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L’America che eredita Trump e la narrazione cupa e falsa della realtà che con lui ha preso il potere

20 Gennaio 2025 8 min lettura

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L’America che eredita Trump e la narrazione cupa e falsa della realtà che con lui ha preso il potere

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Oggi Donald Trump giurerà all’interno del Campidoglio, per via del freddo artico che sta colpendo Washington, e tornerà presidente degli Stati Uniti. Un evento del tutto impronosticabile solo quattro anni fa, quando sembrava che il fallito golpe del 6 gennaio avesse posto fine alla sua carriera politica. Una democrazia antica era stata sfidata in modo violento da un gruppo di persone che si sono opposte con la forza alla transizione pacifica dei poteri, e il tutto era stato ripreso nella sua interezza dalle televisioni del mondo intero. Proprio su cosa è stato il 6 gennaio, però, si è ricostruita la parabola trumpiana: il presidente ha riscritto per intero quello che abbiamo visto, definendo “atto di valore” un tentato golpe. Non più il tentativo di rovesciare la democrazia, ma di preservarla dai brogli delle elezioni rubate.

Anni dopo, è difficile non vedere come fin da subito la narrazione del mondo MAGA si è insinuata all’interno dell’informazione: già il giorno seguente l’insurrezione, in un’America scossa da quello che era accaduto, i deputati più vicini a Trump avevano detto alle televisioni che nessun vero repubblicano vi aveva preso parte, ma solo persone mascherate da supporter MAGA. Passato il tempo e archiviate le immagini violente, Trump ha pian piano riabilitato sé stesso e chi era al Campidoglio in suo nome: martiri, vittime perseguitate da un sistema corrotto che è riuscito a rubare le elezioni.

E proprio su questo ha combattuto la sua campagna elettorale: demolire lo Stato amministrativo, reo di aver costruito un golpe ai suoi danni, e sostituire i funzionari con persone a lui fedeli. Un rovesciamento del sistema, in cui la Commissione parlamentare che ha indagato sul 6 gennaio è diventata simbolo di antiamericanismo e Liz Cheney, la deputata repubblicana che ha collaborato coi democratici, “una falsa repubblicana che dovrebbe andare in galera, così come tutti gli altri”. Trump ha sfidato la verità, ha deciso che era lui stesso a definire cosa fosse vero, ed è arrivato persino a incidere una canzone, Justice for all, con i responsabili dell’intrusione in Campidoglio.

Una narrazione cupa, di lotta contro il sistema e che nega visibilmente la realtà ha vinto e si appresta a prendere le redini del potere, mentre sembra sempre più lontano il 20 gennaio di quattro anni fa. Quel giorno l’allora neo-presidente Joe Biden aveva imposto la sua visione degli Stati Uniti: aveva promesso di ricostruire l’anima del paese, che era devastato dagli scontri e dalla polarizzazione, e di preservare la grandezza dell’America, quella che aveva consentito a un ragazzino balbuziente della classe media di arrivare fino all’apice del potere.

L’obiettivo dei quattro anni di Joe Biden, prima ancora che politico, era culturale: dimostrare che gli Stati Uniti che avevano subito un attacco diretto dal loro interno potevano tornare a prosperare. Una scelta sbagliata per portare avanti questa narrazione è stata probabilmente la persona da lui selezionata per guidare il Dipartimento di Giustizia (DOJ), Merrick Garland, moderato non adatto al ruolo di istruire un’imputazione formale verso un ex presidente. La lentezza del DOJ è visibile anche nell’appena rilasciato rapporto di Jack Smith, secondo cui c’erano tutte le possibilità secondo le prove ottenute di istruire un processo e condannare Trump: quest’ultimo è riuscito a evitare il processo e una possibile condanna e gli Stati Uniti oggi sono un paese ancora più incattivito. Joe Biden doveva essere il traghettatore nella Costruzione di una nuova classe dirigente democratica: è stato, invece, il ponte tra il primo e il secondo mandato di Trump, fallendo nell’intento. Oggi è visto o come un uomo che ha lasciato troppo tardi il potere o come un golpista che lo ha usurpato per quattro anni, nella visione dei sostenitori di Trump.

Nei suoi quattro anni, però, Joe Biden ha tentato di cambiare gli Stati Uniti, principalmente attraverso nuovi importanti piani industriali: ha ereditato una nazione devastata dalla pandemia e l’ha resa economicamente in salute. Per farlo ha investito miliardi di dollari con l’Inflation Reduction Act, piano di contrasto alla crisi climatica che ha posto le basi per la costruzione di infrastrutture, specialmente in Stati più poveri e a maggioranza conservatrice. Le elezioni, però, hanno avuto come principale focus l’insicurezza per il fenomeno migratorio e una rivolta generale contro l’aumento dei prezzi dovuto all’inflazione: Biden ha perso consenso e non è riuscito a rassicurare gli americani sull’importanza nel medio termine di quello che stava costruendo. Per fare un esempio, nella città di Liberty, in North Carolina, l’Inflation Reduction Act ha permesso un forte investimento di Toyota per la costruzione di un nuovo stabilimento che nei prossimi anni porterà migliaia di posti di lavoro: nella contea di Randolph, però, dove Liberty è situata, Trump ha ottenuto il 78% dei voti.

Prima di lasciare definitivamente il potere Biden ha tenuto il suo ultimo discorso ufficiale dallo studio ovale, in cui ha rimarcato che i risultati della sua amministrazione si vedranno nel futuro. Nel discorso ha poi messo in guardia gli americani da un’eccessiva concentrazione del potere nelle mani di pochi ricchi e degli individui a loro connessi, arrivando a citare il “complesso tecnologico-industriale”, che riecheggia il complesso militare-industriale da cui metteva in guardia Eisenhower alla fine della sua presidenza.

Entrando quindi nella nuova presidenza Trump, in cui saremo catapultati sin dalla firma dei primi ordini esecutivi stasera, è interessante notare alcuni parallelismi su come gli Stati Uniti stanno vivendo la situazione. La sconfitta di Hillary Clinton nel 2016, dopo uno shock iniziale, aveva generato un risveglio politico in molti americani: nei giorni dell’inaugurazione si era tenuta un’imponente marcia di donne a Washington, che protestavano per i trattamenti violenti che Trump riservava al sesso femminile. Successivamente il Washington Post, quotidiano di proprietà di Jeff Bezos, ha lanciato il suo nuovo slogan, 'Democracy dies in darkness', e per tutti i quattro anni il giornale, mantenendo il consueto standard e rigore giornalistico, è stato visto come un’alternativa culturale al trumpismo. Oggi il paese è invece molto disilluso: ci sarà una seconda edizione della marcia del 2016, ma gli organizzatori hanno già fatto trapelare che parteciperanno molte meno persone. Se otto anni fa la vittoria del tycoon fu clamorosa, oggi non lo è più: la vittoria anche del voto popolare, oltre che del collegio elettorale, ha cementato il movimento MAGA come una forza solida della politica statunitense.

Anche per questo, i grandi imprenditori del settore tecnologico, da cui Biden ha messo in guardia gli americani nel suo discorso d’addio, non hanno esitato a riposizionarsi. Se nel 2017 la posizione di gran parte della Silicon Valley era contraria a Trump, oggi quasi tutti i multi-miliardari si sono allineati, andando a Mar a Lago a dimostrare l’adesione all’agenda del nuovo presidente, che ha tra l’altro promesso sostanziosi tagli alle tasse. Mark Zuckerberg, Ceo di Meta, ha eliminato la garanzia di fact-checking nelle notizie che appaiono sui suoi social network, sostituendola con la segnalazione individuale degli utenti, come fatto da Elon Musk dopo aver acquistato Twitter. Ha poi inserito nel board dell’azienda Dana White, creatore della promotion di arti marziali miste UFC e amico personale di Trump, ed eliminato i programmi di Diversità, equità e inclusione (DEI) dell’azienda. L’attacco aperto alle politiche DEI è stato attuato da molte grandi aziende americane, che non ritengono più redditizio adottare politiche di supporto alle minoranze.

Anche la situazione della stampa è sempre più critica, tra riconsiderazioni editoriali e paura per il futuro. Il Washington Post di Bezos ha subito un terremoto pochi giorni prima delle elezioni, quando l’editore stesso ha bloccato l’endorsement a Harris della redazione, dicendo che il giornale sarebbe dovuto rimanere terzo. Jeff Bezos ha successivamente versato un milione di dollari nel Comitato per l’inaugurazione del nuovo presidente. Molti giornalisti sono seriamente preoccupati dei toni che il neo-presidente ha usato contro la stampa negli anni, definendo tutti i giornalisti che non hanno propagandato le sue idee “nemici del popolo”: la tesi più probabile è che sotto la nuova presidenza cresceranno esponenzialmente le diffamazioni verso i giornalisti, anche senza alcuna possibilità di vincere la causa. Le azioni giudiziarie, vittoriose o meno, costano sempre soldi e questo scoraggia piccole redazioni e giornalisti indipendenti a seguire storie che potrebbero farli incorrere in guai legali. Le aziende editoriali, poi, si stanno dimostrando ben disposte verso Trump, in contrasto con le redazioni: oltre al Washington Post, anche il Los Angeles Times ha subito il blocco dell’endorsement ad Harris per lo stesso motivo, e Abc ha deciso invece di non andare in tribunale per un caso di diffamazione intentato da Trump, ma di patteggiare per la cifra di 15 milioni.

Questo clima di obbedienza anticipata, in cui molti fanno a gara per entrare nelle grazie del presidente, rischia però di non avere vita lunga: le persone che hanno sostenuto Trump, con più o meno interessi, hanno richieste diverse per il presidente, e spesso in controtendenza tra loro. La destra radicale MAGA e gli oligarchi tech hanno posizioni opposte: se i primi vogliono una chiusura totale dell’immigrazione e la fine dello Ius Soli, i secondi invece sanno che l’immigrazione qualificata – pagata meno rispetto ai professionisti americani – ha fatto prosperare le loro aziende. Il duello tra Elon Musk, il magnate più vicino a Trump, e l’attivista trumpiana Laura Loomer si è svolto proprio su questo: la donna ha utilizzato frasi violente e razziste, affermando che gli Stati Uniti sono stati costruiti da bianchi europei, non da invasori del terzo mondo. Lo stesso Steve Bannon, uno degli ideologi del movimento MAGA, in un’intervista al Corriere della Sera ha detto che Musk “ha la maturità di un bambino”.

Un altro possibile momento di scontro sarà all’interno della coalizione di chi ha votato Donald Trump, sostenuto dai super-ricchi e da persone indigenti: queste due classi hanno opposti interessi economici. Il messaggio politico della campagna, radicalmente anti-immigrazione, era rivolto ai poveri: votare per Trump voleva dire meno competizione nei lavori sottopagati e più sicurezza. I ricchi che invece hanno finanziato e sostenuto il presidente si aspettano massicci tagli alle tasse con lo smantellamento di molti programmi federali di contrasto alla povertà, che vanno a svantaggio di quelle classi che hanno votato Trump con percentuali altissime.

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Nel frattempo il tycoon ha cambiato prospettiva del discorso: ha parlato meno di politica interna, che si è rivelata divisiva tra i suoi sostenitori, e ha caldeggiato l’acquisizione del controllo del Canale di Panama e della Groenlandia, e la possibilità che il Canada possa diventare il cinquantunesimo Stato. Al netto delle affermazioni, che si rifanno molto all’idea di controllo statunitense dell’intero continente americano molto in voga nell’Ottocento, Timothy Snyder, storico di fama internazionale, ha messo in guardia sul fatto che in questo modo un’autorità come il Presidente degli Stati Uniti sta delegittimando l’ordine legale mondiale, aprendo alla possibilità di cambiamenti sulla cartina geografica. Lo stesso ordine legale che Putin vorrebbe riconsiderare annettendo l’Ucraina, e che la Cina vorrebbe modificare invadendo Taiwan: sarebbe proprio Trump, in questo contesto, a eliminare gli argomenti legali più forti contro i due dittatori.

Donald Trump, nonostante una retorica cupa e autoritaria, è tornato al potere in modo perfettamente legale. In caso il tycoon dovesse instradarsi in un progetto compiutamente autoritario, il mandato scaturitogli da un’elezione democratica sarà più forte contro i possibili oppositori. In questi mesi passati tra la vittoria e l’insediamento, però, di opposizione, politica e civile, non si è parlato: come ha scritto il New York Times nell’articolo che raccontava la vittoria del tycoon, “dopotutto, questa è l’America di Donald Trump”.

Immagine in anteprima via startmag.it

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