Suprematisti bianchi, razzisti, estrema destra: l’internazionale sovranista dagli USA al Brasile passando per l’Europa
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Era il 6 luglio 2017, l’allora fresco di nomina presidente Donald J. Trump pronunciò a Varsavia il discorso programmatico del suprematismo transnazionale, ovvero come coniugare quell’America First che gli era probabilmente valsa la conquista della Casa Bianca, con una retorica di “comunità di nazioni” unite dal comune nemico del terrorismo internazionale di marca islamista. Ad accomunare le nazioni “sorelle” c’era però secondo Trump anche un altro elemento, magistralmente evocato proprio in un paese ex comunista come la Polonia allora guidata da un governo di destra euroscettico: l’Occidente si trova a far fronte a una minaccia “interna” alla propria libertà, la graduale erosione delle libertà individuali ad opera dello Stato. Disse allora Trump: “Sulle due sponde dell’Atlantico, i nostri cittadini si trovano a far fronte a un altro pericolo. Per alcuni questo pericolo è invisibile, ma i polacchi lo conoscono bene: il costante insinuarsi della burocrazia governativa che prosciuga la vitalità e il benessere delle persone. L’Occidente è diventato grande non grazie alle scartoffie e alle regolamentazioni, ma perché le persone hanno potuto inseguire i propri sogni e realizzare i propri destini”.
Lo Stato “nemico”
Questo trumpiano “sovranismo nazionalista” “à la carte” che riusciva a ispirare gli isolazionisti americani così come a farsi applaudire dai polacchi ormai di seconda generazione post-Muro, trovava nell’antistatalismo spinto una cerniera in grado di unire gli interessi di populismi sovranisti - per definizione non “collaborativi” - in una sorta di ossimorico “internazionalismo nazionalista”. Era la ricetta dei teorici del trumpismo, lo stratega in capo del presidente Steve Bannon, profeta nazionalista dell’alt-righ americana, e Stephen Miller, consigliere politico del presidente. È loro la teoria della “decostruzione” dello Stato amministrativo, a loro dire responsabile di rallentamenti e frustrazioni per le libertà individuali dei cittadini. Teoria che ha costituito una grande parte, per quanto non unica, del terreno di coltura per il rigurgito di diffidenza e rifiuto verso la legittimità e autorità delle istituzioni statali e dei loro meccanismi regolamentatori e autoriproduttivi, su cui si sono innestate le manifestazioni di odio e violenza cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Un terreno di coltura antistatalista che negli Stati Uniti non arriva certo con Trump ma ha radici antiche, emerse già con la radicalità del redivivo Tea Party dei primi anni 2000. Dalle proteste contro i lockdown in epoca Covid a quelle contro i divieti di portare armi, fino allo shock del 6 gennaio 2021 con l’assalto al Campidoglio da parte dei negazionisti della vittoria di Joe Biden su Donald Trump. Eventi che però non sono rimasti ristretti ai confini degli Stati Uniti: immagini, parole d’ordine e meme online si sono riverberati con modalità simili se non identiche dagli USA all’Europa, all’America Latina, al Canada. Da faro dei valori democratici nel mondo, almeno nella loro retorica fondativa dell’eccezionalismo americano, gli Stati Uniti sono ormai sempre più esportatori di destabilizzazione delle istituzioni democratiche. Come ha scritto di recente il columnist del Washington Post Ishaan Tharoor, una democrazia stretta al suo interno tra gli attacchi virulenti degli estremisti nazionalisti e l’oggettiva obsolescenza di alcune strutture istituzionali finisce non solo per non esportare più valori democratici ma rischia di “giocare un ruolo attivo nel fomentare reazioni illiberali e autocratiche in altre parti del mondo”.
Trumpismo da esportazione
L’ultima prova di questo fenomeno emulativo è arrivata pochi giorni fa dal Brasile. Perché è stato inevitabile e quasi scioccante riconoscere l’esatta replica del 6 gennaio di Washington nell’assalto al palazzo del governo di Brasilia da parte dei facinorosi pro-Bolsonaro pochi giorni dopo l’insediamento del presidente socialista Ignazio Lula da Silva, di cui contestano la legittima vittoria elettorale. E in realtà quello di Brasilia è stato l’esito di una pedissequa e fedele riproduzione del copione della perfetta “sovversione dal vertice” di scuola trumpiana. Proprio come fece Trump a partire da oltre un anno prima delle elezioni, anche Bolsonaro ha trascorso mesi a instillare nei suoi sostenitori il dubbio circa la legittimità dell’esito elettorale nel caso avesse decretato la vittoria del suo avversario. Il presidente aveva cominciato a seminare dubbi sull’affidabilità delle macchine per il voto elettronico fin da un anno prima delle elezioni.
E il complottismo si è diffuso per mesi su chat e social, con specifiche parole chiave condivise in gruppi Facebook, ma soprattutto in gruppi chiusi su Whatsapp e Telegram. Prendete lo “Stop the steal” trumpiano - grido di battaglia del 6 gennaio - e cambiatelo in “Festa de Selma” e avrete la parola d’ordine con cui i bolsonaristi radicali si sono passati per mesi false accuse di brogli elettorali, incitamenti alla rivolta e, nelle ultime settimane prima dell’8 gennaio, indicazioni organizzative per dare l’assalto a Brasilia. “Festa de Selma” è una variante di “festa de selva”, sorta di grido di guerra militare, modificato per aggirare i filtri della moderazione delle piattaforme, che si sono comunque dimostrate responsabili di aver contribuito a spingere gli utenti brasiliani verso le “bolle” più radicalizzate.
Subito dopo le elezioni di ottobre, come ricostrutito dettagliatamente dal Washington Post in un articolo del novembre scorso, i contatti tra la famiglia di Bolsonaro e la cerchia dell’ex presidente americano si sono intensificati. Il terzogenito del leader brasiliano, Eduardo, è stato invitato da Trump nella residenza di Mar-a-Lago in Florida, dove era già stato ospite molte volte nel corso degli ultimi quattro anni. Con Trump, Bannon, l’ex portavoce di Trump (e CEO della piattaforma social di estrema destra Gettr) Jason Miller, Eduardo ha discusso le possibili strategie del post-sconfitta. Nel frattempo l’ondata della protesta montava non solo online: nelle strade di molte città brasiliane comparivano già manifestazioni “spontanee” con cartelli scritti in inglese contro il “furto delle elezioni”, e le autostrade venivano bloccate dagli autotrasportatori, una delle categorie più vicine a Bolsonaro. In realtà erano anni che le due famiglie tenevano contatti stretti. Bannon, in particolare, “aveva sviluppato una passione per il Brasile”, scrive Le Monde. “Aveva captato un ecosistema sufficientemente fragile ed ad alta tensione da far sbocciare una versione tropicale del movimento di Trump. Vale a dire, un populismo conservatore e protezionista che disdegna l’ambientalismo e il rispetto dell’equilibrio democratico tra i poteri”.
Il test brasiliano
Bannon e Eduardo Bolsonaro sono i personaggi chiave di quello che possiamo ora vedere come un deliberato esperimento politico-comunicativo. Ovvero il tentativo (riuscito solo in parte) di esportare in un altro paese un’operazione di manipolazione online e offline che negli Usa aveva garantito a un politico sconfitto una formidabile arma di ricatto contro lo Stato: milioni di sostenitori radicalizzati e alienati dall’informazione e dalla politica “mainstream” pronti a compiere atti di violenza sotto una regia solo all’apparenza occulta, esercitata in gruppi chiusi, piattaforme “alternative” (da Gettr, a Parler, alla più recente Truth Social), e tv complici (Fox News trovava un corrispettivo in Brasile nel gruppo Joven Pan).
Eduardo aveva cominciato a frequentare la cerchia di Trump fin dal 2018, subito prima l’elezione del padre alla presidenza del Brasile. Nel 2019 l’aveva accompagnato nel primo incontro ufficiale con Donald Trump alla Casa Bianca e stringe l’amicizia con Bannon. È lo stratega di Trump, ricostruisce Le Monde, a individuare in “zero 3” (nomignolo affibbiato a Eduardo in quanto terzogenito di Jair) il rappresentante ufficiale di The Movement, l’organizzazione di Bannon creata con l’obiettivo di unificare i populisti-nazionalisti di tutto il mondo. “Il 5 gennaio 2021, alla vigilia dell’assalto al Campidoglio, i media rivelarono che ‘zero 3’ era alla Casa Bianca con sua moglie. La coppia fu ricevuta da Ivanka. Le mostrarono la figlioletta di tre mesi, Georgia, chiamata così per lo Stato americano”.
Nei mesi precedenti al voto brasiliano di ottobre per il rinnovo della presidenza, Bannon ha soffiato sul fuoco del complottismo diffondendo regolarmente sui sui canali social e nel suo podcast dubbi e illazioni circa la regolarità del processo democratico, l’esistenza di “forze occulte” in azione in Brasile, la preparazione di un piano per “rubare le elezioni”, la promozione dell’hashtag “Brazilian Spring”. Insieme a lui, altri attivisti statunitensi del movimento “Stop the Steal” in quei mesi aizzavano e manipolavano la rivolta brasiliana: come Ali Alexander, emerso come uno dei capi del 6 gennaio, che sul canale social di Trump ha apertamente incitato all’insurrezione brasiliana, definendola un “tour improvvisato della capitale”, facendo appello ai bolsonaristi affinché facessero “tutto ciò che è necessario” e usando un emoji a cuore per sancire il matrimonio tra i “January Sixers” e i “January Eighters”.
Figures involved in January 6 are currently applauding what's happening in Brazil pic.twitter.com/oRRplmHKxg
— Ben Jacobs (@Bencjacobs) January 8, 2023
O Alex Jones, che sul suo canale Infowars dissemina un’altra teoria complottista copiata dal 6 gennaio: che l’esito violento dell’assalto di Brasilia sia stato in realtà opera di servizi governativi infiltrati. A Washington ad essere accusati di provocazioni violente furono gli inesistenti “antifa”.
L’8 gennaio 2023, Steve Bannon acclama l’assalto al palazzo di Brasilia con queste parole su Gettr: “Lula ha rubato le elezioni al popolo brasiliano”, per ripostare i video (anch’essi fotocopia di quelli visti da dentro il Congresso il 6 gennaio 2020: immagini mosse sul sottofondo di voci e canti esaltati) degli assalitori di Brasilia così acclamati: “Brazilian Freedom Fighters”, i combattenti per la libertà brasiliani”.
Il mito dell’eroe infallibile
I toni delle conversazioni online prima e dopo l’assalto di Brasilia echeggiano quelli dei gruppi di attivismo trumpiano prima e dopo l’attacco al Campidoglio: vittimismo, isteria, sindrome da accerchiamento di un “comunismo” pronto a impossessarsi del paese, l’urgenza di un intervento di popolo per riappropriarsi di quanto è stato “rubato”. Rispetto ai leader della destra brasiliana del passato, ha detto al Washington Post lo storico Andre Pagliarini, Bolsonaro si differenzia proprio per “il modo in cui scimmiotta la destra Usa, specialmente la cultura bellica dell’alt-righ associata al trumpismo: il conservatorismo brasiliano non ha mai idolatrato le armi, per esempio. Ora sì”.
Trump e Bolsonaro hanno in comune la medesima strategia per coltivare e mantenere il proprio culto della personalità, nota la storica Ruth Ben-Giath: “Nel caso del Brasile, come per gli Usa di Donald Trump, il leader e i suoi alleati hanno investito in anni di campagne di incessante disinformazione, mirate a screditare i rispettivi sistemi elettorali presso l’opinione pubblica. I culti della personalità creano l’immagine di un leader infallibile. Preparando i seguaci a considerare qualsiasi fallimento del proprio eroe come il risultato di maligne forze esterne che manipolano il sistema, possono preservare ai loro occhi la propria competenza. Incolpare qualcuno o qualcosa - che sia Joe Biden o Lula - tiene in vita il culto della personalità perché così i seguaci non vedono il proprio eroe come un perdente”.
6 gennaio - 8 gennaio: coincidenze?
Le similitudini non finiscono qui. Dopo il voto, Bolsonaro si è rifiutato di riconoscere la sconfitta e non ha partecipato all’insediamento di Lula, il 1 gennaio 2023. Esattamente come ha fatto Trump: non ha ammesso la sconfitta, anzi ha parlato di “voto rubato”, aizzando con lo slogan “Stop the Steal” la folla che il 6 gennaio del 2021 assaltò il Campidoglio. E due giorni dopo, l’8 gennaio, Trump ha annunciato che non avrebbe preso parte alla cerimonia di insediamento di Joe Biden, il 20 gennaio successivo. Anche qui, uno sgarbo istituzionale (non vietato dalla Costituzione, visto che Trump è stato il quarto presidente della storia Usa a snobbare la “incoronazione” del successore: peccato che l’ultimo ad averlo fatto, Andrew Johnson, risalga a metà dell’Ottocento). E anche qui, curiosa coincidenza di date e di atteggiamenti: l’8 gennaio è stato il giorno dell’assalto al palazzo del governo brasiliano. Lula era già in carica, nulla avrebbe potuto bloccare il processo di insediamento. C’era, però, un richiamo potente agli eventi di Washington: 6 gennaio-8 gennaio. L’8 gennaio scorso Bolsonaro si trovava… negli Stati Uniti (in Florida) e ha assistito alle scene di violenza e aggressione contro la polizia, con le bandiere usate come armi (esattamente come nel Campidoglio Usa due anni prima), dagli schermi televisivi. Esattamente come fece Trump il 6 gennaio 2021, inchiodato davanti alla tv nella sala da pranzo della Casa Bianca, rifiutando di compiere alcun passo per fermare la folla dei suoi sostenitori. Al fianco di Bolsonaro, davanti alla tv, il suo ex ministro della Giustizia e pubblica sicurezza, Anderson Torres, che - nonostante fosse ancora responsabile della sicurezza nella capitale - era volato in Florida mentre su Brasilia convergevano pullman di facinorosi da tutto il Paese. Proprio come negli Usa prima del 6 gennaio l’FBI ha assistito senza muovere un dito alle carovane di auto e pullman - su molti dei veicoli furono poi trovate armi - che convergevano su Washington DC nei giorni precedenti al 6 gennaio. Per questa “negligenza”, non del tutto casuale, Torres è stato arrestato con le accuse di “omissione” e “connivenza” e ora la Corte suprema sta per aprire un’indagine sullo stesso Bolsonaro.
Cosa significa l’assalto dell’8 gennaio per il futuro della democrazia in Brasile
Una prima, forte discrepanza tra i due mini-tentati golpe si può trovare proprio qui: Donald Trump continua a rimanere impunito per le responsabilità oggettive rivestite nei fatti del 6 gennaio. La commissione parlamentare di indagine continua a raccogliere prove schiaccianti contro l’ex presidente, ma l’eventuale decisione di incriminarlo spetta al dipartimento di Giustizia, e sulla decisione non pesa solo la verità giuridica, ma anche e soprattutto considerazioni di opportunità politica e persino di sicurezza pubblica. E questo di per sé potrebbe costituire un incentivo per altri autocrati a replicare il suo “copione”. Come nota Ian Bassin, direttore dell’ONG Protect Democracy, intevistato da Politico, “Gli USA hanno scoperchiato un vaso di Pandora incredibilmente anti democratico”. L’antidoto, secondo Bassin, è ergersi a modello di giustizia verso questo tipo di eversione e l’unico modo per farlo è portare Trump in giudizio. “Più tempo ci mettiamo, più aumenterà il caos. Nel mondo le democrazie prosperano e cadono a ondate. Quando un paese rovescia un dittatore con un movimento che aspira alla democrazia, altri tendono a seguire (vedi la Primavera araba)”. E lo stesso accade al contrario: “Quando un autocrate si impone, anche molti altri tendono a farlo”. Esempio di regressioni rispetto alle conquiste democratiche possono essere alcuni dei paesi ex comunisti in Europa dell’Est, in primis l’Ungheria di Viktor Orban.
L’Internazionale dell’Autocrazia
È quella che Anne Applebaum definisce su Atlantic l’Internazionale dell’Autocrazia, o almeno il tentativo da parte della “claque di uomini intorno a Donald Trump che hanno cominciato a sognare un diverso tipo di influenza americana. Non democratica, ma autocratica. Non a favore delle costituzioni e delle leggi, ma a sostegno dell’insurrezione e del caos. Non attraverso dichiarazioni di indipendenza ma attraverso campagne di troll sui social media”. Tentativi compiuti, senza successo, in Spagna e in Italia: “Molti dei reali risultati di questa claque sono stati risibili, o quantomeno esagerati allo scopo di raccogliere più fondi”, dice Applebaum. “Alle loro conferenze, sulle loro piattaforme social, sui loro innumerevoli canali YouTube, i leader di quella che potremmo chiamare l’Internazionale dell’Autocrazia tentano spesso di presentarsi come nemici del comunismo, anche se la maggior parte di coloro che combattono davvero il comunismo, da Cuba alla Cina, mantengono le distanze”.
La normalizzazione mediatica dell’estrema destra: dall’alt-right ai “sovranisti”
Il Soufan Center, che monitora le minacce dell’estremismo militante nel mondo, ha pubblicato di recente un rapporto sull’impatto globale del radicalismo interno americano. “Molti analisti del terrorismo all’estero pensano che gli Stati Uniti siano diventati esportatori di estremismo anti-autorità e anti-governo, e che ispirino e motivino i loro simpatizzanti in molti paesi del mondo. I fatti e le narrazioni del 6 gennaio sono diventate un grido di battaglia e un simbolo per accelerazionisti ed estremisti violenti all’estero. Dall’America Latina all’Europa, alcuni cittadini hanno cercato di trovare cause comuni con gli estremisti statunitensi, aggrappandosi a tutta una serie di rivendicazioni di estrema destra nel tentativo di promuovere sentimenti antigovernativi nei rispettivi paesi”.
Dai cittadini del Reich ai camionisti canadesi
Il Soufan Center fa l’esempio del tentato “golpe” del dicembre scorso in Germania, che ha smantellato la rete del Reichsbürger (“Cittadini del Reich”), “affine al movimento USA di cittadini sovrani, un insieme di gruppi e individui liberamente organizzati che ritengono di non essere sotto la giurisdizione del governo federale e si considerano esenti dalle leggi degli Stati Uniti”. Lo sventato golpe è stato l’esito ultimo di un crescente movimento carsico di estrema destra nutrito negli anni di teorie complottiste che si sono intrecciate a rivendicazioni e movimenti anti-Stato di diversa natura. Come spiega Leonardo Bianchi su Valigia Blu: “Molti ‘cittadini del Reich’ hanno partecipato alle manifestazioni antivacciniste e anti-restrizioni, tra cui quella del 29 agosto del 2020 conclusasi con il tentato assalto al Reichstag, che a tutti gli effetti è stato un antipasto dell’assedio al Congresso statunitense del 6 gennaio del 2021”.
Ma le eco del trumpismo d’assalto si sono sentite anche in Olanda, con il movimento degli agricoltori che sempre lo scorso dicembre hanno bloccato con i loro trattori le autostrade e assediato i palazzi del governo per protestare contro il progetto di bloccare entro il 2030 le emissioni nocive di biossido d’azoto. Qui, una rivendicazione di natura economica, che nella normale dinamica politica si dovrebbe poter risolvere con la trattative tra parti sociali, è sfociata in manifestazioni violente grazie all’infiltrazione di elementi di estrema destra portatori di teorie complottiste in grado di coagulare e radicalizzare interi settori intorno a fantasmi e false informazioni: dall’opposizione ai vaccini anti Covid, alla presunta congiura “globalista” per smantellare le democrazie occidentali e importare immigrati non bianchi in grado di sostituire la popolazione locale. Nel caso dell’Olanda, il complotto prevedeva un piano per chiudere le aziende agricole locali per far spazio ai richiedenti asilo. Non a caso, dichiarazioni di sostegno del movimento sono arrivate dall’Internazionale populista al completo: da Donald Trump, a Marine Le Pen, a esponenti del governo polacco.
Un anno fa era stata la volta dei camionisti canadesi, che con la “Carovana della libertà” hanno paralizzato il paese per molte settimane tra gennaio e febbraio del 2022. Coagulata intorno all’opposizione alla campagna vaccinale contro la COVID-19, la campagna del Freedom Convoy ha raccolto branche diverse dell’estremismo di destra, complottisti alla QAnon, xenofobi, attivisti antistatalisti. Come spiega ancora Bianchi su Valigia Blu: “La carovana si è trasformata all’istante in un calderone in cui sono confluiti anche ‘rissaioli il cui obiettivo principale è l’erosione della legittimità delle istituzioni statali – non solo della città di Ottawa, dell’Ontario o del Canada, ma della democrazia in generale’”. Nelle manifestazioni sono stati visti esponenti e simboli di gruppi diversi: “Gli islamofobi di La Meute, gli antivaccinisti di destra di Farfadaa, gli streamer della Plaid Army, i militanti di Canada First e i membri della rete Diagolon – un movimento neofascista e accelerazionista che punta a trasformare la ‘carovana della libertà’ nel ‘nostro 6 gennaio’”.
L’antidoto da emulare: un processo a Trump
Resta da vedere se l’emulazione possa funzionare anche all’inverso. All’indomani dell’assalto di Brasilia, Applebaum auspica infatti: “Il potere dell’esempio può funzionare anche in altri modi. Se gli americani vogliono aiutare il Brasile a difendere la propria democrazia ed evitare che sprofondi nel caos, e se vogliamo evitare che altri movimenti #StoptheSteal proliferino in altre democrazie, allora è chiaro quale sia la via da seguire. Dobbiamo provare che questi movimenti falliranno e che i loro istigatori, da quelli ai vertici a quelli alla base, pagheranno un alto prezzo per questo fallimento”. Come abbiamo visto, la commissione parlamentare del Congresso Usa sugli eventi del 6 gennaio “ha espresso una chiara raccomandazione al dipartimento di Giustizia affinché Trump venga incriminato. I fatti di Brasilia devono servire a ricordarci che la risposta del dipartimento forgerà la politica non solo degli Stati Uniti, ma di tutto il mondo”.
Immagine in anteprima: Palácio do Planalto from Brasilia, Brasil, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons