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La sfida della transizione ecologica: dobbiamo rifare tutto e abbiamo solo 30 anni per farlo

1 Ottobre 2021 9 min lettura

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La sfida della transizione ecologica: dobbiamo rifare tutto e abbiamo solo 30 anni per farlo

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di Gianluca Ruggieri

In questi giorni i movimenti giovanili hanno ripreso a manifestare dopo il lungo stop imposto dall'emergenza pandemica. Fridays for Future, Extinction Rebellion e gli altri mostrano così un'encomiabile costanza nel ricordare all'opinione pubblica e ai governi mondiali i loro messaggi: ascoltare la scienza e agire subito per la giustizia climatica. 

Slogan apparentemente semplici che però implicano una missione molto complessa: dobbiamo rifare tutto e abbiamo solo 30 anni per farlo. La sfida della transizione ecologica infatti non riguarda solo il settore della generazione di elettricità, come troppo spesso si tende a pensare. Per mantenere l'aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2°C (e per fare tutto il possibile per limitarlo a 1,5°C) come ci chiede l'Accordo di Parigi dovremmo lasciare sottoterra il 90% del carbone, il 60% del petrolio e il 60% del gas che già sappiamo di avere. Dobbiamo decarbonizzare tutto il sistema energetico, e decarbonizzare non significa fare a meno del carbone, ma annullare le emissioni di anidride carbonica e degli altri gas serra, rinunciando alla combustione di risorse fossili. Dobbiamo allora rifare le nostre case, ripensare a quanto e come ci muoviamo, ridefinire i processi industriali, la quantità e qualità dei loro prodotti oltre che i cicli di produzione agricola e alimentare. 

Ma perché dobbiamo? È proprio necessario?

È necessario perché non fare nulla costerà di più. Le stime economiche dell'impatto dei cambiamenti climatici sono complicate e i risultati sono diversi, ma da almeno 15 anni non ci sono dubbi sul fatto che qualsiasi politica di business as usual, in cui continuiamo ad aumentare le emissioni come abbiamo fatto fin qui, avrà conseguenze estremamente negative, anche in termini economici. Studi recenti addirittura ritengono che i costi dell'inazione potrebbero essere fino a 15 volte superiori di quanto ritenuto finora.

La sfida della decarbonizzazione è una sfida di enorme complessità, in termini di dimensione complessiva oltre che di urgenza temporale, e può essere vinta solo se siamo in grado di alimentare circuiti virtuosi di cambiamento. È necessario agire contemporaneamente su almeno quattro piani: quello strettamente tecnologico, quello politico, quello dell'economia (reale e finanziaria), oltre che, ovviamente, quello delle scelte e dei comportamenti personali. La soluzione non può infatti essere puramente tecnologica: continuare a consumare tutto indiscriminatamente anche con tecnologie efficienti ed energie rinnovabili ci porterebbe comunque a confrontarci con i limiti fisici del pianeta. Per fare un esempio, di quanto acciaio o litio avremmo bisogno per dare un'automobile elettrica a 9 miliardi di persone (o anche solo alla metà)? 

Allo stesso tempo l'azione non può essere puramente politica: non è pensabile che un dittatore saggio, onnisciente e onnipotente possa essere in grado di imporre i cambiamenti necessari se questi non sono al contempo desiderati dalle persone. E, di nuovo, difficilmente gli attori economici, le aziende e gli istituti finanziari potranno farsi carico del cambiamento se il sistema complessivo li dovesse penalizzare per le loro scelte virtuose continuando a sussidiare le fossili e a non penalizzare filiere industriali responsabili di enormi impatti climatici e ambientali. È tempo di superare l'annoso dibattito se sia più importante (e impattante) il cambiamento personale o quello deciso dai governi. È infatti necessario che i cittadini con i loro comportamenti possano stimolare l'azione economica e le decisioni politiche verso la transizione, ma data la dimensione del cambiamento necessario, questo non può essere sufficiente senza un'azione sistemica.

Avere come orizzonte temporale il 2050, quando dovremo annullare le emissioni, può darci l'impressione di avere tanto tempo. In realtà per arrivare a questi obiettivi, siamo già in ritardo. Dobbiamo infatti dimezzare le emissioni ogni 10 anni. Proprio per questo, ad esempio, la Corte Costituzionale tedesca recentemente ha chiesto al governo Merkel di modificare la legge sul clima, perché pur avendo come obiettivo la decarbonizzazione del paese entro il 2050, rimandava gran parte delle misure più rilevanti a dopo il 2030. In questo modo, secondo la Corte, il rischio sarebbe di gravare troppo sulle future generazioni, introducendo obblighi differiti che potrebbero tradursi in rilevanti riduzioni delle libertà personali «perché quasi tutti gli aspetti della vita umana sono ancora associati all’emissione di gas serra e quindi sono minacciati dalle restrizioni drastiche che si dovranno fare dopo il 2030».

Andando con ordine, se analizziamo prima delle altre la questione energetica (che a questo punto dovrebbe apparire chiaramente come un aspetto importante di una sfida ben più vasta), quali possibili scenari ci porterebbero alla completa decarbonizzazione? Sono tantissimi (enti di ricerca, aziende, agenzie governative, think tank, ...) a essersi confrontati con questo obiettivo. Ovviamente i vari scenari possono differire, anche in maniera sostanziale, ma su alcuni aspetti sembra esserci una sostanziale convergenza. 

Nelle economie mature (in quelli che avremmo un tempo chiamato i paesi più industrializzati) è necessario incrementare significativamente l'efficienza energetica, riducendo in maniera sostanziale i consumi energetici. Questo obiettivo è già nei piani di diversi paesi: tra i più ambiziosi la Svizzera (riduzione dei consumi procapite del 43% tra il 2000 e il 2035), la Francia e la Germania (in entrambi i casi riduzione del 50% a metà secolo). Per ora l'Unione Europea ha un obiettivo di aumento dell'efficienza energetica del 32,5% al 2030. 

Ovviamente in molti paesi (quelli che un tempo avremmo chiamato in via di sviluppo) non è pensabile una riduzione dei consumi e al contrario gli obiettivi di sviluppo delle Nazioni Unite richiedono l'accesso ai servizi energetici di base alle oltre 750 milioni di persone che ne sono ancora prive in tutto il mondo (tre quarti delle quali vivono nell'Africa sub sahariana).

Come è possibile ottenere obiettivi così ambiziosi di riduzione dei consumi energetici? Intanto riducendo gli sprechi, ad esempio isolando i nostri edifici colabrodo. Ma un secondo aspetto della transizione ci viene in aiuto, la cosiddetta elettrificazione. I sistemi energetici a cui ci siamo affidati negli ultimi 200 anni hanno spesso sviluppato tecnologie basate sulla combustione di risorse fossili. In un'epoca in cui queste risorse erano economiche, facilmente disponibili e trasportabili e fornivano vantaggi considerati di gran lunga superiori agli impatti ambientali prodotti, non era strano ricorrere a tecnologie altamente inefficienti come il motore a combustione interna che alimenta la quasi totalità delle automobili circolanti. Circa l'80% dell'energia prodotta dalla combustione che avviene nel motore è dissipata come energia termica, o attraverso i fumi di scarico, o attraverso il circuito di raffreddamento, oppure come attrito interno al sistema di trasmissione. Questa energia poi è dispersa tutte le volte che azioniamo il sistema frenante, che non è pensato per alcun recupero. Una qualsiasi auto elettrica è molto più efficiente perché riduce le dispersioni e recupera l'energia in frenata. Analoghi ragionamenti si possono fare quando si passa da un sistema di riscaldamento degli edifici basato su caldaie a uno basato su pompe di calore elettriche, che recuperano il calore dall'ambiente, anziché disperderlo nei fumi.

L'elettrificazione è quindi intrinsecamente efficiente e tende a ridurre i nostri consumi.

Ma se si consuma meno energia sarà poi più facile produrla. Dal punto di vista della generazione tutti gli scenari ritengono che le fonti rinnovabili saranno in grado di produrre la maggior parte dell'elettricità che utilizzeremo. In particolare il solare fotovoltaico e l'energia eolica saranno le due tecnologie principali, ad esse si affiancheranno le biomasse e l'idroelettrico. Un ruolo al momento marginale sembra destinato ad altre fonti come la geotermia e l'energia marina (da maree e onde). Ognuna di queste fonti ha le sue criticità, che sarebbe lungo esplorare in questa sede, ma tutte dovranno comunque portare il loro contributo alla transizione.

Le risorse eoliche e solari sono intermittenti, cioè non sono controllabili e programmabili, ma producono rispettivamente in presenza di vento o di radiazione solare. Questo pone una sfida al sistema elettrico che ha la necessità di mantenere in qualsiasi momento l'equilibrio tra la produzione e il consumo di elettricità. Finora questo equilibrio è stato assicurato da impianti termoelettrici, normalmente a gas metano, a cui dovremo però in prospettiva rinunciare. Per questo motivo sarà necessario sviluppare sistemi di accumulo da integrare nella rete elettrica nazionale. Gli accumuli possono essere di diverso tipo e possono essere distribuiti (le batterie nelle case) o concentrati (mega-batterie, grandi impianti). Inoltre possono rispondere a esigenze molto diverse. Ce ne sono alcune di brevissimo termine, dell’ordine dei pochi secondi o minuti, che riguardano l’equilibrio della frequenza di rete. Altre che si giocano in periodi di ore, come nel caso della produzione da fotovoltaico che può essere accumulata di giorno per soddisfare consumi serali o notturni. Infine ci possono essere esigenze di accumulo stagionali, con risorse solari disponibili soprattutto d’estate e consumi energetici distribuiti in tutto l’anno.

In quest’ottica è possibile pensare a integrazioni di tecnologie di accumulo diverse, non solo in grado di far fronte alle esigenze della produzione ma anche a quelle dell’uso finale. 

Le batterie al litio sembrano al momento non avere rivali negli accumuli a breve termine, fino a periodi giornalieri o settimanali. Se parliamo invece di esigenze di accumulo stagionali, una possibilità è quella del cosiddetto power to gas. La disponibilità in eccesso di elettricità può essere utilizzata per la produzione di metano o idrogeno, facilmente stoccabili per lunghi periodi di tempo e riutilizzabili poi al bisogno. Mentre le batterie sono una tecnologia consolidata, che ha diminuito (e continua a diminuire) i propri costi in maniera estremamente significativa e si presta agli usi più diversi, la produzione di metano e idrogeno a partire da fonti rinnovabili richiede ancora un enorme lavoro di ricerca e sviluppo prima di poter proporre soluzioni concrete disponibili sul mercato. È solo in quest'ottica che andrebbe valutata la prospettiva dell'idrogeno, non in quella attualmente in voga di mantenere viva più possibile l'industria estrattiva del gas naturale.

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In sintesi, efficienza, elettrificazione, rinnovabili e accumuli sono quattro pilastri irrinunciabili della decarbonizzazione e della transizione energetica. Su tutto il resto (fissione e fusione nucleare, cattura e sequestro di anidride carbonica, biocombustibili, …) le posizioni possono essere anche molto diverse e il dibattito è aperto.

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Il cambio di paradigma prevede un sistema energetico e, in particolare, un sistema elettrico profondamente diversi da come li abbiamo costruiti in passato. Non più solo grandi impianti di generazione, una rete monodirezionale di fornitura e innumerevoli utenti, ma tanti produttori-consumatori collegati orizzontalmente tra loro, con integrazione di accumuli e una gestione della domanda più flessibile. Ad esempio, è possibile decidere di caricare le batterie nelle ore in cui l'elettricità costa meno e non caricarle quando costa di più. L'orizzonte possibile è quello di una maggiore democrazia energetica.

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I consumi di energia fossile sono attualmente i principali responsabili delle emissioni di gas climalteranti, ma non sono gli unici. Per realizzare una vera e profonda transizione ecologica sarà necessario intervenire anche sul settore agricolo e dell'allevamento, sulle filiere alimentari e più in generale sull'uso del suolo.

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La transizione energetica ed ecologica avrà impatti enormi su tanti aspetti del nostro vivere quotidiano. Per questo motivo è inevitabile non considerarla solo dal punto di vista della dimensione ambientale. Non a caso, come già ricordato, i movimenti parlano di giustizia climatica. 

Se da un lato gli scienziati naturali, da tempo, sono sostanzialmente unanimi nel metterci in guardia sulla crisi climatica e sulla drammatica perdita di biodiversità a cui assistiamo con la cosiddetta “sesta estinzione di massa”, dall'altra gli scienziati sociali si sono mobilitati attorno all'altra parallela crisi dovuta alla crescenti disuguaglianze sociali. La crisi climatica e ambientale e la crisi di disuguaglianza possono peraltro amplificarsi a vicenda. Il cambiamento climatico infatti amplifica gravi disuguaglianze, tra paesi e all'interno dei paesi, e ne introduce di nuove, quelle tra generazioni. Generazioni che non hanno responsabilità nelle emissioni, ne pagheranno le conseguenze. Paesi che hanno una minima responsabilità rischiano di essere cancellati dalle cartine geografiche a causa dell'innalzamento del livello del mare o della desertificazione incombente. Ma anche all'interno degli stessi Paesi gli effetti del cambiamento climatico non peseranno su tutti allo stesso modo: secondo Oxfam il 10% di popolazione più ricca è responsabile del 50% di emissioni, il 50% più povero è responsabile del 10% delle emissioni. In questo quadro, la transizione non può essere accessibile solo a chi se la può permettere.

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È quindi necessario progettare in maniera integrata le soluzioni alle diverse crisi, in modo che possano essere efficaci rispondendo contemporaneamente a esigenze apparentemente distanti. Ad esempio, una carbon tax che pesi sui combustibili fossili, rendendoli meno convenienti, ma che possa poi essere ridistribuita ai ceti meno abbienti; un programma di edilizia pubblica che promuova case e scuole in classe A per tutti, a cominciare dai ceti più deboli; progetti di riqualificazione urbana che piantino alberi e prevedano corpi d'acqua nei quartieri popolari, riducendo il surriscaldamento estivo senza pesare sui consumi energetici. Abbiamo bisogno di pensare e agire in maniera sistemica: in quest'ottica, più che un singolo ministero della transizione ecologica servirebbe una strategia di governo coerente, anche al di là dei possibili cambi di maggioranza parlamentare.

*Gianluca Ruggieri, ricercatore all’Università dell’Insubria, co-autore insieme a Massimo Acanfora, del libro "Che cos'è la transizione ecologica" (Altreconomia).

Immagine in anteprima: Stefan Müller, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons

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