Trump-Musk, il caos coordinato e pianificato: i prodromi di un colpo di Stato
|
In due settimane di presidenza, Trump sta portando avanti in maniera radicale una delle sue principali promesse della campagna elettorale, di cui parla ininterrottamente sin dal 2022: smantellare lo Stato amministrativo, licenziare parte della burocrazia sostituendola con persone a lui fedeli e bloccare l’allocazione di fondi che il Governo garantisce annualmente alle agenzie federali.
Il potere esecutivo sta quindi cercando di controllare direttamente l’apparato amministrativo, assumendone tutte le leve senza passare dal Congresso, ma attraverso una sequenza di ordini esecutivi poco chiari e costituzionalmente inaccettabili. Arrivare a un attacco di tale portata è stato possibile proprio perché la macchina amministrativa (i funzionari pubblici non eletti) è stata per decenni la base dell’attacco dei politici repubblicani: fin dalla Rivoluzione conservatrice incarnata da Reagan, infatti, è stata vista come un moloch da distruggere, o perlomeno da rendere ininfluente. Lo scontro costituzionale che si sta dipanando non deve essere visto come una sorpresa, ma come il primo passo nella costruzione dei nuovi Stati Uniti secondo Donald Trump. Le mosse che ha compiuto si possono leggere nei principali piani d’azione per una nuova presidenza conservatrice scritti dai più importanti think-tank – come Project 2025 della Heritage Foundation, che Trump afferma di non aver mai letto, ma di cui sta replicando passo dopo passo le azioni – e raccontate a voce nella maggior parte dei comizi durante la campagna elettorale.
Trump si è mosso nello stesso momento secondo due direttrici diverse. In primo luogo ha inondato gli Stati Uniti di decine di ordini esecutivi (46 sono diventati operativi al momento della scrittura dell’articolo), rendendo impossibile per i media raccontare ognuno di questi, e soffermarsi sulle possibili implicazioni. L’ordine esecutivo è una direttiva del Presidente che non passa per il vaglio parlamentare, e non è quindi sottoposto a nessun contrappeso se non quello di aderenza al testo costituzionale. Il quadro derivato dall’utilizzo massivo di questa pratica da parte di Trump è sostanzialmente quello del caos, in cui ci si rende conto della portata impattante di questi ordini ma non si hanno i mezzi per comprenderne a fondo ognuno di essi. Il caos che ne deriva asseconda una volontà ben precisa, una situazione voluta e ricercata dalla presidenza. Non è, come spesso accadeva nel primo mandato, il risultato di interessi politici confliggenti all’interno dello Studio Ovale. Uno dei provvedimenti di cui si è parlato di più nei primi giorni è quello più smaccatamente anticostituzionale: Trump avrebbe voluto rimuovere lo Ius soli per i figli dei migranti irregolari, garantito negli Stati Uniti dal quattordicesimo emendamento alla Costituzione. Dopo pochi giorni, contestato da vari giudici, ha mollato la presa.
La seconda direttrice entro cui si è mosso Trump è quella dell’incertezza. Se le decine di ordini esecutivi hanno prodotto caos, e hanno attaccato direttamente i dipendenti pubblici del governo federale, non hanno però spiegato espressamente la loro finalità. La portata di questi ordini è contestata, e i dipendenti vivono una situazione di ansia tale per cui rischiano di perdere il lavoro per qualsiasi mossa che compiono o non compiono. Trump ha minacciato di licenziare tutti i dipendenti federali che non torneranno a lavorare in presenza entro il 6 febbraio, ha messo in aspettativa la maggior parte degli impiegati che lavoravano nei dipartimenti di Diversità e Inclusione (DEI), che si occupano quindi del rispetto delle normative legate all’assunzione di personale proveniente da minoranze, e ha addirittura creato un indirizzo email per poter denunciare anonimamente chi continua ad attenersi alle vecchie regole sulla diversity modificando semplicemente i nomi dei programmi in essere. Un vero e proprio sistema di delazione, che mette gli uni contro gli altri, e promuove i dipendenti a lui politicamente affini.
Ne scaturisce così una situazione ansiogena e pericolosa per i lavoratori, che potrebbero scegliere la via del licenziamento, facendo però cosa gradita all’amministrazione, che ha parlato di necessità di riduzione volontaria della forza lavoro. Nel frattempo Elon Musk ha ottenuto la possibilità di accedere all’Office of Personnel Management, la principale funzione HR per gli impiegati federali, e attraverso quello ha ricevuto tutti i dati dei lavoratori e ha potuto inviare una mail in ogni casella di posta, in cui l’amministrazione si impegnava a garantire otto mesi di stipendio in cambio del licenziamento volontario.
Il motivo per cui Musk abbia ottenuto l’accesso ai dati di vari enti federali non è chiaro, ma la realtà è che il dipartimento DOGE, di cui si era parlato come di un ente di consulenza per il taglio della spesa, sta assumendo una centralità politica all’interno dell’amministrazione. Siamo di fronte a uno scenario del tutto simile a quando il magnate sudafricano comprò Twitter: anche in quel caso, richiese la totale lealtà dei dipendenti e pretese il licenziamento di chi non volesse attenersi alle nuove linee guida, generando il caos nell’azienda. X ha perso quasi 85 milioni di fatturato rispetto alla gestione di Jack Dorsey, ma è diventato il megafono politico di Musk verso gli Stati Uniti e il mondo, la più importante grancassa del pensiero autoritario MAGA sul web. Inoltre, il neo-segretario al Tesoro, Scott Bessent, ha garantito a Musk e agli uomini di sua fiducia in DOGE l’accesso al sistema di pagamenti del governo federale, che gestisce più di sei miliardi di dollari. Il fatto che una persona non eletta e nemmeno membro formale dell’amministrazione possa aver accesso a questo sistema è allarmante: di fatto Musk, di sua iniziativa, può decidere di bloccare qualsiasi tipo di spesa governativa arbitrariamente, compresa quella per il welfare.
Le agenzie federali hanno poi subito un attacco massiccio e anch’esso anticostituzionale: attraverso un altro ordine esecutivo Trump ha disposto il congelamento di tutti i fondi che il governo alloca alle agenzie, compresi quelli già votati dal Congresso. Una misura revocata nella sua interezza, ma dalla portata talmente vasta che gli stessi membri del governo non sapevano chiaramente fin dove si estendesse: durante una conferenza stampa, la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha ammesso di non sapere se i fondi legati a Medicaid, l’assicurazione sanitaria governativa per le persone a basso reddito, sarebbero stati o meno congelati.
Nonostante non sia stato possibile procedere con una misura unica che congelasse i fondi, che è stata bloccata da un giudice, le varie agenzie non sanno come comportarsi: l’amministrazione ha intenzione di rivedere i soldi garantiti anno per anno a ognuna di queste, comprese agenzie che si occupano di garantire pasti caldi ad anziani e persone in difficoltà, come Meals on Wheels, che non ha ottenuto delle linee guida dal governo e ogni giorno teme di dover chiudere. L’ultimo attacco in ordine di tempo, propagandato su X da Elon Musk, è contro USAID, l’agenzia federale che si occupa di aiuto ai oaesi in via di sviluppo, che rischia di essere chiusa: Musk ha scritto che sarebbe controllata da “marxisti radicali lunatici” e per questo andrebbe smantellata. Per di più, è stata diffusa la notizia del tutto falsa che USAID avrebbe speso 50 milioni di dollari garantiti dai contribuenti per finanziare preservativi per i militanti di Hamas: una bufala, dato che l’agenzia spende 1 milione di dollari in preservativi, per la quasi totalità destinati all’Africa centrale in virtù delle politiche di contenimento dell’HIV, che lo stesso Trump aveva approvato nel primo mandato.
Un altro pilastro dell’incertezza che governa il mondo amministrativo è quello legato alle politiche di diversità e inclusione, di cui si parla espressamente nell’ordine esecutivo che ha lo scopo di definire per legge l’esistenza di soli due generi. La possibilità di denunciare il mobbing sul luogo di lavoro per motivazioni di discriminazione omofoba, che dovrebbe essere garantito da una sentenza del 2020 della Corte Suprema, non sembra più essere garantito nei fatti. Nuovamente, non ci sono linee guida precise, ma attacchi indiscriminati dei principali esponenti governativi che mettono sull’attenti chi si occupa del tema: non ultimo, Trump ha incolpato le politiche di diversity – senza nessuna prova – per il disastro aereo occorso qualche giorno fa nei cieli di Washington, che ha visto un elicottero militare scontrarsi con un volo di linea causando 67 vittime. Questo cambiamento radicale nelle politiche sta investendo anche l’università americana: molti professori si stanno lamentando che la National Science Foundation, ente governativo di supporto alla ricerca, sta bloccando i fondi statali a chi scrive determinate parole nei progetti di ricerca: si va da “diversity” a “gender equality”, ma anche termini molto più neutri, come “advocacy” e “marginalize”, sarebbero colpiti da divieto.
Un altro gruppo che sta subendo forti pressioni è l’FBI, il cui possibile nuovo direttore, Kash Patel, è in questo momento sotto scrutinio del Senato. Patel è una figura molto controversa, ospite per anni in podcast condotti da nazionalisti bianchi no-vax e sostenitore dell’idea che i media tradizionali non sarebbero altro che il braccio armato della politica dei democratici, volta a incarcerare gli oppositori. Gli agenti dell’FBI stanno subendo le stesse pressioni di tutti gli altri impiegati federali: il governo ha infatti richiesto i nomi di tutti gli agenti che, a vario titolo, hanno lavorato sui dossier riguardanti il fallito colpo di Stato del 6 gennaio.
La posizione dell’amministrazione, dopo i massicci provvedimenti di grazia a favore di qualsiasi imputato per crimini commessi quel giorno, è molto chiara: la volontà è cambiare la realtà, e definire il 6 gennaio un tentativo di golpe dei democratici in combutta con i burocrati. A questo scopo non possono rimanere al loro posto tutti quegli agenti che hanno indagato, arrestato e permesso ai procuratori di istruire processi contro i golpisti. L’agenzia di intelligence ha fatto sapere di ritenere questo tentativo di purga di agenti promosso dalla presidenza contrario a ogni legge: all’interno del Bureau, infatti, i casi vengono assegnati, non scelti, e nessun agente ha una qualsivoglia responsabilità per aver indagato sul 6 gennaio piuttosto che su qualsiasi altro evento criminoso. L’amministrazione, nonostante questo, ha licenziato sei ufficiali di rango dell’agenzia e una trentina di procuratori, tutti incolpati a vario titolo di cercare di condannare il Presidente.
Mentre le mosse di Trump e Musk sono sempre più chiare, con il loro tentativo di rimpiazzare i funzionari apolitici con personale direttamente selezionato dall’amministrazione, l’opposizione sta iniziando a coordinarsi per fare sentire la propria voce. C’è stata una manifestazione per chiedere che non venga smantellata USAID e i sindacati dei funzionari pubblici hanno protestato per il trattamento che i dipendenti stanno subendo. Un tentativo così chiaro di rovesciare i regolamenti amministrativi, con ordini esecutivi spesso platealmente incostituzionali, dovrebbe però generare una maggiore risposta. I tempi delle folle oceaniche che protestavano per i diritti delle donne nel 2016 o per i diritti riproduttivi nel 2022, o le occupazioni universitarie contro le politiche israeliane a Gaza l’anno scorso, sono lontani.
Gli stessi media sembrano quiescenti su quello che sta avvenendo: con poche eccezioni, le mosse di Trump e Musk vengono descritte con termini riferibili alle mosse politiche, possibilità di una nuova amministrazione, e non come uno smantellamento preciso delle garanzie costituzionali che reggono il sistema americano. Nonostante questo, alcuni campanelli d’allarme arrivano proprio dai giornali più affidabili del mondo conservatore: il Wall Street Journal, che nella sua sezione delle opinioni è sempre stato vicino ai repubblicani, ha iniziato ad allarmarsi per alcune delle mosse di Trump, tra cui la grazia ai golpisti del 6 gennaio e l’aver scelto l’antivaccinista Robert Kennedy a guidare la Sanità. Donald Trump ha ribattuto affermando che “il Journal si sbaglia sempre”, e lo ha fatto con l’editore del giornale, Rupert Murdoch, accanto a lui nello Studio ovale.
Gli Stati Uniti sembrano sempre più anestetizzati e inerti di fronte alle mosse caotiche ma scientificamente coordinate della nuova amministrazione: non rispondere, però, non fa altro che dare ancora più presa alle politiche del Presidente. A fare eccezione è TechDirt, blog fondato da Mike Masnick che si occupa da anni del rapporto tra le policy governative e il mondo tecnologico, che afferma apertamente: “Stiamo assistendo, in tempo reale, al passaggio da una democrazia costituzionale a qualcosa di più scuro e pericoloso. Oggi bisogna agire, prima che i meccanismi che consentono una possibile resistenza vengano smantellati del tutto”.
Immagine in anteprima: frame video NBC News via YouTube