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La guerra di Putin alla transizione energetica globale

26 Febbraio 2023 29 min lettura

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La guerra di Putin alla transizione energetica globale

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di Marco Loprieno e Pat Lugo*

Nella Federazione Russa le ambizioni strategiche del regime e gli interessi dei ‘signori del fossile’ collimano perfettamente. Ma ciò spiega solo parzialmente lo strapotere a livello internazionale di Gazprom e delle altre aziende energetiche russe. Né spiega appieno l’estrema facilità con cui Putin ha potuto usare il ‘grilletto energetico’ nel disegnare la propria politica estera. L’altro elemento, fin qui assai poco esplorato nelle analisi del conflitto ucraino, è l’avidità dell’Occidente. O meglio, l’approccio turboliberista (predatorio) di alcune multinazionali energetiche e dei governi occidentali che ne hanno supportato servilmente le strategie, giungendo a ‘farsi dettare’ non solo le scelte in tema di mix-energetico, ma perfino l’agenda politica estera nel suo insieme. E ciò da ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina. E alla faccia della decarbonizzazione. 

E se cambiassimo punto di vista?
Putin teme il Green Deal europeo
Un’equa transizione globale
Una mentalità estrattiva e predatoria
L’arma dei combustibili fossili
Petro-State: dalle origini a Putin
La ragnatela dei gasdotti
UE: nasce l’Unione dell’Energia
Clima: Putin e l’andatura del gambero
It takes 2 to tango...
Zero-Carbon: un’altra Russia è impossibile?

E se cambiassimo punto di vista?

Secondo alcuni analisti, Putin preparava da tempo l’aggressione all’Ucraina ma, apparentemente, c’è stata una violenta accelerazione nei suoi piani. Questo cambiamento, inaspettato per moltǝ, si è concretizzato nell’assoluta sottovalutazione da parte della Russia sia della reazione ucraina che della risposta internazionale (e, dunque, dei tempi del conflitto). Prova ne è stata anche l’evidente disorganizzazione e insufficienza delle truppe e degli armamenti russi spediti sul campo all’inizio della cosiddetta ‘operazione speciale’.

Ma cosa ha indotto questa accelerazione?

Vista dall’osservatorio di Bruxelles e concentrandoci sulle relazioni Russia/UE, in particolare in campo energetico, azzardiamo qualche ipotesi e lo facciamo a partire dall’analisi della Russia in quanto Petro-State (concetto che approfondiremo qui di seguito e su cui ritorneremo più volte).

Un sentiero, ci sembra, fin a oggi poco battuto tanto nella ricerca delle ragioni del conflitto quanto in quella dell’identificazione di possibili vie d’uscita. Bypassando il ‘narrative’ putiniano [scontro di civiltà, ‘Nuovo Ordine’ mondiale, ‘denazificazione’ dell’Ucraina, accerchiamento NATO, ecc.] su cui, prima di noi e meglio di noi, altrǝ si sono espressǝ, invitiamo a considerare due elementi che certamente non sono affatto estranei all’accelerazione di cui sopra:

  • L’inedita coesione mostrata dall'UE durante la pandemia con l’acquisto comune dei vaccini ha, molto probabilmente, vanificato o depotenziato i ripetuti e documentati tentativi del Cremlino di spaccare l’Europa. Per esempio, attraverso il supporto a gruppi e partiti sovranisti, movimenti no-vax, manipolazione dei media, ecc.
  • Il Green Deal europeo e, successivamente, la ‘pericolosa’ accelerazione (dal punto di vista russo) del pacchetto Fit for 55, adottato il 14 luglio 2021 con misure e investimenti per favorire una rapida ed equa decarbonizzazione, è stata letta come una minaccia insopportabile per gli interessi del Petro-State russo.

Ma se la guerra in Ucraina ha certamente fatto vacillare in moltǝ di noi la speranza per un futuro più sereno (già minata dalla pandemia), la reazione dell'UE a due mesi dall’inizio del conflitto non è stata probabilmente quella che Putin aveva previsto e avrebbe auspicato. Presentato a maggio 2022, REPowerUE, è un piano ‘muscolare’ (almeno sulla carta) per risparmiare energia, produrre energia pulita e diversificare il nostro approvvigionamento energetico. Tra gli obiettivi, il raggiungimento più rapido possibile dell’indipendenza dalle fonti fossili provenienti da Mosca, il potenziamento di progetti basati sulle energie rinnovabili e, in generale, la velocizzazione della transizione energetica.

Insomma, se riuscissimo a tener fede anche solo parzialmente a questi propositi, noi europei potremmo considerarci un po’ più al riparo dal ricatto energetico dei Petro-State (e non solo di quello guidato da Putin).

Putin teme il Green Deal europeo

La Commissione europea ha adottato una serie di proposte per trasformare le politiche dell'UE in materia di clima, energia, trasporti e fiscalità in modo da ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990. Il Green Deal europeo è un piano per decarbonizzare l'economia entro il 2050, rivoluzionare il sistema energetico europeo, trasformare profondamente l'economia e ispirare gli sforzi per combattere il cambiamento climatico.

Ma il piano ha anche profonde ripercussioni geopolitiche. Il Green Deal, infatti, influenza la geopolitica attraverso il suo impatto:

  • Sul bilancio energetico dell'UE e sui mercati globali;
  • Sui paesi produttori di petrolio e gas nel vicinato dell'UE;
  • Sulla sicurezza energetica europea;
  • Sui modelli commerciali globali, in particolare tramite il ‘meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera’, il cosiddetto CBAM.

Alcuni di questi cambiamenti hanno potenzialmente un impatto critico su diversi paesi partner dell’Unione, specialmente sui cosiddetti Petro-State, ossia quei paesi in cui una parte più che rilevante delle entrate governative e delle esportazioni è rappresentata dai combustibili fossili.

Un Petro-State è legato per definizione all’andamento dei prezzi dei combustibili fossili. La prima legge della petro-politica postula, infatti, quanto segue: negli Stati petroliferi, il prezzo del petrolio e il ritmo della libertà si muovono sempre in direzioni opposte. In altre parole, si riscontra che minore è l'aumento medio globale del prezzo del greggio e/o del gas naturale, maggiori sono le libertà di parola, di stampa, elezioni libere ed eque, magistratura indipendente, Stato di diritto. Proprio per non accentuare questa divaricazione, sono state suggerite una serie di politiche di cooperazione tese a facilitare una ‘giusta transizione’ dei Petro-State verso quel processo di decarbonizzazione legato in sede europea all’attuazione del Green Deal, ma più in generale alle misure globali auspicate dall’UNFCCC.

La Russia è il quarto maggior emettitore mondiale di gas climalteranti ed è stata a lungo resistente all'idea di politiche ambientali volte a ridurre l'uso dei combustibili fossili:

«La dottrina ambientale del paese - e persino la sua ratifica dell'accordo di Parigi - sono più di ogni altra cosa una mera strategia di PR internazionali. Quanto alla politica climatica interna, i documenti russi sono dichiarazioni vaghe che spesso contraddicono altri progetti» (Natalia Paramonova, « Will EU Green Deal Force Russia to Clean Up Its Act », Carnegie Moscow Center, 13 juillet 2020)

A eccezione del monitoraggio della produzione di carbonio, infatti, tutte le normative sulle emissioni rimangono volontarie. Il presidente russo Vladimir Putin continua a negare che il cambiamento climatico sia causato dall'attività umana e insiste sul fatto che la Russia ha "il sistema energetico più verde del mondo".

In realtà, la Federazione Russa rimane enormemente dipendente dagli idrocarburi e non è affatto riuscita a raggiungere l'obiettivo, dichiarato da Putin, di ridurre la quota di combustibili fossili del 40% tra il 2007 e il 2020 nell'economia del paese (la diminuzione è stata solo del 12%). Il programma di sviluppo del carbone russo per il 2035 è stato rivisto al rialzo nel 2019, fissando un nuovo obiettivo di crescita della produzione dal 10% al 20%. Permane inoltre nel paese una forte opposizione a qualsiasi sforzo normativo per limitare le emissioni di carbonio, in particolare da parte dell'Unione Russa degli Industriali e degli Imprenditori.

In questo contesto, il Green Deal europeo potrebbe avere un impatto davvero significativo sulla Federazione Russa. Nel 2016, le esportazioni di petrolio e gas hanno contribuito per il 36% al bilancio pubblico del paese e l'Europa ha assorbito il 75% delle esportazioni di gas naturale russo e il 60% delle sue esportazioni di petrolio greggio. Fino a prima dell’invasione dell’Ucraina, si riteneva che nel prossimo decennio il commercio di petrolio e gas Russia-UE non avrebbe subito un impatto sostanziale, poiché l'Europa avrebbe ridotto solo marginalmente le proprie importazioni di petrolio e gas entro il 2030 anche in uno scenario di riduzione delle emissioni del 55%. Tuttavia, la situazione sarebbe cambiata radicalmente dopo il 2030, quando l'Europa si prefiggeva di ridurre sostanzialmente le proprie importazioni di petrolio e gas. Per sovvramercato, nel contesto dello CBAM, il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere sulle importazioni nella UE diverse da petrolio e gas, potenzialmente avrebbe causato una riduzione delle esportazioni di altre merci russe in quanto esse tendono a essere ad alta intensità di carbonio.

Attenzione: questi erano i piani UE anche prima del conflitto ucraino. E, a nostro avviso, sono state una delle ragioni più rilevanti nello spingere Putin ad aggredire il vicino (ricco di risorse minerarie e importante paese di transito per il gas russo) prima di quando sarebbe stato più preparato per farlo.

Al momento, non è chiaro come la Russia reagirà agli sforzi di decarbonizzazione dell’Europa: la risposta geopolitica più probabile sarà quella di cercare di diversificare la propria base di clienti energetici, come aveva già iniziato a fare da alcuni anni. Uno sforzo per orientare le vendite di energia verso la Cina, in corso almeno dalla crisi finanziaria del 2007-2009, ha registrato una certa accelerazione dopo che la crisi ucraina del 2014 ha inasprito le relazioni politiche della Federazione Russa con l'Europa. Nel 2016, la Russia ha sostituito l'Arabia Saudita come il più grande fornitore di petrolio greggio della Cina e, nel 2018, ha inviato 1,4 milioni barili / giorno di petrolio greggio in Cina, pari a oltre il 25% delle esportazioni di petrolio russo. Fino a poco tempo fa, Putin forniva alla Cina solo piccole quantità di gas naturale, ma il gasdotto Power of Siberia, aperto nel dicembre 2019, potenzialmente potrebbe fornire 38 miliardi di metri cubi di gas / anno ai cinesi entro il 2024, ovvero circa il 15% dei volumi di esportazione di gas naturale russo del 2018. Nonostante questi progressi, sembrerebbe tuttavia che la Cina sia piuttosto riluttante a sostenere l'industria energetica russa per scopi geopolitici.

Un’equa transizione globale

La UE ha un interesse strategico a contribuire alla stabilità del suo vicinato per una serie di motivi: dall’adattamento e mitigazione della crisi climatica, alle migrazioni, al commercio. In tale contesto, aiutare i paesi esportatori di petrolio e gas del vicinato a gestire le ripercussioni del Green Deal, individuando concrete misure di cooperazione per un’equa transizione ecologica globale, sarà un punto cruciale dell'agenda di politica estera UE.

L'Unione Europea non dovrebbe adottare un approccio unico per tutti. Dovrebbe piuttosto adattarsi al contesto specifico di ciascun paese partner, concentrandosi sui vantaggi competitivi reciprocamente più promettenti. In chiaro: le esperienze passate dell'UE nella promozione di progetti astratti di cooperazione energetica regionale non vanno ripetute. Ma una domanda si impone: l'UE e i suoi vicini esportatori di petrolio e gas hanno oggi il tempo per pianificare adeguatamente un’equa transizione?

In teoria, come si è già detto, fino al 2030 l'UE continuerà a importare petrolio e gas dai paesi vicini e un calo significativo inizierà solo dopo il 2030. L’arco temporale (assai limitato) da oggi fino al 2030 dovrebbe essere utilizzato per prepararsi a ciò che verrà dopo. I proventi delle esportazioni di petrolio e gas dovrebbero essere sempre più utilizzati dai paesi esportatori di petrolio e gas per diversificare le proprie economie. Innanzitutto, investendo nelle energie rinnovabili, incluso l'idrogeno verde: fonti alternative di energia che - in un futuro anche prossimo - potrebbero essere esportate verso l’Europa, sostituendo definitivamente i fossili. L'UE dovrebbe sostenere tali iniziative, anche attraverso un approccio più deciso e coerente ai finanziamenti per il clima (a 360°: dall’educazione alla ricerca, dal commercio alle infrastrutture sostenibili, ecc.).

Una mentalità estrattiva e predatoria

Nel caso della Federazione Russa, non è stato possibile nemmeno avviare tale processo: la guerra di aggressione di Putin all’Ucraina ne è, purtroppo, la dimostrazione plastica. Iniziata il 24 febbraio 2022, oltre a causare morte e distruzione sul territorio di un paese sovrano, la guerra si è anche tradotta in una crescente ostilità verso la UE e le sue politiche più rilevanti. In primis, appunto, quelle relative alla decarbonizzazione.

Questa mentalità, estrattiva e predatoria, deriva da una visione in cui il mondo è visto come un'arena di intensa competizione e in cui la missione primaria del governo russo è la difesa dei propri interessi nazionali. Mosca ritiene che gli appelli di altri paesi a impegnarsi in tagli del carbonio più ambiziosi (e urgenti) siano semplicemente dei tentativi di indebolire la posizione competitiva e l’influenza internazionale della Russia.

Del resto, la politica climatica della Federazione Russa è in gran parte modellata da potenti gruppi di interesse, primo tra tutti il settore energetico, che costituisce il pilastro dell'economia nazionale. Nel 2018, gli idrocarburi hanno fornito il 46% delle entrate del bilancio federale, il 65% delle entrate totali delle esportazioni e costituivano il 25% del PIL russo. Queste cifre impressionanti offrono un notevole peso politico alle grandi aziende del settore energetico, Gazprom e Rosfnet in testa. La loro influenza si estende a molte aree (dai media alla finanza, solo per citare due settori tra i più sensibili). Di conseguenza, Gazprom & Co sono in grado di bloccare qualsiasi politica, o semplice indirizzo (per esempio, da parte dei media) verso un'economia post-industriale e post-carbonio.

Nel discorso alla nazione con cui annuncia la cosiddetta ‘operazione speciale’, Vladimir Putin afferma che la Russia non può più tollerare l’accerchiamento della NATO e che intende liberare l’Ucraina dai nazisti. Ma, come sottolinea Giuseppe Sabella,

«l’ingresso dell’Ucraina nella Nato non è più all’ordine del giorno dopo il 2008. E non vi è alcun accerchiamento della Russia.»

In realtà Putin vuole colpire ancora e a fondo l’UE, spiega ancora Sabella:

«Putin giustifica la sua operazione con un discorso che da una parte scarica le responsabilità sull’Occidente e sulla Nato, dall’altra rispolvera elementi storici e revanscisti: ‘l’Ucraina è parte della storia russa, russi e ucraini sono un popolo solo’. In realtà a Putin interessa solo quello che i geologi chiamano ‘lo scudo ucraino’.»

Putin vuole avvicinare Mosca a Pechino perché ha capito che, in particolare con l’Europa, gli affari si ridurranno. Obiettivo del capo del Cremlino è fare della Federazione Russa il più importante fornitore di materie prime della ‘fabbrica del mondo’, la Cina. Per questo Putin vuole lo ‘scudo ucraino’, territorio compreso tra i fiumi Nistro e Bug, che si estende fino alle rive del Mar d’Azov nel sud del Donbas. È questa una delle aree più ricche del mondo in termini di potenziale minerario. In particolare per le riserve di litio, già al centro di un caso internazionale che coinvolge Europa e Cina: una vicenda che precede di pochi mesi la guerra in Ucraina.

La mappa mostra la rete di gasdotti dalla Russia verso la Cina
Il trasferimento di gas dalla Russia verso la Cina – via Oliver Alexander

In Italia, la prevalente narrazione della crisi ucraina si avvale di categorie interpretative da guerra fredda. Di conseguenza, si sottovaluta quanto, in realtà, sia cruciale - per un paese esportatore di materie prime e completamente refrattario all’innovazione come la Russia - l’accaparrarsi di risorse primarie e il relativo posizionamento geopolitico.

L’arma dei combustibili fossili

Gli asset del gas e del petrolio sono beni strategici e le decisioni di politica energetica non avvengono in un vuoto geopolitico, ça va sans dire... Data l'importanza della Russia per il consumo energetico dell'UE, è particolarmente rilevante valutare in che modo la Federazione Russa abbia utilizzato nel tempo le esportazioni di energia come mezzo per perseguire obiettivi di politica estera. Già nel 2018 il Policy Department delle Relazioni Esterne del Parlamento Europeo aveva sottolineato quanto i combustibili fossili venissero utilizzati dal Cremlino come strumento di pressione geopolitica.

La Russia usa la sua ricchezza energetica per rafforzare la propria posizione regionale, ottenere favori politici dai paesi di transito ed esercitare influenza sul suo ‘vicino estero’. Naturalmente, la usa anche per sviluppare la propria influenza sullo scacchiere globale e impedire ad altri di sfidare i suoi interessi strategici. Al contempo, le aziende energetiche russe operano nel contesto del mercato internazionale, dove le regole commerciali - in primis, la massimizzazione dei profitti - giocano un ruolo di primo piano. La politica energetica estera della Federazione Russa è, dunque, un prodotto di entrambi questi elementi in equilibrio e talvolta - presumibilmente - in competizione: da una parte le ‘ragioni di Stato’, dall’altra i profitti privati di pochi oligarchi, fedelissimi al regime (se vogliono restare in vita, si direbbe).

Ricchezza e influenza di Mosca si basano sulle abbondanti risorse energetiche, ‘innervate’ (se così possiamo dire) dal suo vasto sistema di gasdotti: infrastrutture interconnesse che hanno reso de facto i paesi terzi sempre più dipendenti dal fornitore russo. Gli Stati membri dell'Unione Europea, in primis la Repubblica Federale Tedesca, sono e sono stati dipendenti, in misura diversa, dalle importazioni di gas naturale russo. Come è facile intuire, ciò crea dipendenze economiche e politiche ben più ampie dello stretto ambito energetico e si traduce in una fonte di potere per Mosca.

La dipendenza dal gas russo, le armi all’Ucraina e l’ambiguità tattica della Germania

La Russia è anche un importante paese esportatore di petrolio. Qui, tuttavia, le implicazioni geopolitiche sono assai diverse. Pur rappresentando una fonte-chiave del reddito nazionale russo, infatti, il petrolio è una merce fungibile e viene scambiato sul mercato internazionale. Ciò lo rende assai meno attraente come strumento di coercizione energetica di quanto non sia il gas naturale. E questo vale soprattutto rispetto al contesto europeo che - prima del conflitto in Ucraina - ricorreva al gas russo per oltre il 40% del proprio fabbisogno. Il gas non può passare a un altro fornitore nello stesso modo in cui si potrebbe fare con il petrolio. Anche fino al 2021 dunque, come rilevava all’epoca Massimo Lombardini, esperto energetico dell’ISPI, sarebbe stato più corretto parlare di interdipendenza tra UE e Federazione Russa.

Infatti, sia in risposta all'annessione della Crimea, o in seguito all'intervento nell'Ucraina orientale nel 2014, gli Stati Membri dell'UE hanno sostanzialmente evitato di imporre sanzioni economiche ai settori del gas e del petrolio convenzionali russi: nonostante le difficili relazioni politiche, le forniture sono proseguite regolarmente fino al febbraio 2022.

Petro-State: dalle origini a Putin

In Russia, l’uso delle risorse energetiche come strumento di pressione in politica estera affonda le proprie radici fin dagli Anni Cinquanta dello scorso secolo, quando l’Unione Sovietica ritornò a essere un esportatore sul mercato globale. Fin da allora, il Cremlino cominciò a sviluppare una rete integrata per il trasporto di gas e petrolio come parte di uno sforzo per costruire un'economia unificata e promuovere l'unità in tutta l'URSS, con la repubblica sovietica russa al suo centro. A partire dai giacimenti di gas e petrolio di alcuni stati sovietici come il Turkmenistan e il Kazakistan, si costruirono oleodotti che raggiungevano la Russia, da dove gas e petrolio venivano redistribuiti nel resto della Federazione, o venduti in Europa (fin da allora principale mercato di esportazione dell’energia sovietica). In cambio, gli stati sovietici estrattori ricevettero gas sovvenzionato. Dai primi anni 2000, poco dopo essere salito al potere, Putin ha sempre avuto l’obiettivo di stabilizzare l’economia, rinnovare l’autorità dello stato e restaurare il ruolo della Russia come attore globale. E l’energia ha, naturalmente, sempre giocato un ruolo determinante di tale agenda.

La concentrazione delle risorse energetiche russe in una manciata di imprese statali ha costituito un fattore cruciale nel consentire che tali risorse, e le relative politiche di esportazione, divenissero un'estensione della politica estera russa. Un risultato lampante, in particolare, guardando alla creazione e allo sviluppo di Gazprom (gas) e Rosfnet (petrolio). Senza questa rinazionalizzazione, la capacità del Cremlino di usare le proprie risorse energetiche in chiave geopolitica sarebbe stata certamente inferiore. Nemmeno i processi opachi e discontinui nella privatizzazione delle due compagnie (e il solito contorno di corruzione e scandali ricorrenti) sono riusciti a offuscare tale determinazione.

Dopo la caduta dell'Unione Sovietica, la Russia ha continuato a fornire agli ex Stati sovietici energia a basso costo. La conseguente, stretta relazione di dipendenza che si è venuta così a creare ne ha scongiurato (o ridotto) ogni potenziale tentativo di smarcarsi dal Cremlino o, peggio, di competere in autonomia sul mercato energetico globale. Allo stesso modo, la Russia ha offerto condizioni assai vantaggiose sulle forniture di gas e petrolio ai paesi terzi, riuscendo in questo modo a vincolarli a sé in una relazione di stretta dipendenza e riuscendo così, progressivamente, ad aumentare la propria quota di mercato. Come già accennato, da tale relazione di dipendenza è stato poi gioco facile estrarre benefici economici o politici. Il modo preferito per farlo è attraverso l'adeguamento dei prezzi dei contratti di gas.

La Russia applica prezzi diversi per i diversi paesi. Spesso semplici variabili economiche, come la distanza e i volumi, non bastano a spiegare le differenze di trattamento. Mosca riserva le tariffe più basse ai governi più fedeli: quando un paese perde il favore politico, gli sconti sui prezzi del gas sono annullati o ridotti. Questo meccanismo è stato più chiaro con i paesi del ‘vicino estero’, come l'Ucraina, la Bielorussia, la Moldavia e l'Armenia. In seno all'UE, qualcosa di simile ha riguardato anche gli Stati Baltici, una dinamica che però si è interrotta con l’invasione dell’Ucraina e la loro fermezza nel condannarla. Mosca sostiene che questi ex Stati sovietici si trovano all'interno di una sfera di influenza russa e utilizza le forniture energetiche per farla pesare. Dopo il crollo dell'Unione Sovietica, Gazprom ha perso l'accesso ai giacimenti di gas e petrolio e alle reti di trasporto negli ex stati sovietici ricchi di energia. Ma con l'assenza di forniture alternative, gli ex stati sovietici - che si erano ormai abituati ai bassi prezzi dell'energia - sono diventati vulnerabili agli aumenti dei prezzi russi, o alle interruzioni delle forniture. La Bielorussia, per esempio, è completamente dipendente dalla Russia per il suo gas naturale che copre quasi il 70% del suo mix energetico.

La ragnatela dei gasdotti

La rete di distribuzione dell'energia è la spina dorsale attraverso la quale il Cremlino può proiettare la propria influenza politica. Grazie al possesso di pipeline di approvvigionamento critiche, Gazprom è in grado di influenzare i processi decisionali nei paesi-chiave. La Russia rifornisce il mercato europeo attraverso tre principali sistemi di gasdotti: uno attraversa Ucraina e Slovacchia, il secondo passa per la Bielorussia e la Polonia e il terzo raggiunge direttamente il più grande consumatore di gas russo, la Germania. Due dei tre sistemi di gasdotti dipendono dalla cooperazione degli Stati di transito per funzionare. Questa interdipendenza ha due opposte implicazioni: da una parte, la Russia può continuare a usare il ricatto energetico di tanto in tanto, ma senza potersi permettere di prolungare troppo a lungo tagli o interruzioni delle forniture. Dall’altra parte, dal punto di vista del Cremlino, la dipendenza dagli Stati di transito mette a rischio i suoi contratti di fornitura e limita la propria libertà di manovra nella politica estera.

La mappa dei gasdotti dalla Russia verso l'Unione Europea – via Wikimedia Commons
Il sistema di gasdotti dalla Russia verso l'Unione Europea – via Wikimedia Commons

Come si è detto, i legami energetici tra Europa e Russia sono profondi e antichi. Alcuni paesi europei sono stati a lungo fortemente dipendenti dalle forniture energetiche russe, in particolare di gas naturale e, poiché gli stati membri dell'UE non acquistano gas collettivamente e hanno diversi gradi di dipendenza dal gas russo, per Mosca è stato facile usare il grilletto dell’energia per intimidirne alcuni – in particolare gli stati più piccoli e orientali. Dall’altro canto, le controversie energetiche tra la Russia e gli stati di transito, che a volte hanno causato interruzioni anche più a valle nei paesi dell'UE, hanno danneggiato l'immagine della Russia come fornitore affidabile.

In risposta alla crisi del gas in Ucraina alla fine degli anni 2000, l'UE ha iniziato a prendere più sul serio la questione della propria sicurezza energetica e la posizione monopolistica di Gazprom è diventata una preoccupazione-chiave. Da allora, molti degli sforzi dell'UE sono stati diretti a migliorare il funzionamento del mercato dell'energia promuovendo la liberalizzazione e applicando con più decisione e coerenza la legislazione europea in materia. Obiettivo: rendere le importazioni di energia meno suscettibili alla contrattazione di politica estera. Il concetto alla base di tale strategia è che l'energia è una merce e che dovrebbe essere scambiata ‘normalmente’ in un mercato europeo liberalizzato e integrato. Il ruolo dell'UE è quindi quello di vigilare per il corretto funzionamento del mercato, stabilendo e facendo rispettare le normative per i fornitori e rimuovendo gli eventuali ostacoli.

Lo strumento più potente per rispondere ai ricatti energetici di Gazprom, infatti, è probabilmente la corretta applicazione delle normative UE sul mercato interno dell'energia. In questo senso, il terzo pacchetto energia del 2009 è fondamentale. Stabilisce che:

  • Le imprese che operano nell'UE devono separare le reti di transito e distribuzione del gas naturale;
  • I fornitori di energia concorrenti dovrebbero avere accesso ai gasdotti, il cosiddetto accesso di terzi;
  • Dovrebbe applicarsi un sistema tariffario trasparente per le condotte di trasporto;
  • I paesi dell'UE dovrebbero diversificare le fonti di approvvigionamento di gas;
  • Le reti europee del gas dovrebbero essere tutte collegate.

L'applicazione del terzo pacchetto energetico è stato uno strumento efficace per ridurre l'influenza di Gazprom. In particolare, il concetto di disaggregazione è importante per impedire a Mosca di utilizzare le sue forniture energetiche per perseguire obiettivi politici: Gazprom fornisce gas agli Stati membri dell'UE, ma possiede anche i gasdotti che trasportano il gas. L'idea alla base della ‘disaggregazione’ è contrastare il fatto che una società che gestisce la rete di distribuzione e controlla la fornitura di risorse energetiche favorisca le proprie affiliate, chiudendo così la rete di distribuzione ai potenziali concorrenti e sostenendo la sua posizione monopolistica. La disaggregazione ha avuto un effetto diretto sulle operazioni di Gazprom in Europa ed è stata, per esempio, la ragione per cui South Stream è stata contestata dalla Commissione. Ma resta ancora molto da fare: uno degli aspetti negativi della disaggregazione è che ha portato alla creazione di intermediari che vendono il gas. Alcuni di essi sono ancora controllati da Gazprom, ma ora con strutture proprietarie opache.

La Commissione Europea ha inoltre utilizzato la legge sulla concorrenza contro Gazprom, accusando l'azienda di sovraccaricare i prezzi per gli Stati membri dell'UE centrale e orientale. Nel 2012 ha avviato procedimenti antitrust contro Gazprom e nel 2015 la Commissione ha accusato Gazprom di fissare prezzi non equi, cercando di dividere i mercati europei del gas attraverso l'uso di clausole di destinazione e impedendo la diversificazione dell'approvvigionamento subordinando le forniture di gas a impegni specifici di investimento per progetti infrastrutturali di gasdotti (come South Stream). A quel punto per Gazprom la questione sarebbe stata quella di cedere sui punti principali mossi dalla Commissione Europea evitando in tal modo un'ammenda. Gazprom, inoltre, avrebbe dovuto abbandonare le clausole di destinazione e consentire una revisione più rapida dei prezzi nei suoi contratti a lungo termine. L'eliminazione delle clausole di destinazione avrebbe consentito agli Stati dell'UE di rivendere il loro gas, rendendo più difficili i prezzi predatori da parte di Gazprom.

Nell'ottobre 2017, tuttavia, la mutata situazione globale dei mercati energetici spinse la Commissione ad avanzare ulteriori richieste a Gazprom. Le ragioni, come è facile immaginare, sono complesse ed è impossibile qui tentarne una sintesi efficace. Per dar conto di quanto intricata fosse la materia (anche prima del conflitto ucraino) segnaliamo, a titolo di esempio, un articolo di Massimo Nicolazzi, apparso su Limes a metà ottobre 2017, che postulava:

«La dipendenza è a prezzi di mercato e l’indipendenza è a costo di sussidio. Successivamente può cambiare e toccherà al pubblico realizzare infrastrutture fondamentali per supplire all’incapacità del mercato di pensare sul lungo periodo. Purché il pubblico giustifichi l’aiuto/sussidio con una rigorosa analisi costi/benefici, eviti il ricorso emotivo alla “dipendenza” e non usi il termine “strategico” a contrassegnare tutto ciò per cui non trova giustificazione economica.»

UE: nasce l’Unione dell’Energia

Nonostante alcune criticità, le misure adottate dalla UE stanno riuscendo (in parte) nell’intento di indebolire la capacità russa di utilizzare le esportazioni di energia per esercitare pressioni politiche sull’Europa. Prima fra queste, il lancio nel febbraio del 2015 dell'Unione dell'Energia dell'UE, un passo cruciale per lo sviluppo di un mercato interno integrato: «Un'Unione - recita il comunicato - resiliente, articolata intorno a una politica ambiziosa per il clima». Essa mira a diversificare ulteriormente le fonti energetiche e a rafforzare la sicurezza energetica europea, tra l’altro conferendo alla Commissione nuovi poteri. Nell'ambito dell'Unione dell'Energia, il 5 aprile 2017 la Commissione Europea viene incaricata di verificare ex ante se gli accordi energetici conclusi dagli Stati membri con paesi terzi non appartenenti all'UE rispettino il diritto comunitario. Si tratta di un passo decisamente positivo per migliorare la trasparenza nel mercato europeo dell'energia.

Al fine di promuovere la liberalizzazione del mercato dell'energia, l'UE sostiene la diversificazione delle fonti energetiche, in particolare per quei paesi che dipendono da fornitori unici come la Russia. Un elemento-chiave di tale strategia è la connessione delle reti del gas in tutta l'UE, attraverso la costruzione di un sistema di interconnettori e gasdotti a flusso inverso. Ciò riveste un'importanza decisiva in termini di sicurezza energetica, in quanto - idealmente - consentirebbe di spedire gas naturale da diverse parti della UE dove è necessario, in modo che l'offerta possa soddisfare la domanda indipendentemente dal paese di accesso/transito e dal fornitore. Ciò permetterebbe all'UE di potersi adattare a eventuali interruzioni dell'approvvigionamento.

In parallelo, l'UE si prefigge di consumare meno idrocarburi. Come? Adottando misure via via più stringenti per migliorare l’efficienza energetica e investendo nelle fonti di energia rinnovabili. Secondo Bruxelles, infatti, è questo il miglior modo per aumentare la sicurezza energetica europea e, al contempo, dar concreto seguito all'imperativo di ridurre rapidamente le emissioni di climalteranti a livello globale. Tuttavia (come sa chiunque abbia seguito, anche solo distrattamente, l’acceso dibattito sulla ‘tassonomia verde’), il gas naturale è stato considerato come un combustibile ‘ponte’ verso un'economia a basse emissioni di carbonio perché produce meno CO2 del petrolio o del carbone quando viene bruciato. Nel medio termine, è dunque prevedibile che la domanda globale di gas aumenterà man mano che le economie avanzate (e dei paesi in via di sviluppo) procederanno nel complesso cammino della transizione verso la decarbonizzazione globale. Per l’UE ciò significa che anche se la domanda generale di energia diminuisse, come è auspicabile, la domanda totale di gas dell'Europa diminuirà meno rapidamente.

Clima: Putin e l’andatura del gambero

In tema di strategie e politiche per il clima, non c’è che dire, Putin ha scelto l’andatura del gambero. E nessuno che gliene chieda conto: né dentro, né fuori dalla Russia. Mentre molti paesi (avanzati e non) stanno via via aumentando il proprio ricorso alle energie rinnovabili, la Federazione Russa sta procedendo spedita nell’incrementare continuamente l’estrazione, l'uso e la distribuzione di combustibili fossili.

Secondo Putin e la Strategia Energetica 2035 elaborata dal suo governo, infatti, questa è la condizione essenziale affinché il paese sia tra i maggiori attori economici internazionali in futuro. La produzione di gas, in particolare, dovrebbe raggiungere i 1.000 miliardi di tonnellate all'anno entro il 2035, con un aumento del 50% rispetto al 2019. In tutti i documenti ufficiali Mosca parla tutt’al più di ‘adattamento’ climatico e mai di ‘mitigazione’: secondo il Cremlino, evidentemente, non è necessario adottare alcuna misura per accompagnare gli effetti del riscaldamento globale. D'altra parte, Putin non ha mai espresso l'intenzione di agire per rallentare il fenomeno. La sua posizione è de facto assimilabile a quella dei negazionisti climatici, nonostante gli accordi di Parigi.

La politica climatica russa è esplicitamente subordinata al conseguimento di altri obiettivi, ritenuti strategici da Mosca (tanto sul fronte interno che a livello internazionale). In altre parole, le autorità russe si occupano del clima solo nella misura in cui farlo possa servire ad accrescere l’influenza geopolitica e geoeconomica russa; sia decisamente funzionale alla crescita economica del Paese (ora e subito) e, last but not least, contribuisca a proteggere e rafforzare la posizione di mercato delle principali società energetiche russe, come Gazprom, Rosneft e Novatek. Nulla a che vedere, insomma, con un desiderio – anche recondito – di ‘salvare il pianeta’. Né vi è traccia – nel discorso pubblico di Putin e del suo entourage – della benché minima preoccupazione per le conseguenze dell’emergenza climatica sulla stessa Federazione Russa. Parte dell'élite, del resto, ritiene che il riscaldamento globale venga strumentalizzato dall’Occidente solo per minare i vantaggi competitivi della Russia nel campo degli idrocarburi.

La postura da ‘vittima dell’Occidente’ è una delle parti in commedia più amate e ricorrenti tra quelle recitate nei dintorni del Cremlino: se fino a ieri l’accusa era quella di usare “l'ordine basato sulle regole” per promuovere i nostri interessi a discapito di quelli dei Russi, ora - noi occidentali - siamo sospettati di “mantenere il catastrofismo” climatico solo per minare le basi economiche del potere russo. Dunque, riassumendo: gli sforzi globali (in particolare, europei) per limitare le emissioni di carbonio e promuovere la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili non muoverebbero affatto dall’obiettivo dichiarato ormai da qualche decennio. E cioè: tentare di invertire la rotta, rimediare agli errori e provare a garantire la sopravvivenza dei sapiens anche per le generazioni future. No, niente di tutto questo: il vero obiettivo sarebbe quello di indebolire la posizione commerciale delle compagnie energetiche russe.

It takes 2 to tango...

Come abbiamo già accennato, nella Federazione Russa le ambizioni strategiche del regime e gli interessi dei ‘signori del fossile’ collimano perfettamente. Ma ciò spiega solo parzialmente lo strapotere a livello internazionale di Gazprom (sopra a tutte), Rosneft, o Novatek. Né spiega appieno l’estrema facilità con cui Putin ha potuto usare il ‘grilletto energetico’ nel disegnare la propria politica estera. L’altro elemento, fin qui assai poco esplorato nelle analisi del conflitto ucraino, è l’avidità dell’Occidente. O meglio, l’approccio turboliberista (predatorio) di alcune multinazionali energetiche e dei governi occidentali che ne hanno supportato servilmente le strategie, giungendo a ‘farsi dettare’ non solo le scelte in tema di mix-energetico, ma perfino l’agenda politica estera nel suo insieme. E ciò avveniva da ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina. E alla faccia della decarbonizzazione.

“Le compagnie petrolifere fanno profitti senza precedenti mentre milioni di persone finiscono in povertà. C’è bisogno di un nuovo contratto sociale”

Se ci è concessa una breve digressione, in Italia abbiamo avuto un’immagine plastica della subordinazione governativa alle industrie del fossile anche in tempi più recenti: basti pensare ai viaggi in Nord Africa e Medio Oriente dell’ex-ministro Di Maio e di Claudio Descalzi, amministratore delegato di ENI, in cerca di nuovi fornitori di gas per sostituire velocemente le forniture russe. Come dar torto a Mario Tozzi, che amaramente commentò a caldo: “Invece di cambiare dieta [energetica, ndr], stiamo solo cambiando pusher...”?

Fedele alla linea di Eni e Snam: così l’Italia si appresta a diventare l’hub del gas

Anche prima della guerra, c’è chi - nella UE - ha tratto enormi vantaggi dai prezzi bassi del gas russo. Con vistose differenze da paese a paese. In alcuni casi, infatti, i prezzi favorevoli hanno certamente contribuito a rinvigorire l’economia di un dato sistema-paese dopo la crisi del 2008. In altri invece, ad approfittarne è stata solo una ristretta cerchia di dirigenti e azionisti di quelle multinazionali energetiche che hanno visto aumentare esponenzialmente i propri profitti, con risultati a due, o persino a tre cifre (%), probabilmente favoriti anche (non solo, naturalmente) da quella ‘zona grigia’ che i fornitori russi sono stati maestri a nutrire nell’interlocuzione con i propri clientes occidentali.

Anche senza confondere responsabilità individuali e di sistema, la facilità nella cooptazione di personaggi di primo piano come l’ex-cancelliere tedesco Schroeder (oggi nel board di Gazprom), è solo uno dei tanti esempi delle corresponsabilità predatorie su entrambi i fronti, russo e occidentale. In una perfetta sovrapposizione tra politica e affari. It takes two to tango, appunto.

Zero-Carbon: un’altra Russia è impossibile?

Dipende da Putin (o da chi per lui), ma dipende anche da noi: il mondo è interessato alla Russia non solo per la sua potenza militare, ma anche per le sue risorse energetiche. Se il paese passasse a un'economia post-carbonio, dovrebbe attraversare una transizione prolungata e difficile, sperimentare perturbazioni economiche e potrebbe essere emarginato nel breve-medio termine. Di fronte a tali rischi, i vantaggi di un'economia completamente o in gran parte decarbonizzata appaiono remoti e incerti. Secondo il Cremlino, infatti, la produzione di combustibili fossili è prioritaria come risorsa-chiave del paese. Il processo decisionale in materia climatica, come in altre aree della politica pubblica, del resto, dipende dall'apprezzamento dell'élite dei vantaggi e delle debolezze comparative della Russia.

Mosca ha poca fiducia nella proprie capacità di sviluppare un'economia post-industriale, high-tech e a basse emissioni di carbonio per sostituire l'attuale modello industriale. In teoria, un tale sviluppo sarebbe possibile se il paese investisse in fonti di energia rinnovabili e sviluppasse l'industria nucleare e il mercato dell'idrogeno. Tuttavia, Putin tende a scegliere la via d'uscita più facile e il beneficio più ovvio: un approccio che esclude l'innovazione.

Il mancato sviluppo delle energie rinnovabili è tra gli aspetti più vistosi di tale impostazione. Mentre alcuni paesi industrializzati (compresi esportatori di combustibili fossili come gli Stati Uniti), si stanno adattando ai cambiamenti climatici e stanno sviluppando le fonti alternative di energia, la Russia è in un tale ritardo che definirlo ‘grave’ è davvero un eufemismo: nel 2018, l'energia solare ed eolica rappresentava solo lo 0,02% della produzione energetica russa. Questa quota dovrebbe raggiungere solo lo 0,7% nel 2035. I dati sulla produzione di elettricità illustrano il contrasto tra la Russia e le altre principali economie. Nel 2019, solo lo 0,16% dell’elettricità russa è stata generata da fonti rinnovabili, esclusa l'energia idroelettrica, mentre la media globale è del 10% e la media europea è del 20%. Al contrario, Mosca intende aumentare significativamente la produzione interna di carbone nei prossimi quindici anni, nonostante il calo della domanda globale.

"La Russia percepisce qualsiasi tipo di competizione al di fuori della sua posizione di leader mondiale dell'energia [...] come minaccia esistenziale che deve essere contenuta/eliminata, piuttosto che come incentivo o potenziale opportunità di adattamento/innovazione."

Il Cremlino mette in guardia contro "qualsiasi pregiudizio agli interessi degli Stati produttori di risorse". Di conseguenza, ha minacciato di contrastare il Green New Deal dell'UE e l'introduzione di una tassa sul carbonio alle frontiere portando la questione davanti all'Organizzazione Mondiale del Commercio sulla base del fatto che tali misure costituirebbero pratiche commerciali sleali.

Oggi, nel quadro dell’aggressione all’Ucraina, assistiamo al crescente fallimento della Russia nella sua politica energetica: ciò che avrebbe dovuto accrescere la sua potenza militare, si è invece rivelata una grave vulnerabilità.

“Mosca si percepiva come una potenza energetica indispensabile, che potrebbe strumentalizzare le sue esportazioni di petrolio e gas per erodere l'unità dell'alleanza occidentale, e fatica a comprendere il fatto che l'Europa, carente di energia, è in grado di trasformare i tagli alle importazioni e i massimali dei prezzi in strumenti di pressione sullo stato aggressore. L'Ucraina ha tratto vantaggio sul campo di battaglia dallo stato delle truppe russe sotto-fornite e completamente demoralizzate. In questo contesto ogni inasprimento delle sanzioni occidentali assicura che Mosca non sarà in grado di ricostruire le capacità necessarie per un'altra offensiva nella primavera nel 2023.”

Un cambiamento radicale nella politica climatica russa sembra improbabile. La strategia energetica 2035, e in particolare la strategia di produzione di carbone 2035, indicano che il governo è fermamente impegnato a espandere la produzione e l'esportazione di combustibili fossili e che non ha pianificato di effettuare nemmeno una transizione modesta e graduale verso le energie rinnovabili. La Russia è tra i paesi che necessariamente resisteranno al cambiamento perché l'economia globale dei combustibili fossili è fondamentale per loro.

Tenuto conto di tale contesto, anche la tanto invocata ‘via diplomatica’ per la risoluzione del conflitto ucraino dovrebbe porre al centro dei propri sforzi l’emergenza climatica e la necessità di un’urgente ed effettiva cooperazione globale per l’adattamento e la mitigazione del fenomeno. Per far ciò, sarebbe necessario che (almeno) sul fronte dell'UE ci si muovesse coesi per disegnare una road-map e un cronoprogramma di misure condivise e urgenti. A partire dall’attualizzare il Green Deal UE con uno specifico capitolo: proposte concrete su come affiancare la Federazione Russa in un vero percorso di decarbonizzazione.

Naturalmente, in cambio, Putin (o chi per lui) dovrà porre subito fine al conflitto in Ucraina. Un “Green Deal for Peace”, insomma.

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*Marco Loprieno è stato funzionario per 27 anni della Commissione UE, di cui 19 passati a lavorare sulle politiche per il Clima sia in Europa ma anche, negli ultimi 10 anni, in Asia (Cina, Taiwan, Corea del Sud, Giappone)

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Pat Lugo si occupa di comunicazione sociale e ambientale da una trentina di anni (prima come giornalista, poi come consulente UN); è stata autrice di vari progetti di educazione ambientale tra cui YouthXchange, una piattaforma globale per il consumo responsabile realizzata per UNEP e UNESCO.

Nel 2002 a Bruxelles, Marco e Pat hanno fondato Exit_Lab - un laboratorio artivista, che lavora sul crossover tra arti (in particolare musica, video e fotografia) e i temi di cui sopra.

Immagine in anteprima via orientenergyreview.com

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