L’economia di Trump: un ritorno al passato che favorirà i ricchi
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Le elezioni presidenziali americane hanno visto la vittoria del candidato repubblicano Donald Trump, che torna così alla Casa Bianca dopo quattro anni. Dal punto di vista economico, la vittoria di Trump arriva in un momento estremamente sfaccettato per l’economia americana. Gli indicatori macroeconomici, come la crescita del PIL e l’occupazione segnalano un ottimo stato di salute per il paese. Allo stesso tempo l’ondata di inflazione, anche al netto di un rialzo dei salari reali nell’ultimo periodo, ha lasciato i suoi segni sulla popolazione, diminuendone il potere d’acquisto. A questo vanno aggiunti problemi che interessano il paese da anni: su tutti disuguaglianze, mancanza cronica di buoni lavori e declino della manifattura.
Il ritorno di Trump alla Casa Bianca, influenzato dai timori delle fasce meno abbienti, porterà però a una rottura con la Bidenomics. Durante il suo mandato presidenziale, infatti, Biden ha portato avanti una politica industriale più interventista e un tentativo di ridare centralità ai buoni lavori. Al contrario, le politiche economiche - e non solo - proposte da Trump durante la campagna elettorale sono un ritorno al passato, un ampliamento di misure già messe in atto durante la sua prima amministrazione.
Di cosa parliamo in questo articolo:
Un’amministrazione già vecchia: dai dazi ai tagli alle tasse
Due sono i provvedimenti principali del programma economico di Donald Trump e del suo movimento MAGA: il primo riguarda i dazi doganali, mentre il secondo è incentrato sulla riconferma del Tax cuts and jobs act (TCJA), provvedimento voluto da Trump durante la sua prima amministrazione e che sarà confermato e ampliato, secondo i piani del presidente eletto.
Partiamo dai dazi doganali, ovvero le imposte sui beni che vengono introdotti all’interno di un determinato paese. Sono ormai uno strumento centrale nella politica economica americana. Se durante la sua precedente amministrazione i dazi sui prodotti importati erano contenuti, durante la campagna elettorale il candidato repubblica ha lasciato intendere una svolta più mercantilista e aggressivo, con un aumento tra il 10 e il 20 per cento per i beni importati dal resto del mondo e un aumento al 60 per cento per i beni provenienti dalla Cina.
La ragione dietro questa politica risiede nella crisi che affronta l’industria statunitense, inserita sempre di più nella guerra commerciale con la Cina: secondo i dati, gli Stati Uniti negli ultimi anni presentano una bilancia commerciale sui beni pesantemente negativa. Questo significa che il valore dei beni importati negli USA è di gran lunga superiore rispetto a quello dei beni esportati negli altri paesi, segnalando quindi criticità nel settore industriale. D’altronde anche l’amministrazione Biden aveva mantenuto i dazi di Trump e li aveva alzati per determinati prodotti cinesi.
Secondo Trump e i suoi sostenitori, i dazi andranno a sostenere l’industria statunitense e ad attrarre investimenti stranieri. A suo supporto, i sostenitori citano la politica di dazi doganali messa in piedi dagli Stati Uniti d’America nell’800 che permise lo sviluppo della sua industria.
Ma dal punto di vista generale quale sarà l’impatto dei dazi sull’economia americana? Proprio l’esperienza durante la precedente amministrazione Trump ci suggerisce che gli effetti non saranno positivi.
L’aspetto principale è su chi peserà di più il provvedimento. I dazi sono formalmente pagati dall’azienda che importa questi beni per immetterli nel mercato, dopo averli acquistati da un fornitore straniero. In questa situazione abbiamo quindi tre attori: le aziende del paese che importano, i fornitori delle aziende americane che stanno esportando e i consumatori del paese. Se i dazi sono pagati formalmente dall’azienda importatrici non è scontato chi in concreto andrà a subirne il costo tra gli attori citati sopra.
Come spiegato dalla BBC, ci sono tre scenari teoricamente possibili. Il primo vede il costo dei dazi sostenuto dalle aziende esportatrici. Queste potrebbero abbassare il loro prezzo di vendita per evitare che le aziende importatrici si trovino davanti a un aumento dei costi, decidendo di acquistare da un altro acquirente a un prezzo più basso, soprattutto quando non c’è disponibilità interna.
Il secondo scenario vede i costi sostenuti dalle aziende importatrici. I dazi infatti andrebbero a limitare la quota di profitti che deriverebbero dalla vendita del prodotto: in questo scenario le imprese non scaricherebbero i maggiori costi sostenuti per pagari i dazi sui consumatori americani per il timore che, con un aumento dei costi, vi sia una riduzione della domanda.
Il terzo scenario è che i dazi vengano scaricati, anche solo in parte, sui consumatori americani, che così si troverebbero a pagare di più i prodotti importati. Uno scenario che provocherebbe un aumento dell’inflazione: le aziende dovrebbero assorbire la spesa dei prodotti che importano per produrre un determinato bene e, si vedrebbero costrette ad aumentare i costi per mantenere inalterati i loro profitti.
Tutte e tre queste ipotesi sono sul campo, ma gli esperti e l’evidenza empirica ritengono più probabile la terza.
Una survey svolta tra gli economisti del Kent Clark Center ha riscontrato un elevato livello di accordo sul fatto che saranno proprio i consumatori americani a pagare per i dazi. La situazione, come sottolineato dagli stessi economisti, è estremamente complessa e dipende da una moltitudine di fattori, ma nella situazione in cui si trovano gli USA oggi questo è l’esito più probabile.
Anche l’evidenza empirica, come rivela un lavoro che tenta di sintetizzare i risultati ottenuti sulla guerra commerciale alla Cina, sottolinea come siano proprio i consumatori americani ad aver pagato di più i dazi. Questo, ribadiamo, significherebbe un aumento dell’inflazione, che proprio in questi ultimi mesi era stata domata dagli interventi della FED, la banca centrale americana.
Anche sul fronte della protezione dei lavoratori e del rilancio dell’economia l’impatto dei dazi è stato insignificante, riscontra uno studio condotto da David Autor, professore di economia al MIT, e da colleghi. C’è però un aspetto, sottolineano gli autori, in cui i dazi hanno avuto effetti: nel sostegno elettorale al partito repubblicano. Gli elettori delle zone che avevano subito le conseguenze economiche della concorrenza delle importazioni cinesi si sono mostrati propensi a identificarsi come supporter di Trump e dei repubblicani.
Come tutte le imposte, è importante sottolineare che uno degli effetti dei dazi ricadrà sul gettito degli Stati Uniti. Come mostra il grafico elaborato dal Council of Economic Advisers, cioè l’ente che consulta il Presidente degli Stati Uniti, i dazi sono stati una fonte di gettito ingente quando erano su livelli elevati.
Questo effetto positivo si scontra però con il secondo provvedimento principale che verrà riconfermato: il Tax cuts and jobs act (TCAJ). Durante il suo primo mandato, con il TCAJ Trump cambiò radicalmente il sistema fiscale statunitense, riducendo le tasse sugli individui e sulle imprese, cercando di rendere più competitivo il paese.
Tra i provvedimenti contenuti nel TCAJ, due sono di fondamentale importanza: il primo era la riforma del sistema delle aliquote per l’imposta sul reddito; il secondo era un taglio dell’imposta sulle società (la cosiddetta Corporate tax) dal 38 al 21 per cento. Durante la campagna elettorale Donald Trump ha dichiarato di voler abbassare ulteriormente quest’ultima per le aziende che producono in America, portandola al 15 per cento.
Per quanto riguarda il taglio dell’imposta sul reddito, come suggerisce un’analisi del think tank progressista Center on Budget and Policy Priorities, i benefici sono perlopiù per i contribuenti più ricchi, configurandosi quindi come un taglio delle tasse che li favorisce. Un risultato analogo lo fornisce un altro think tank, il Peterson Institute for International Economics.
Questi provvedimenti non hanno effetti sull’occupazione o sul PIL, ma vanno soltanto ad aumentare le disuguaglianze. Per questo motivo, il taglio delle tasse comporta un aggravarsi della situazione sul fronte debito pubblico. Ecco perché i maggiori introiti che potrebbero derivare dall’innalzamento dei dazi non riuscirebbero a compensare il mancato gettito del piano fiscale di Trump.
Non va meglio sul versante dei tagli alla Corportate tax. Una ricerca recente, che prende in considerazione l’evidenza empirica accumulata negli anni sul tema, sottolinea come le stime di crescita collegate al provvedimento non siano significative e che quindi occorra procedere con cautela, comprendendo in maniera più dettagliata gli effetti, ad esempio sugli investimenti in ricerca e sviluppo.
Le principali politiche di Trump, quindi, non andranno in realtà a discapito di quelle fasce meno abbienti che hanno subito l’inflazione di questi anni e saranno un regalo ai ricchi su tutta la linea. Si tratta di una strategia nota per la destra radicale. Per raccogliere i consensi, la formula vincente indicata dai ricercatori è quella di combinare narrazioni economiche “di sinistra” con una svolta a destra a livello culturale. Anche queste, però, hanno un loro peso economico.
Gli effetti economici della svolta reazionaria
Non c’è però solo l’aspetto delle policy economiche da considerare. La vittoria di Trump, infatti, porterà infatti a una svolta reazionaria senza precedenti nella politica americana. Durante la campagna elettorale, infatti, Trump ha ricevuto il supporto da attivisti e creator della destra più reazionaria o radicale, che considerano l’America indottrinata dalla cosiddetta “ideologia woke”. Proprio questi creator offrono rifugio a quei maschi bianchi sempre più soli e in crisi che hanno contribuito al successo elettorale di Trump.
In particolare, è ancora sulla lotta all’immigrazione che Trump vuole puntare. Durante la campagna elettorale sia lui che il suo vice JD Vance non hanno risparmiato attacchi immigrati e diffusione di bufale contro le minoranze etniche immigrate negli USA. In un tweet, ad esempio, JD Vance ha accusato la comunità di immigrati haitiani non solo di sfruttare il welfare state, ma addirittura di mangiare animali domestici. Accusa rincarata da Trump durante il dibattito con Kamala Harris (“they’re eating the dogs, they’re eating the cats”).
Months ago, I raised the issue of Haitian illegal immigrants draining social services and generally causing chaos all over Springfield, Ohio.
— JD Vance (@JDVance) September 9, 2024
Reports now show that people have had their pets abducted and eaten by people who shouldn't be in this country. Where is our border czar? pic.twitter.com/rf0EDIeI5i
Questo è ancora una volta legato alla formula vincente. Il pugno duro “sull’immigrazione clandestina”, oltre a una matrice razzista e xenofoba, ha sempre di più assunto dei connotati sociali, facendo leva su un’idea superficiale derivante dalla teoria economica.
Per i sostenitori della tesi secondo cui l’immigrazione andrebbe a peggiorare la situazione dei lavoratori nativi, gli immigrati andrebbero ad aumentare l’offerta nel mercato del lavoro, ma accontendandosi di salari più bassi che danneggerebbero i lavoratori meno specializzati. Proprio per via di questo flusso di immigrati disposti a lavorare per paghe basse, il salario a cui si assesta il mercato si abbasserebbe. George Borjas, economista di Harvard, ha stimato che nel caso americano l’immigrazione avrebbe portato a un calo significativo dei salari dei nativi che non hanno completato le scuole superiori.
Tuttavia la maggioranza degli studi empirici concorda sul fatto che l’immigrazione abbia perlopiù effetti positivi, sia riguardo l’occupazione sia riguardo la competizione tra nativi e immigrati. Uno degli studi più importanti sul tema risale addirittura agli anni ‘80 ed è stato svolto dal Premio Nobel per l’Economia David Card. Utilizzando una tecnica econometrica innovativa, Card studiò l’esodo degli immigrati cubani, conosciuto come “Esodo di Mariel”. Secondo Card, questa migrazione, caratterizzata perlopiù da lavoratori con competenze basse, portò a un aumento della forza lavoro del 7 per cento nella città di Miami, un aumento di dimensioni considerevoli. Questo non ebbe però effetti sui salari dei nativi, e anzi le aziende assorbirono la nuova forza lavoro.
Lo studio portò a un maggior interesse all’interno della comunità economica sull’impatto dell’immigrazione sui nativi. Come rileva un articolo dell’Institute of Labor Economics che riassume trent’anni di ricerca sul tema, non c’è evidenza che l’immigrazione danneggi i lavoratori nativi, ma anzi le aziende rispondono in maniera positiva a questo aumento di manodopera.
Come spiegano i due economisti Premi Nobel Esther Duflo e Abhijit Banerjee nel loro libro Una buona economia per i tempi difficili, i risultati mostrano come sia superficiale l’idea secondo cui gli immigrati abbasserebbero il salario dei nativi. Non tiene conto di due fattori.
Primo, se è vero che gli immigrati che entrano nel mondo del lavoro vanno ad aumentare l’offerta di lavoro, allo stesso tempo la loro occupazione va a influire sulla domanda di beni e servizi. Detto in maniera meno tecnica: gli immigrati, trovano un lavoro, hanno soldi da spendere e quindi le aziende si trovano a produrre di più per soddisfare i bisogni di una popolazione in crescita.
Un ottimo controesempio su questo tema viene da uno studio su un caso di immigrazione dalla Repubblica Ceca alla Germania. Analizzando i lavoratori al confine tra i due paesi, che lavorano in Germania ma spendevano i loro soldi prevalentemente in Repubblica Ceca, gli autori dello studio hanno stimato una diminuzione dei salari e un calo dell’occupazione dei nativi. La componente dei consumi è quindi fondamentale.
In secondo luogo, c’è l’aspetto complementari/sostituti. Quando due “beni” sono sostituti significa che possono sostituirsi tra di loro per soddisfare un certo bisogno. Al contrario, i beni complementari sono quelli in cui il consumo di uno è legato all’altro. Non esiste un “mercato del lavoro”, ma vari mercati che si intersecano tra di loro. Spesso gli immigrati svolgono una mansione diversa e complementare rispetto ai nativi, non andando quindi a competere tra di loro. Proprio l’Italia offre un esempio paradigmatico su questo fronte: gli immigrati si concentrano in settori come l’agricoltura o i lavori di cura degli anziani, che non sono svolti dai nativi.
Le politiche di Trump in materia di immigrazione potrebbero quindi danneggiare l’economia americana, andando a togliere da una parte manodopera alle imprese, dall’altra una componente di consumo che, allo stato attuale, va ad aumentare la produzione delle imprese.
Un’economia contro i più fragili
Con Trump a pagare il prezzo dei benefici per le classi più abbienti saranno la classe media e lavoratrice (che vedrà un aumento dell’inflazione), unita a minoranze come gli immigrati. Questo, è bene ricordarlo, nonostante una parte considerevole della classe media e lavoratrice bianca abbia votato proprio per il candidato repubblicano. Si tratta di un esempio pratico di quanto la formula vincente per la destra radicale finisca per sortire effetti opposti a quanto promesso, nonostante venga connotata come “populista”.
Si spiega anche così il sostegno a Trump di uomini tra i più ricchi e influenti del paese, i cosiddetti “tech bro” o “broligarchi”. Su tutti, basta citare due esempi paradigmatici. Il primo è ovviamente Elon Musk, che con X ha dato sempre più risalto alle opinioni della destra radicale in nome della libertà di parola; proprio ieri Trump ha annunciato che Musk guiderà il Dipartimento per l'Efficienza Governativa. Il secondo è Peter Thiel, di cui JD Vance è di fatto una creatura. Thiel è uno dei più importanti venture capitalist nel paese con opinioni che nel corso del tempo si sono radicalizzate. Gay, libertario di destra, afferma da tempo come democrazia e capitalismo siano incompatibili tra loro.
Questo lascia presagire un rapporto sempre più stretto tra la Presidenza e l'élite economica. A partire dai fondi federali, di cui Musk e Thiel sono ghiotti nonostante le loro posizioni pro mercato. Una situazione simile va a creare un ambiente che difende le rendite già acquisite e non garantisce il dinamismo dell’economia. Per non veder minacciati i loro imperi, si pensi alle auto cinesi che possono competere con Tesla, lo Stato si erge a fortezza che li difende. Allo stesso tempo, soprattutto nel caso di Elon Musk, il potere mediatico dei social viene mobilitato per la propaganda dell’amministrazione. In questo modo gli ambienti reazionari e l’amministrazione lavorano in sinergia per spostare ancora più a destra gli Stati Uniti e allo stesso tempo consolidare il proprio potere, sia esso politico o economico.
L’influenza che avrà questo legame così stretto potrà comprendersi solo negli anni, ma già oggi abbiamo evidenza di quanto l’attività di lobbying dei miliardari stia avendo effetti distruttivi sull’ambiente, sulle disuguaglianze e sulla democrazia.
C’è però una precisazione che è necessario fare, in chiusura. L’andamento dell’economia di un paese dipende da una miriade di fattori e la maggior parte di questi non sono in mano ai governi e ai parlamenti. Ciò significa che nonostante l’impatto di Trump sarà molto probabilmente negativo non è scontato che questo porterà a un calo del PIL, della disoccupazione o una recessione.
Proprio su questo aspetto, come sappiamo bene in Italia, potrebbe innestarsi la retorica trumpiana di governo. Già durante la prima amministrazione Trump aveva sostenuto di aver contribuito a rendere la situazione economica migliore di sempre. Si trattava, oltre che di un’esagerazione, di una dichiarazione che non teneva conto- coscientemente- che i trend nel mercato del lavoro, per fare un esempio, erano immutati rispetto all’Amministrazione Obama.
Perciò è importante quanto detto prima su Elon Musk e la mobilitazione di certe camere di risonanza della destra. Qualora, infatti, gli Stati Uniti dovessero entrare in una fase di recessione economica, questi spazi sarebbero l’amplificatore perfetto per giustificazioni come la presenza di nemici esterni ed interni che minano il suo piano di rilancio dell’economia. Non è difficile immaginare Trump affermare che a indebolire l’economia sono le grandi aziende vicine alla sinistra e alla “cultura woke”, o qualunque altra versione di comodo utile a creare una realtà alternativa che non veda responsabile il suo governo.
Immagine in anteprima: Gage Skidmore from Peoria, AZ, United States of America, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons