Elezioni Usa 2024, la guerra interna ai Repubblicani e chi è Ron De Santis, l’erede non riconosciuto di Trump
6 min lettura“There will be blood”, scorrerà il sangue. Non c’è nessuno che osservando la reazione del partito repubblicano al pessimo risultato elettorale delle elezioni di metà mandato non abbia usato una metafora truculenta per descrivere quel che ci si aspetta. A pochi giorni dal voto e con l’esito non ancora definitivo (un seggio al Senato da assegnare e una risicata maggioranza alla Camera di cui non sono certe le dimensioni) il partito si trova precipitato nelle primarie per il 2024. L’ex presidente Donald Trump ha annunciato che tornerà a correre per la presidenza, l’astro nascente repubblicano, il governatore della Florida Ron DeSantis ha parlato a porte chiuse a una cena di donatori e governatori del suo partito, l’ex presidente Mike Pence ha pubblicato una biografia di quelle che portate in giro per presentazioni servono a testare il terreno per un’eventuale corsa presidenziale.
Ma non c’è solo la corsa per la presidenza, un fronte non indifferente di senatori aveva proposto di rinviare l’elezione del leader in Senato fino a quando non si saprà se i Repubblicani, oltre a rimanere in minoranza, perderanno anche il ballottaggio per il seggio della Georgia. Mitch McConnell, un abile stratega parlamentare privo di scrupoli o di punti fermi che non siano accrescere la presa del suo partito sulle istituzioni, è stato rieletto (36 voti a 10) ma senatori del calibro di Marco Rubio e Ted Cruz avevano chiesto che la sua nomina venisse rinviata e Rick Scott, senatore tendenza Trump, si era candidato come alternativa. Lo scontro tra i senatori è tra coloro che ritengono che la causa della sconfitta siano i pessimi candidati sostenuti alle primarie da Trump, “gli attacchi, la negatività, gli eccessi che hanno spaventato gli elettori indipendenti” (McConnell) e chi pensa che sia stata la strategia e la distribuzione delle risorse da parte del leader del Senato ad aver fallito. Molti, tra coloro che hanno chiesto di posticipare il voto, hanno sostenuto comunque McConnell, ma tra le voci critiche nei suoi confronti ci sono alcune figure di spicco del partito. Diversi sono anche tra coloro che aspirano a candidarsi alle primarie presidenziali o a pesare di più in Senato - McConnell contratta con Biden, decide e comanda per contro proprio.
Torniamo ai candidati per la presidenza. Della ricandidatura di Trump sappiamo diverse cose. L’ex presidente ha costruito una squadra di consiglieri per reclutare alleati locali e definire le policies e un gruppo di manager della campagna piuttosto piccolo e fidato, qualcosa che somiglia più alla strategia del 2016 che non a quella 2020. La squadra è al lavoro da tempo e l’ex presidente ha a disposizione elenchi di elettori e donatori frutto delle sue corse precedenti, e molte risorse raccolte negli anni denunciando il furto elettorale e la “caccia alle streghe” che sarebbe stata intentata contro di lui dai poteri forti democratici. Il discorso di lancio della campagna indica che il messaggio non cambia: milioni di immigrati alle porte, il crimine dilaga, il paese è in piena decadenza e le cose peggioreranno mentre “due anni fa, quando ho lasciato il mio incarico, gli Stati Uniti erano pronti per la loro età dell'oro; il paese era all'apice del potere, della prosperità e del prestigio” e l’inflazione era all’1% perché "ho pensato che fosse la cosa migliore". Come sempre i discorsi di Trump sono pieni di insulti, esagerazioni e dati manipolati o inventati - esempio: all’ingresso di Trump alla Casa Bianca l’inflazione era all’1,26%, nel 2020 all’1,24%. L’altro aspetto del messaggio di Trump è “siamo un movimento, non sono io, ma siamo noi”, che è un modo di consolidare la base militante del Make America Great Again.
Il problema di Trump è che oggi chiunque può dipingerlo come un perdente (looser è un termine che Trump usa spesso per denigrare) e che donatori, figure pesanti del mondo conservatore dentro e fuori il Partito Repubblicano, ritengono che il suo momento sia passato. Tra questi anche i super finanzieri e finanziatori del Grand Old Party, Griffin (Citadel) e Schwartzman (Blackrock), il magnate dei media Rupert Murdoch e la figlia dell’ex presidente Ivanka, che assieme al marito Jared Kushner sono state figure centrali della Casa Bianca trumpiana. Difficilmente Trump si farà da parte senza danneggiare gli avversari delle primarie, denigrarli, renderli indigesti alla sua base. Una quota non piccola della base e dei media alla destra di Fox News probabilmente lo seguirà. Il sospetto è che Trump si candidi per evitare guai giudiziari. Il problema per il Partito Repubblicano non è tanto se Trump vincerà le primarie - molto difficile - ma quanti danni riuscirà a fare prima di perdere la nomination. Peggio ancora se dovesse decidere di correre da indipendente dopo aver perso le primarie. È pur vero che l’ex presidente è sembrato politicamente morto più volte (il 6 gennaio, dopo il video in cui spiegava che con le donne faceva quel che voleva e così via) e invece non ha mai perso la fiducia della base repubblicana.
La figura che appare come l’alternativa migliore all’ex presidente è Ron De Santis, che ha trionfato in Florida e vinto la contea di Miami per la prima volta in decenni. La Florida è il terzo Stato più popoloso e questo è un fattore importante per le primarie e per le elezioni. Il governatore è stato un fedele alleato di Trump ma lo ha scaricato da tempo e il giorno dopo il voto, parlando del brand Trump, ha più o meno detto: guardate i risultati elettorali e ditemi se funziona ancora.
De Santis è una perfetta alternativa all’ex presidente perché tiene assieme le capacità di un politico abile e navigato, dedito a ottenere risultati, e l’aggressività e la radicalità che hanno reso popolare l’ex presidente. Figlio di una famiglia della lower middle class, De Santis ha studiato e lavorato, giocato a baseball, fatto il militare: in poche parole un curriculum perfetto per un politico che ha bisogno di una narrazione. Da governatore ha rigettato l’obbligo delle mascherine, riaperto lo Stato prima di altri (misura popolare tra chi non è morto), fatto approvare una legge che vieta gli insegnamenti gender nelle scuole e ingaggiato altre battaglie contro la critical race theory, l'immigrazione fuori controllo, gli oligarchi liberal e di sinistra, le Big Tech, gli atleti transgender. Tutte battaglie culturali di quelle che che piacciono alla base di Trump. Parallelamente lo Stato della Florida ha attratto popolazione e business grazie alle sue tasse basse (uno dei 10 Stati dove non si pagano tasse sul reddito).
Quello di De Santis è dunque un trumpismo razionale: il governatore della Florida è un conservatore radicale, detesta l’intervento pubblico e promette vendetta a quel mondo arrabbiato che ha garantito il successo di Trump, ma lo fa usando le proprie doti di politico e non di intrattenitore e imbonitore. De Santis è insomma l’uomo adatto per traghettare il Partito Repubblicano oltre il trumpismo utilizzando certi toni e modi per continuare a galvanizzare la base militante, per non perdere quegli elettori marginali che possono cambiare il corso di un’elezione. Nel sistema uninominale secco e in un paese così grande e polarizzato bisogna saper non perdere gli elettori più radicali senza spaventare quelli moderati.
Un terzo incomodo in questa sfida potrebbe essere l’ex vicepresidente Pence, che nel libro fresco di stampa (“So help me god”) prende le distanze dall’assalto al Congresso del 6 gennaio 2020, rivendica il fatto di aver certificato il risultato elettorale come previsto dalla costituzione, ma non critica Trump per nessun’altra ragione. Pence ha dalla sua la base cristiano evangelica, l’essere stato vice di Trump e un conservatorismo radicale con la faccia buona del religioso. Ma tra i due populisti, per ora sembra spacciato. Certo che a domanda su Trump, ha risposto: “Credo che avremo candidati migliori”.
Come accade a ogni forza politica che perde le elezioni in un sistema maggioritario secco e bipartitico, il Partito Repubblicano passerà mesi a capire dove e cosa abbia sbagliato. Siamo solo all’inizio di uno scontro potenzialmente furibondo. Attenzione però a immaginare un partito che si spacca o che arriva indebolito al voto per colpa delle divisioni interne: durante le primarie del 2016 due dei critici più aspri di Trump furono i senatori Cruz e Graham, durante la presidenza Trump gli stessi senatori furono tra gli alleati più vicini al presidente.
Immagine in anteprima: Frame video NewsNation via YouTube