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Il trattamento sanitario obbligatorio: dalla necessità della cura al rischio degli abusi

31 Gennaio 2025 11 min lettura

Il trattamento sanitario obbligatorio: dalla necessità della cura al rischio degli abusi

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In un’intervista per Le iene, lo scrittore Paolo Cognetti ha raccontato della sua depressione, del disturbo bipolare che gli è stato diagnosticato, e del trattamento sanitario obbligatorio (TSO) a cui è stato sottoposto nel 2024. All’inizio dello scorso anno, ha detto l’autore, stava attraversando quella “che poi ho scoperto essere una fase maniacale” del disturbo bipolare di cui soffre: “Il cervello accelera, ti vengono mille idee, inizi a parlare a mille all’ora”. La compagna ha cominciato a preoccuparsi e ha deciso di portarlo in ospedale. Arrivati al Pronto Soccorso, Cognetti avrebbe parlato per circa mezz’ora con una psichiatra che però, ha detto, lo avrebbe trattato “come un matto”. A quel punto lo scrittore avrebbe comunicato di voler andare via e di non voler assumere la terapia proposta dalla psichiatra. “Arretro e a un certo punto quasi subito mi ritrovo circondato da sette persone. Mi hanno sollevato in quattro, mi hanno legato a un letto con delle cinghie” e gli avrebbero iniettato dei farmaci senza comunicargli quali. “Qualcosa che non andava c’era e c’è” nel suo stato mentale, ha commentato Cognetti, ma “mi fa rabbia la violenza, non era necessaria e secondo me non era nemmeno legale”. A dicembre 2024, in seguito a un trattamento sanitario obbligatorio richiesto dal suo psichiatra, Cognetti è stato poi ricoverato per due settimane.

Cos’è e come funziona il trattamento sanitario obbligatorio

Il trattamento sanitario obbligatorio è stato normato dalla legge 180 del 13 maggio 1978, conosciuta anche come Legge Basaglia. Tuttavia, anche se la rivoluzione in ambito di salute mentale condotta dallo psichiatra Franco Basaglia, dall’attivista e moglie Franca Ongaro, e da tutte le persone che hanno lavorato con lui, ha ispirato la legge 180, secondo Basaglia stesso si trattava comunque di una norma transitoria, frutto di compromessi politici e dunque solo in parte rispondente al nuovo approccio alla psichiatria che stava emergendo in quegli anni. Intanto, attraverso questa norma, recepita poi dalla legge 833 che pochi mesi dopo istituì il Servizio Sanitario Nazionale, fu sostenuta la chiusura dei manicomi e i pazienti psichiatrici divennero cittadine e cittadini con diritti civili e politici.

Vennero introdotti allora gli accertamenti e i trattamenti sanitari che, spiega la norma, sono volontari: solo in alcuni casi particolari possono essere imposti, ma sempre “nel rispetto della dignità della persona”. L’accertamento sanitario obbligatorio (ASO) è una visita medica a una persona che rifiuta il contatto con professionisti sanitari ed è in stato di alterazioni psichiche o con disturbo mentale che richiedono un intervento terapeutico urgente. L’ASO è richiesto da un medico e disposto dal sindaco della città in cui risiede o si trova la persona, in quanto autorità sanitaria locale. In seguito all’accertamento può essere valutato il trattamento sanitario obbligatorio.

Il TSO può essere disposto se esistono due condizioni specifiche: in caso di alterazioni psichiche tali da richiedere interventi terapeutici urgenti e se la persona non vuole sottoporsi volontariamente agli interventi proposti. Nel caso in cui sia possibile adottare delle misure sanitarie extraospedaliere “idonee e tempestive”, si può attuare il TSO extraospedaliero: le sedi più indicate in questo caso sono il domicilio della persona e gli ambulatori del Centro di Salute Mentale (CSM), il servizio per l’assistenza psichica diurna del Dipartimento di Salute Mentale. Se viene indicato il domicilio, il paziente riceverà a casa delle visite mediche; se invece si individua il CSM, il paziente dovrà sottoporsi alle visite negli ambulatori del servizio. Qualora queste misure extraospedaliere non siano attivabili, si dispone allora il TSO ospedaliero, e il ricovero avviene presso il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (SPDC) dell’Azienda sanitaria.

Il trattamento sanitario obbligatorio ospedaliero può essere richiesto da un medico e per essere disposto è necessario che un secondo medico, questa volta del Dipartimento di Salute Mentale o comunque dipendente dell’Azienda sanitaria, valuti e approvi la proposta del collega. A questo punto il sindaco può firmare un’ordinanza che attiva la procedura ed entro 48 ore dovrà notificare il provvedimento al giudice tutelare che, dopo aver ottenuto le informazioni necessarie e aver svolto eventuali indagini supplementari, può convalidare o meno il TSO. Nel caso in cui non venga convalidato, il TSO dovrà essere interrotto. Sia per l’accertamento sanitario obbligatorio sia per il trattamento sanitario obbligatorio, è compito della polizia municipale raggiungere e trasportare la persona nella sede stabilita, con il supporto del personale sanitario che, nel caso specifico di un TSO, ha il compito di “rendere meno traumatico il procedimento” e di “praticare gli interventi sanitari che si rendessero necessari”.

Il TSO può durare al massimo sette giorni, prorogabili nel caso in cui persistano le condizioni che hanno portato alla disposizione della procedura. Sia per il TSO ospedaliero che extraospedaliero, inoltre, è prevista anche la possibilità di presentare ricorso, una sorta di garanzia per la persona che si trova in un contesto di limitazione della sua libertà: qualunque persona interessata può infatti chiedere al sindaco la revoca del provvedimento o una sua modifica, e chi è stato sottoposto a TSO o persone vicine possono fare ricorso al tribunale.

Il trattamento sanitario obbligatorio nella pratica

Nel 2023 in Italia sono stati registrati 4.879 trattamenti sanitari obbligatori ospedalieri, che rappresentano il 5,7% dei ricoveri avvenuti nei reparti psichiatrici pubblici. È un dato potenzialmente sottostimato, a causa di una mancanza di univocità nella raccolta dei dati, ma è comunque un numero in calo rispetto agli anni precedenti. Esistono però delle differenze regionali: se la media in Italia è pari a un intervento ogni 10 mila abitanti, questo dato sale ad esempio a 2 in Sicilia, 2,2 in Emilia Romagna, 2,6 in Umbria.

Lo psichiatra Peppe Dell’Acqua, che con Basaglia si è formato e ha lavorato alla rivoluzione dell’assistenza ai disturbi psichiatrici, ha scritto che il trattamento sanitario obbligatorio “è pensato come strumento per accrescere il diritto di chi si trova infragilito e in difficoltà, per garantire il diritto alla cura, alla salute, alla dignità” e che, grazie all’approvazione della legge 180, la cura psichiatrica e la disposizione del TSO “non possono essere più intese come sospensione del diritto e legittimazione della prepotenza delle istituzioni, delle psichiatrie, degli psichiatri”.

Il problema però è che questi principi non sono applicati in ogni circostanza e, come lui stesso ha commentato, “le accademie psichiatriche hanno continuato a pensare che il TSO fosse un semplice sostituto nominalistico del ricovero coatto” previsto dalla precedente legge. A questo proposito, lo psichiatra e presidente della Società italiana di Epidemiologia Psichiatrica (SIEP) Fabrizio Starace ha detto a Valigia Blu: “Se stiamo alle statistiche, dobbiamo tenere conto del fatto che l’Italia è uno dei paesi al mondo dove questo tipo di procedure coercitive e coattive vengono utilizzate in maniera meno frequente. Questo però non significa che non vi sia un margine, una potenzialità di abuso, non tanto nella definizione di un trattamento sanitario obbligatorio quanto nel mancato approfondimento di tutte le fasi precedenti, che sono volte proprio a guadagnare il consenso” della persona.

Come specificato anche dalla Corte di Cassazione, infatti, il TSO è una misura da attivare “solo dopo aver ricercato, con ogni iniziativa possibile, il consenso del paziente a un intervento volontario”. Nella pratica però questo non sempre avviene: lo dimostrano ad esempio i casi di Andrea Soldi e Mauro Guerra, entrambi morti in seguito a TSO eseguiti in maniera irregolare. Nel caso di Guerra, il TSO è stato effettivamente irregolare, perché non lo aveva autorizzato nessuno; nel caso di Soldi, nella condanna del 2018, quindi prima della conferma delle condanne da parte della Corte di Appello nel 2022, i giudici hanno parlato di TSO eseguito “contro leggi e regolamenti” e di "imperizia".

Starace, che ha definito i casi di abuso come “modalità distorte di applicazione del trattamento sanitario obbligatorio”, ha spiegato che il TSO “viene talvolta misinterpretato come misura d’ordine pubblico, in una visione totalmente distante” da quella che ha portato alla sua introduzione nel 1978. Quella riforma, infatti, “ha organizzato il mandato della psichiatria sull’intervento terapeutico e non su quello di ordine pubblico, come invece succedeva prima, quando addirittura il ricovero veniva registrato sulla fedina penale delle persone”.

Secondo il presidente della SIEP, inoltre, ricorrere al TSO come misura d’ordine pubblico “è legato anche all’ancora diffusissimo atteggiamento pregiudiziale e di stigma che circonda la dimensione della malattia mentale. Ogni psichiatra credo abbia ricevuto nella sua esperienza una richiesta di trattamento sanitario obbligatorio a carico di una persona che stava dando fastidio, che stava creando disturbo. Il punto è che il trattamento sanitario, e in particolare quello obbligatorio perché avviene anche contro la volontà della stessa persona, sono rivolti a curare il disturbo che eventualmente ha la persona non a eliminare i disturbi che la persona reca al suo contesto”.

Il problema, sostiene allora lo psichiatra, è che “si tende a semplificare e a convogliare verso la psichiatria qualsiasi manifestazione di comportamento che non si riesce a comprendere in quel momento. Non vorrei che questo poi divenisse un alibi per cominciare a considerare pazienti psichiatrici anche quelli che non si allineano al modo di pensare prevalente”.

La contenzione meccanica nei ricoveri ospedalieri

Non solo le intenzioni che portano alla richiesta e disposizione di alcuni TSO, ma anche certe pratiche messe in atto in seguito disattendono i principi della legge 180. Un esempio è l’ancora frequente ricorso alla contenzione meccanica in caso di ricovero, e cioè all’uso di cinghie, fasce, cinture e qualunque altro strumento che possa limitare o bloccare il movimento di una persona in cura. Lo stesso Cognetti, nella sua intervista, ha detto di essere stato legato a un letto con delle cinghie.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito la contenzione meccanica come “incompatibile con un approccio di recupero” e ha spiegato che “contrasta con lo scopo della cura e può portare a danni fisici e psicologici, persino alla morte”. Anche in Italia, è stata chiarita la pericolosità di questa pratica. Già nel 2000 e in seguito nel 2015, il Comitato Nazionale di Bioetica aveva definito la contenzione “un residuo della cultura manicomiale, che produce ‘cronicizzazione, invece che il recupero della malattia’”, e aveva sottolineato che “non può essere sufficiente che il paziente versi in uno stato di mera agitazione” per considerarla necessaria e che anche in caso di TSO, e quindi in condizioni di alterazioni psichiche del paziente, questa pratica “deve rappresentare l’extrema ratio”. Anzi, la contenzione rischia di acuire una situazione di disagio: “L’agitazione della persona legata si aggrava, richiedendo quindi più alte dosi di farmaci sedativi, col risultato di peggiorare lo stato di confusione del paziente, che a sua volta riduce la comunicazione fra la persona legata e il personale”.

Anche la Cassazione ha stabilito nel 2018 che la contenzione non può essere considerata un “atto medico”, ma è piuttosto “un presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente”. E ha specificato che il suo uso è ammesso solo in situazioni eccezionali in cui vi è un pericolo “attuale”, e quindi presente, all’integrità fisica del paziente o di chi interagisce con lui, e anche in questo caso deve essere circoscritto nel tempo e controllato costantemente da un medico. Non è ammissibile invece l’uso della contenzione in via precauzionale. Con questa sentenza la Cassazione ha motivato e confermato le condanne contro medici e infermieri dopo la morte di Franco Mastrogiovanni, il maestro elementare anarchico morto nove anni prima. Sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio, Mastrogiovanni era stato ricoverato all’ospedale di Vallo della Lucania dove trascorse le sue ultime 87 ore, 81 delle quali con le mani e i piedi legate a un letto.

Il TSO in un sistema in crisi

La morte di Mastrogiovanni, così come quella di Andrea Soldi e Mauro Guerra, hanno contribuito a tenere acceso il dibattito sul trattamento sanitario obbligatorio. Ci si chiede infatti se sia una pratica da abolire o quantomeno da riformare. Di certo va ripensata nella sua attuazione, in vari casi superficiale e violenta. A questo proposito, Dell’Acqua ha anche parlato dell’esistenza di certificati “prestampati dove lo psichiatra non deve far altro che barrare la casella”, e non “scritti e ragionati a motivare la richiesta di ordinanza”; e del giudice tutelare che, “dovrebbe garantire la corretta esecuzione” della procedura anche svolgendo indagini supplementari, e invece, “fatto salvo rarissime eccezioni, non fa altro che sottoscrivere gli stessi prestampati”.

Non solo però il TSO è stato in realtà concepito come un intervento straordinario ed eccezionale, ma in un sistema che funziona potrebbe in molti casi anche essere evitato. Come spiega Starace, infatti, “con un lavoro territoriale attento, che dia la continuità necessaria alla cura, è possibile prevenire o intercettare la crisi al suo primo manifestarsi. Se io riesco a vedere e seguire una persona nei progressi che sta facendo o nei regressi, in maniera frequente e non ogni tre o sei mesi, è chiaro che avrò tutti gli strumenti per poter rendere più intensivo il mio intervento”. Il problema però è che i servizi pubblici di salute mentale stanno attraversando una profonda crisi, con lunghe liste di attesa e carenza di strutture e personale, per cui in molti contesti garantire assistenza continuativa non è facile né concretamente possibile.

La situazione attuale è quella di una “domanda di assistenza che viene rivolta ai servizi sempre più alta e d’altro canto invece il depauperamento dei servizi stessi a cui abbiamo assistito almeno negli ultimi dieci anni”, ha affermato Starace. Tra il 2022 e il 2023 è cresciuto infatti il numero delle persone trattate dai servizi pubblici del Dipartimento di Salute Mentale e dalle strutture private accreditate, con una maggiore prevalenza del genere femminile, e negli ultimi anni sono aumentati anche i sintomi depressivi tra coloro che hanno tra i 18 e i 34 anni. A fronte di ciò, però, le risorse a disposizione risultano carenti, in particolare in alcuni territori.

Il numero di strutture pubbliche e private convenzionate in rapporto agli abitanti è ad esempio largamente al di sotto della media nazionale in alcune regioni come Puglia, Campania, Abruzzo e Sardegna, e lo stesso vale per il numero di operatori sanitari che continua anche a essere al di sotto della programmazione nazionale: si parla di oltre il 25% in meno. In alcune regioni come Calabria, Toscana e Molise poi il totale degli psichiatri è addirittura diminuito tra il 2022 e il 2023 e in certi casi il rapporto con il numero degli abitanti è di molto inferiore alla media nazionale: è il caso ad esempio della Calabria, della Campania e del Veneto.

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A questo proposito, nel podcast-inchiesta Tutta colpa di Basaglia condotto da Ludovica Jona ed Elisa Storace, l’ex presidente della Consulta per la salute mentale della Regione Lazio Daniela Pezzi, ha denunciato l’esistenza di un circolo vizioso:

“Le persone stanno male, qualcuno le deve curare”, per cui “il discorso che vige è ‘dove le metto? Non ho il personale per le visite domiciliari, non ho il personale per i colloqui di psicoterapia, non ho il personale per tenere aperto il centro diurno, che ne faccio delle persone che stanno male? Le chiudo da qualche parte, spendo tantissimo, peggioro la qualità di vita del paziente e tolgo ogni speranza di guarigione ai familiari’”.

Secondo Pezzi, infatti, il budget regionale di salute mentale del Lazio sarebbe in gran parte destinato a residenze psichiatriche convenzionate, che andrebbero a sopperire le lacune del servizio pubblico a fronte però di costi molto elevati. Il problema non riguarda solo la regione Lazio: con l’impoverimento dei servizi pubblici, in molte regioni italiane è venuto meno lo scopo principale dell’assistenza territoriale e di prossimità, ovvero un lavoro di prevenzione, cura e tutela che già la legge 833 individuava come necessario anche per ridurre il ricorso ai trattamenti sanitari obbligatori.

“È sul territorio che bisogna intervenire prima di tutto, con strutture non ghettizzanti, combattendo l’emarginazione a tutti i livelli, facendo opera di prevenzione”, aveva dichiarato d’altronde lo stesso Basaglia. Quando invece questo tipo di lavoro preventivo e di cura continuativa e rispettosa è assente, chi ha bisogno di aiuto fatica a ricevere assistenza, si sente scoraggiato, e se non ha una disponibilità economica tale da potersi rivolgere al privato rischia di rimanere senza cura, a carico della propria famiglia o abbandonato a se stesso.

 

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