fare quello che fa Starlink – la cui pericolosità è ben spiegata in un’inchiesta del New York Times di un anno fa. La triade Trump - Vance - Musk torna con un programma di suprematismo bianco e immane potenza tecnologica e comunicativa. 

Come noto, è stato il tecno-oligarca Peter Thiel - che ha in mente una sorta di tecnocrazia sospesa tra Silicon Valley e Medioevo - a chiedere la vicepresidenza per Vance. Come dice Musk, siamo nel Dark Maga: l'ulteriore slittamento del mondo nelle mani di razzisti autoritari e classisti.

Se la “razza” è il modo in cui si vive la classe (Stuart Hall), possiamo dire che da circa 10 anni, se non di più, vediamo l'affermarsi di politici razzisti attraverso la retorica dei “dimenticati della globalizzazione”. Invece di intervenire sul rapporto tra classi e le disuguaglianze sociali, si contrappongono le classi nazionali contro stranieri e minoranze. Le istanze economiche – le restrizioni a cui vengono sottoposti i lavoratori – vengono declinate in termini razziali. Precisi interessi di classe sfumano in metafisiche entità come i “poteri forti”, il “globalismo”, Soros e le sue estensioni: i migranti. La nobile tesi dell’esercito di riserva, formulata da Marx, viene distorta a fini razzisti. La “grande sostituzione” dei cittadini autoctoni da parte del capitale globale serve a ridurre i diritti della classe lavoratrice bianca.

La patina di questa operazione ideologica è quella di difendere i “nostri”, dargli priorità, preferirli agli altri - lo sciovinismo del welfare, il taking back control della Brexit, Le Pen,  Meloni e Salvini, AFD in Germania, VOX in Spagna e l’FPO in Austria. Per chi denuncia i fascismi ma aderisce a questa tesi l’implicito è che se si facessero politiche più socialdemocratiche, il razzismo perderebbe la sua base sociale. “Se al posto di Harris ci fosse stato Sanders tutto sarebbe andato per il meglio” dicono alcuni. Sarebbe bello ma non è così. In questa prospettiva se i subalterni indirizzassero la loro rabbia verso i veri nemici, la democrazia sarebbe salva. Ma se ridurre povertà e precarietà può aiutare, il problema rimane il tipo di comunità che si vuole difendere. Il risultato, infatti, solitamente, è mance o illusioni di aiuto ai nostri, bastonate agli altri e mantenimento e incremento della ricchezza dei pochi.

La reazione di molti politici, in un’Europa già infestata dai nuovi fascismi, è che finalmente torna un alleato alla Casa Bianca. Mentre in Israele - come ovvio per chiunque dal momento che Trump spostò l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, e patrocinò gli accordi di Abramo - il quadro va ancora più a destra (se possibile). Forse questa sarà l’occasione per sviluppare l’integrazione europea, ma le speranze sono spesso vane.

In Italia, Meloni si è assicurata un ottimo alleato e Conte torna ai fasti dell’alleanza con Salvini, nel nome del nazionalismo. Molto del centro liberale che occupa le redazioni dei principali media e le varie sfumature di destra daranno la colpa alla “cultura woke” e al progressismo, incapaci di leggere le preoccupazioni della white working class. Ad esempio, sul solito Corriere della Sera il solito Rampini si lamenta che con Kamala Harris si siano abbandonati valori fino a ieri condivisi dai democratici: la difesa del patriottismo, delle frontiere e della famiglia.

White working class

Per capire perché Peter Thiel sia legato all’hillibilly Vance, si può vedere il discorso contro la “religione woke” fatto in occasione del conferimento del premio Burke nel 2023 (tradotto in italiano dal Foglio). Qui, per non farsi mancare niente, parlava di comunismo ateo e di wokeness come premessa del comunismo con caratteristiche cinesi. Come al solito, Thiel usando una versione volgare del marxismo sosteneva che fare attenzione a “razza” e genere è uno strumento per dividere i lavoratori. Chiaramente, il fondatore di Paypal taceva del contrario, ossia dell’uso economico della discriminazione: il fatto che “razza” e genere siano invece tra gli strumenti di governo e sfruttamento della forza lavoro.

Thiel è il principale sponsor dell’ascesa di J.D. Vance proprio perchè condividono l’analisi: meritocrazia compassionevole per la white working class e razzismo per chi è povero ma non è bianco. La gerarchia sociale deve mantenere i neri poveri sotto i bianchi poveri. Questi ultimi devono avere almeno un riconoscimento identitario preferenziale. I bianchi non devono essere gli ultimi. Insomma: se noi siamo nella merda e altri nella merda vanno avanti, se ci sono differenze visibili, caricheremo di significato proprio le differenze, invece di pensare al  caso o alla bravura, al “merito”. Il sociologo afroamericano W.E.B. Du Bois chiamava “salario psicologico” il riconoscimento preferenziale - dal welfare al trattamento della polizia, al mercato del lavoro - che i lavoratori bianchi avevano rispetto a quelli neri, pur essendo entrambi i gruppi privi del potere di definire la loro sorte.

Il razzismo non è solo la sovrastruttura della dominazione economica. Ha una sua autonomia che affonda le radici più in profondità, tanto dei soggetti quanto delle istituzioni. La rabbia sociale si manifesta contro soggetti ancora più deboli non solo perché la mobilità sociale è bloccata ma perché si è imparato a definirsi come soggetti dotati di dignità umana contro altri che ne sono privi. È l’instabilità determinata dalla mobilità sociale stessa che porta a pensare al razzismo come ad un dispositivo di costruzione della propria identità. La prestazione psicologica di questa operazione non riguarda solo il benessere relativo ma l’intera architettura sociale che abitiamo, il “capitalismo razziale”. Non un sistema in cui si realizza un’eterna e programmatica valorizzazione della “razza” a fini economici ma l’esito del mutevole intreccio tra mercati, stati nazione e soggettività definite da questi due moderni aggregati di potere. Il razzismo non è semplicemente uno strumento di dominio ma piuttosto l’esito di una co-costruzione culturale e sociale realizzata tanto con spinte dal basso, quanto dall’alto.

Come scrive Étienne Balibar, il razzismo dipende da un desiderio di sapere, di immaginare la propria identità naturalizzando e gerarchizzando le differenze. Serve a segnare irrimediabilmente tanto un’appartenenza quanto un’esclusione, così da garantire uno stabile differenziale di potere e riconoscimento. La comunità razzista è anche una comunità sessista. Il meccanismo di fissazione e inferiorizzazione della differenza è lo stesso: la natura serve a eternare gli effetti di specifici rapporti sociali. Inoltre, sessismo e razzismo si forniscono reciprocamente argomenti discriminatori. Per Colette Guillaumin, “le formazioni di sesso e di 'razza' sono formazioni immaginarie, giuridicamente ratificate e materialmente efficaci”. Questi dispositivi sono radicati nel modo in cui si è costituita la comunità politica nella modernità. Si è affermata un’eguaglianza formalmente universale ma di fatto selettiva, che solo grazie al conflitto sociale e alla capacità di pensare nuove istituzioni si è avvicinata e potrà avvicinarsi all’universalismo.

Contro un’idea dinamica di politica e di ridefinizione espansiva della comunità politica, nel dibattito pubblico, spesso si afferma un malinteso senso della “protezione”. Una protezione tanto dei confini, quanto di qualche settore subalterno ammansito con mance e salari psicologici derivanti dal relativo vantaggio rispetto a chi sta peggio ed è marcato dal segno della “razza”. Così riemerge un’idea razziale della comunità nazionale in cui contano solo i veri cittadini, rafforzando il nesso tra classe operaia e bianchezza – identità vissuta come una proprietà che legittima aspettative materiali e simboliche. La bianchezza è stata, come accennato, anche un vettore di razionalizzazione della propria condizione di vita a fronte delle trasformazioni del modo di produzione. Questo significa che la “razza” diviene il modo con cui si vive e qualifica la classe.

In relazione alla sicurezza, il “razzismo spontaneo” chiede alle istituzioni di mantenere una promessa implicita: che lo stato preferisca i connazionali rispetto agli stranieri. Bisognerebbe quindi smetterla di sminuire il razzismo a partire dalla condizione sociale di chi lo compie. L’idea di classe sottesa non è neutrale, perché spesso si difendono risorse comunque maggiori di quelle ai quali le si negano che però hanno la doppia colpa di essere “razzialmente” diversi. Bisogna spezzare l’idea paternalista per cui se si è marginali e razzializzati come bianchi allora si ha un bonus nell’esercizio della violenza razziale. Anche da un punto di vista di classe potrebbe essere un vantaggio.

La white working class dunque vota su interessi economici o valori conservatori? Entrambe le cose, dal momento che le due dimensioni si tengono - e che il progetto neoliberale si è accompagnato dagli anni ‘80 ad una difesa dei valori “tradizionali”. Inoltre, capire quali siano i propri interessi oggettivi non è per niente oggettivo. Così come quelli della propria comunità “etnica” o religiosa di appartenenza.

Coscienza di “razza”

Ma come può una minoranza votare per chi programmaticamente vuole gli USA bianchi? Così come chi appartiene a una classe vota apparentemente contro i propri interessi, così può avvenire per chi appartiene a una minoranza.

Molti immigrati o cittadini precedentemente discriminati possono decidere di votare per chi vuole respingere i nuovi migranti. Così da consolidare la propria posizione, pur se subordinata. Si può inoltre ragionare di più per classe (se si è benestanti) rispetto all'appartenenza comunitaria. E si può inoltre far prevalere la dimensione sessista-conservatrice e votare per il candidato macho che rappresenta i solidi valori del patriarcato contro una donna. Infine, si può votare il bianco per avvicinarsi a lui. Potrebbe essere una particolare forma di 'passing', l'adesione a valori razziali differenti da quelli che il razzismo attribuisce ai soggetti razzializzati come inferiori.

Trump infatti ha preso voti anche tra molti più afroamericani di quattro anni fa, oltre che la maggioranza dei voti dei cittadini ispanici. Il caso degli arabo americani (3.7 milioni) invece è diverso: hanno disertato Harris scegliendo il non voto o la verde Jill Stein - o Trump, come a Dearborn - per punire i democratici su Gaza. Ad ogni modo, il loro voto non avrebbe salvato i democratici.

D'altronde anche nel Regno Unito ci sono molti conservatori, ferocemente xenofobi, che vengono da famiglie non bianche o non inglesi. Dalla ministra Priti Patel delle deportazioni in Rwanda, al primo ministro Rishi Sunak fino alla nuova leader dei Tories, Kemi Badenoch.

Mentre i vari commentatori liberal(conservatori) ci dicono che la vittoria di Trump mostra il successo di una politica contro l'immigrazione “incontrollata” o contro le “follie” della cancel culture, si può trarre un'altra lezione sulle identity politics. Non basta avere una identità oppressa per esprimere un voto o una posizione politica progressista.

Una politica davvero intersezionale, universalista e di classe, che si faccia carico delle discriminazioni che minoranze donne e comunità LGBQTIA+ subiscono, deve chiedere di più a sé stessa. Non è la litania delle sigle che porterà a contrastare la marea nera negli Stati Uniti e in Europa.

La fine del neoliberismo?

L’economia sicuramente ha contato nella vittoria di Trump: se è vero che Biden ha fatto una politica keynesiana e vicina ai sindacati – e che quindi piaceva alla sinistra del partito – è altrettanto vero che l’inflazione ha picchiato duro sulle capacità di consumo dei lavoratori statunitensi. Le promesse di rendere di nuovo grande gli Stati Uniti di Trump hanno quindi fatto breccia. Così come la Rust Belt deindustrializzata ha sperato che nuovi dazi possano restaurare il passato perduto.

Tuttavia, se l’attesa che Trump sia un presidente di pace è ridicola, alcuni osservatori sperano che la sua presidenza sigilli la fine dell’ordine neoliberale.

Tutto dipende ovviamente da che idea si abbia di neoliberalismo. Nella stessa categoria il tasso di intervento dello Stato è infatti molto variabile. La questione dei dazi andrebbe analizzata alla luce del fatto che gli accordi commerciali significhino sempre che alcuni paesi vengano preferiti negli scambi e altri no. Niente libero commercio dunque, soprattutto con il WTO. Come scriveva Immanuel Wallerstein: “Il protezionismo è sempre stato il modo dominante di gestire le relazioni economiche tra gli stati”.

La guerra dei dazi avviata da Trump quindi non necessariamente è in contraddizione con il neoliberismo. Semplicemente è il modo in cui quella configurazione politico-economica si manifesta negli Stati Uniti gestiti da un oligarca populista che vuole contrastare l’ascesa cinese.

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C'è quindi un ritorno dello Stato nell'economia? Lo Stato, come detto, non se ne è mai andato. La retorica certo può cambiare ed è in parte cambiata. In Europa, Next generation EU (il cosiddetto “Recovery Fund”) ha rappresentato uno scarto, ma affermare che siamo nel post-neoliberalismo potrebbe essere prematuro. Certo Mario Draghi ha recentemente elogiato la legge di bilancio del governo britannico – definita sul Financial Times da Martin Wolf “la pietra tombale sul thatcherismo” – e invitato l’Europa a fare debito comune e investimenti massicci. Tuttavia il clima generale rimane prevalentemente neoliberale. Tutti i partiti di estrema destra al potere o quasi in Europa anche se si dicono antiglobalisti sono neoliberali nel loro mix di meno tasse ai ricchi e mance ai soli cittadini razzialmente preferiti.

Un esempio in controtendenza rispetto allo spirito del tempo è stato quello di questa estate in Regno Unito in cui i cittadini, spontaneamente, si sono organizzati per resistere ai pogrom anti-immigrati, difendendo moschee e centri per migranti. In quest’occasione dinamiche razziali e di classe si sono saldate positivamente riecheggiando la gloriosa coalizione multietnica che nel 1936, in un quartiere ad alta densità ebraica, si scontrò con i fascisti di Oswald Mosley a Londra, nella battaglia di Cable Street. Lì, proletari di diversa religione e provenienza seppero unirsi contro il nemico comune.

(Immagine in anteprima: frame via YouTube)

 

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