Non solo persone transgender: i limiti bioetici del binarismo nello sport
14 min letturaNel novembre 2021, il Comitato Olimpico Internazionale ha pubblicato un nuovo regolamento che ridefinisce i criteri di idoneità per le persone transgender, non binarie e con variazioni sessuali negli sport olimpici, sulla base dei principi di parità e inclusione.
Al centro della nuova policy ci sono dieci punti chiave che regolano l’ammissione di atleti e atlete alle Olimpiadi: tra questi si trovano il rispetto della privacy e della salute dell’atleta, la non discriminazione, ma anche la correttezza delle competizioni, il ricorso a dati scientifici e la revisione periodica delle regole.
La nuova policy non è vincolante per le singole federazioni sportive, che possono continuare a stabilire i propri criteri di ammissione, ma si pone piuttosto come punto di riferimento. Così facendo, il Comitato Olimpico ha voluto dimostrare di essersi allontanato dagli approcci invasivi e ampiamente criticati che a lungo hanno regolamentato l’ammissione di sportivi, ma soprattutto sportive, nelle competizioni olimpiche.
Dal sex testing degli anni Sessanta al controllo ormonale, fino al caso Semenya
Fino agli anni Sessanta, infatti, le atlete erano costrette a spogliarsi e camminare nude davanti ai medici che dovevano verificare la presenza di genitali femminili. Conosciuta come “sex testing”, questa pratica ha preso poi la forma di controlli dei cromosomi prima e dei livelli ormonali poi, finendo per essere limitata oggi ai cosiddetti “casi dubbi”, ovvero a quelle situazioni in cui vi è un sospetto di valori ormonali al di sopra della norma.
Anche il controllo dei livelli ormonali però è stato spesso definito come discriminatorio e inadeguato ai fini di garantire competizioni giuste. Non solo non esiste un numero sufficiente di studi che giustifichino questo tipo di analisi, ma con questo metodo non si si tiene conto della complessità del corpo umano, delle variazioni congenite nelle caratteristiche sessuali e delle persone con tratti intersex.
Se guardiamo ad esempio ai livelli del testosterone, l’ormone steroideo del gruppo degli androgeni che è presente soprattutto nel sesso maschile ma non solo, fino allo scorso anno era necessario che le atlete sottoposte a controlli e che volessero partecipare ai giochi olimpici mostrassero un livello di testosterone nel sangue al di sotto di 10 nanomoli per litro nei 12 mesi precedenti la competizione. Negli uomini cisgenere i livelli di testosterone considerati standard possono variare da 9.2 a 31.8 nanomoli per litro mentre nelle donne cisgenere possono stare tra 0.3 e 2.4 nanomoli per litro.
In realtà, però, questi parametri sono piuttosto flessibili. Da uno studio condotto su 693 atleti ad esempio è emerso che non è così raro che ci siano uomini con livelli di testosterone al di sotto della media e donne con livelli al di sopra. E alti livelli di testosterone nelle donne non sono necessariamente indice di tratti intersex: l’iperandrogenismo, che consiste in un’altissima produzione di ormoni androgeni, può essere dovuto ad esempio alla sindrome dell’ovaio policistico, un’alterazione endocrina che colpisce tra l'8% e il 10% delle donne.
Come ha spiegato a Valigia Blu Silvia Camporesi, professoressa associata in Bioethics & Health Humanities al King’s College di Londra, il sex testing può essere definito come “tentativo destinato a fallire, perché la natura umana non è binaria e non può essere divisa nettamente in due categorie”, quella maschile e quella femminile. Quando si cerca di farlo, dice Camporesi, “si creano ingiustizie verso quei corpi che deviano dai binari”.
Camporesi si è occupata a lungo del caso di Caster Semenya, mezzofondista e velocista sudafricana, che, poche ore dopo aver vinto la medaglia d’oro agli 800 metri dei Campionati del mondo di atletica leggera 2009 a Berlino, è stata sottoposta a un controllo del testosterone a sua insaputa. I risultati dei controlli non sono stati resi noti per motivi di privacy, ma in base a una fuga di notizie e a come poi si sono svolte le cose, sembrerebbe che i livelli di testosterone dell’atleta fossero al di sopra dello standard. Semenya si è sempre identificata come donna. Come tale è stata registrata alla nascita, e come tale è stata socializzata. Molte sono state però le speculazioni fatte su di lei, quando sono stati diffusi dalla stampa i risultati dei test ormonali che ha effettuato nel 2009, dando luogo anche a controverse interpretazioni. Ciò che si deduce sia dalla sentenza che la vedrà come protagonista, sia dalle informazioni diffuse, è che l’alto livello di testosterone riscontrato sia dovuto a una variazione o atipicità nello sviluppo sessuale riconducibile al termine ombrello di intersex.
Il caso è molto complesso ed è andato avanti per oltre dieci anni, durante i quali Semenya ha potuto temporaneamente competere sia perché all’inizio aveva deciso di assumere una terapia farmacologica per abbassare il livello del testosterone come richiesto dalle linee guida introdotte dalla IAAF (Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica, oggi conosciuta come World Athletics) sia perché, in seguito alla causa vinta dalla velocista indiana Dutee Chand, i cui livelli di testosterone erano risultati sopra la media, nel 2015 la IAAF aveva sospeso la sua policy.
Nel 2018, la IAAF ha reintrodotto il tetto massimo per il testosterone nelle atlete pari a 5 nanomoli per litro e questa volta Semenya, con il supporto della federazione sudafricana di atletica che ha definito questi criteri ingiusti, ha deciso di fare causa alla IAAF. A maggio 2019, due giudici su tre della Corte Suprema per l’Arbitraggio nello Sport (CAS) hanno dato ragione alla IAAF, escludendo così dalle gare che vanno dai 400 ai 1500 metri le atlete con 46, XY DSD e conseguenti alti livelli di testosterone. Per poter gareggiare negli 800 metri – la sua specialità – Semenya avrebbe dunque dovuto assumere dei farmaci per abbassare i livelli di testosterone.
Camporesi spiega che “imporre dei limiti ai livelli endogeni di testosterone nella categoria femminile rappresenta una soluzione farmacologica che va contro i principi di etica medica: un farmaco deve essere prescritto con l’obiettivo di migliorare la salute di una persona”, e in queste circostanze il beneficio viene a mancare. “Non a caso”, continua la ricercatrice, “l’associazione mondiale World Medical Association si è pronunciata espressamente contro le regole sull’iperandrogenismo e ha incoraggiato i medici a non seguirle”.
Secondo Camporesi, “che Semenya abbia un vantaggio dovuto ai livelli elevati di testosterone si può dire con certezza”, ma “il punto è se questo vantaggio si possa classificare come ingiusto”. Come chiarisce Camporesi, Semenya non raggiunge performance paragonabili a quelle di atleti uomini e i risultati che ha ottenuto nel tempo non possono neanche essere considerati come inaccessibili o inarrivabili da atlete che hanno livelli di testosterone considerati nella norma, come testimoniato anche nelle udienze del caso Semenya al CAS nel 2019 da esperti di genetica dello sport come Russ Tucker e Alun Williams.
Inoltre, spiega Camporesi “esistono molti altri tipi di fattori genetici che conferiscono un vantaggio in competizione, ma questi non sono reputati iniqui”. Un esempio è quello di Eero Mäntyranta, campione olimpico di sci di fondo, con una rara mutazione del recettore dell'eritropoietina e conseguenti livelli di ematocrito superiori a 50, che gli avrebbe garantito un sostanziale vantaggio durante le gare di fondo. Tuttavia la mutazione non è stata mai definita come un’ingiustizia nei confronti dei suoi sfidanti.
Un altro esempio è Michael Phelps, ex nuotatore le cui braccia straordinariamente lunghe e la struttura fisica al di fuori della norma non sono mai state additate come ingiuste, ma piuttosto celebrate come tratti distintivi dell’atleta.
In diversi articoli e studi, Camporesi ha messo in evidenza come questo accanimento esista solo nei confronti delle discipline sportive femminili. Non soltanto, sottolinea, non vi è un tetto massimo di testosterone che gli uomini debbano rispettare, ma la genomica dello sport utilizza di continuo test genetici sia per migliorare gli allenamenti degli atleti sia per selezionare sportivi e sportive in fase di talent scouting.
“Nello sport sembra ci sia questa idea che per assicurare l’equità nelle competizioni, è necessario sopprimere i valori anomali se le donne performano troppo bene o se sono troppo vicine ai range maschili”, spiega Camporesi, sottolineando come siano soprattutto le donne non bianche che anche solo a livello estetico non si conformano a standard occidentali di femminilità a finire nel mirino di media, federazioni, medici e delle loro avversarie, dimostrando così un’intersezione tra misoginia e razzismo.
Le atlete transgender
Nonostante la correlazione tra vantaggio iniquo, migliore prestazione fisica e alto livello di testosterone non sia così chiara, l’ormone androgeno continua a essere un discrimine anche per le atlete transgender, in maniera se possibile ancora più controversa. Le terapie ormonali che molte donne transgender assumono durante la transizione infatti non soltanto abbassano i livelli di testosterone nel sangue, ma hanno anche un impatto notevole sulla massa muscolare e sull’attività aerobica.
La ciclista transgender americana Tara Seplavy ad esempio ha dichiarato che “molte persone non si rendono conto di quanto sia difficile allenarsi a livello atletico quando sei in terapia ormonale. Come ha detto il mio coach, io sto facendo dell’antidoping. Sto introducendo sostanze chimiche nel mio corpo che di fatto pregiudicano le prestazioni atletiche”.
Un’altra ciclista transgender di cui si è parlato molto di recente nel Regno Unito è Emily Bridges. Dopo aver fatto coming out come donna transgender nel 2020 e aver intrapreso una terapia ormonale per la sua transizione, Bridges avrebbe dovuto partecipare alla British National Omnium Championship ad aprile 2022, dal momento che rispondeva perfettamente ai requisiti sul testosterone imposti dalla British Cycling, organizzazione che regola il ciclismo nel Regno Unito.
Nonostante ciò, a pochi giorni dall’inizio della competizione, la ciclista è stata informata di essere stata esclusa dalla gara. Subito dopo, la British Cycling ha sospeso la policy che fino a quel momento aveva permesso alle atlete transgender e alle persone non binarie di gareggiare in competizioni nazionali qualora avessero mantenuto un livello di testosterone al di sotto di 5 nanomoli per litro nei 12 mesi precedenti.
In alcune recenti interviste Bridges, che sta prendendo parte a uno studio scientifico sull’impatto che le terapie ormonali hanno sul fisico di un’atleta professionista, ha spiegato perché la decisione di escluderla è stata ingiusta. Dopo solo quattro mesi dall’inizio della sua terapia ormonale, la ciclista ha infatti detto di aver notato i primi effetti sulle sue performance atletiche: è scomparsa la differenza in termini di prestazioni aerobiche che poteva esserci prima della transizione tra lei e le altre sportive; sono peggiorate le sue distanze; per quanto riguarda la forza esplosiva, sostiene di non essere neppure vicina alle cinque cicliste britanniche più forti del momento. “Gli atleti con cui sono cresciuta”, ha raccontato Bridges, “continuano a vedermi come la stessa persona che ero prima della transizione”.
Bridges ha anche criticato la tendenza delle federazioni sportive di prendere decisioni in assenza di studi scientifici focalizzati su atleti e atlete transgender: molte ricerche sono condotte infatti su individui non sportivi o su atleti cisgenere e questo li rende irrilevanti per stabilire criteri di idoneità nelle competizioni.
Sempre nel Regno Unito, anche la Rugby Football Union ha vietato alle donne transgender di prendere parte alle gare nazionali di rugby femminile. Alix Fitzgerald, giocatrice di rugby nella East London Vixens, ha spiegato che, in seguito alla terapia ormonale a cui si è sottoposta durante la transizione, i suoi livelli di testosterone si sono abbassati a un punto tale che ha dovuto assumere degli integratori per proteggere le sue ossa. “Ci sono persone più robuste di me, più forti di me”, ha raccontato Fitzgerald ricordando i momenti in cui è stata placcata e buttata a terra da giocatrici con una fisicità più potente della sua.
La struttura fisica più robusta e potente è difatti un punto centrale per coloro che si dicono contrari all’inclusione delle donne transgender nelle competizioni sportive femminili. Alcuni studi condotti su persone cisgenere dimostrano che coloro che attraversano la pubertà maschile presentano una serie di caratteristiche ormonali e fisiche, come la densità ossea e muscolare e la capacità polmonare, che li rende fisicamente più forti.
Secondo la ricercatrice e atleta Joanna Harper, che è spesso stata criticata per le sue posizioni conservatrici, anche se in media è vero che le donne transgender hanno strutture fisiche più grandi, questo non costituisce sempre un vantaggio: in seguito alla terapia ormonale, “un corpo più ampio viene mosso e alimentato da una massa muscolare e una capacità aerobica ridotte, e questo può portare a svantaggi in termini di velocità, ripresa e altri fattori”.
In base agli studi condotti finora da Harper, uno dei dati più interessanti è invece il ruolo dell’emoglobina nel sangue che, come ha spiegato lei stessa, “è forse la ragione più importante per cui gli uomini performano meglio delle donne negli sport di resistenza”. Nelle donne transgender che hanno seguito un trattamento ormonale, i livelli di emoglobina si riducono al pari di quelli delle donne cisgenere.
Numeri
Oltre alla questione della correttezza ed equità delle competizioni, un altro aspetto messo al centro del dibattito soprattutto da gruppi trans-escludenti è la necessità di proteggere le donne cisgenere e il loro diritto a eccellere. A lungo escluse e definite inadatte a praticare sport e poi relegate ad attività fisiche considerate più adeguate al loro genere, le donne sono ancora e spesso considerate marginali in ambito sportivo sia per la narrazione che se ne dà sia per le minori opportunità che vengono loro offerte.
Secondo Britni de la Cretaz, giornalista freelance che si occupa di sport, genere e cultura, definire la presenza delle donne transgender nelle categorie sportive femminili come una minaccia è però piuttosto ironico, specialmente quando si mettono in atto controlli e approcci invasivi come i sex testing che vanno a discapito di tutte le donne. “C’è molta disinformazione che fa pensare che le donne transgender domineranno negli sport, ma questo non sta accadendo”, continua de la Cretaz, spiegando che il Comitato Olimpico ha dato la possibilità a persone trans di competere ai giochi olimpici fin dal 2003 (seppure con regole molto stringenti) ma è nel 2021 che abbiamo visto gareggiare per la prima volta una donna transgender. Proprio la vittoria di Laurel Hubbard, la prima atleta trans a competere alle Olimpiadi di Tokyo lo scorso anno, aveva scatenato numerose polemiche, e questo fa emergere un altro aspetto: ci preoccupiamo delle donne transgender solo quando vincono.
La stessa opposizione non vale, ad esempio, per gli uomini trans che hanno successo, come mette in evidenza anche Chris Mosier, atleta americano transgender che ha più volte partecipato e vinto nella categoria maschile di atletica leggera e che dice di non aver mai subito lo stesso accanimento riservato alle sue colleghe transgender, ma non si parla mai neanche delle atlete trans che non vincono.
L’esclusione delle ragazze transgender dalle competizioni scolastiche
Nel frattempo, al nuovo regolamento pubblicato dal Comitato Olimpico nel 2021 hanno già risposto alcune federazioni sportive internazionali, come la FINA, federazione degli sport acquatici, che a giugno ha reso noto che saranno ammesse alle gare solo le donne transgender che hanno iniziato la transizione prima dei dodici anni di età o coloro che, essendo insensibili agli ormoni androgeni, non hanno attraversato la pubertà maschile. L’International Rugby League, federazione internazionale di Rugby a 13, invece ha dichiarato che, fino a quando non ci saranno ulteriori ricerche, le giocatrici transgender non potranno fare parte delle squadre femminili.
Cleo Madeleine, addetta alla comunicazione dell’organizzazione britannica Gendered Intelligence, spiega a Valigia Blu: “Le federazioni sportive subiscono pressioni sia dalle organizzazioni trans-escludenti sia dal governo per escludere del tutto le persone transgender”, e che non solo questo fomenta ulteriori attacchi nei confronti delle persone transgender, ma ha anche delle ricadute sullo sport amatoriale.
Non è infatti soltanto nelle competizioni a livello professionistico che il corpo delle persone e soprattutto delle donne trans è stato messo al centro del dibattito politico: basti pensare che tra il 2021 e il 2022, decine di Stati americani hanno introdotto delle leggi che vietano alle persone transgender di partecipare a competizioni sportive scolastiche o universitarie sulla base della loro identità di genere. La motivazione ufficiale è, di nuovo, la necessità di tutelare lo sport e le categorie femminili.
Per comprendere meglio queste scelte, Associated Press ha contattato diversi legislatori e gruppi conservatori che hanno sostenuto queste nuove leggi, chiedendo loro di illustrare la situazione attuale attraverso numeri ed esempi di studentesse transgender che avessero vinto e, a loro dire, dunque rubato la vittoria a scapito delle loro avversarie cis. La stragrande maggioranza non è stata però in grado di nominare sportive transgender che avessero preso parte a competizioni nelle loro regioni o Stati e che avessero costituito per loro un problema.
In Texas, già nel 2016 la University Interscholastic League, che regola le competizioni sportive nelle scuole superiori, aveva imposto che studenti e studentesse gareggiassero in base al sesso stabilito dal loro certificato di nascita. Questo però ha creato un vero e proprio cortocircuito, quando Mack Beggs, ragazzo transgender, ha dovuto partecipare alle competizioni di wrestling femminile sulla base del suo certificato di nascita e ha vinto 89 gare e due campionati nazionali. Nonostante ciò, a gennaio 2022 il Governatore del Texas ha approvato una legge simile.
Associated Press ha spiegato che non si sa di preciso quanti siano gli atleti e le atlete transgender che hanno preso parte a competizioni scolastiche o universitarie negli Stati Uniti, perché non ci sono enti che raccolgono ufficialmente questo tipo di dati. Alcuni Stati lo fanno e i numeri sono molto piccoli: in Kansas ci sono cinque studenti, in Ohio negli ultimi cinque anni ce ne sono stati nove. In tanti altri casi, dunque, appare più come una scelta politica che finisce però per danneggiare bambini e bambine, favorendo il bullismo e incidendo sulla loro salute mentale.
Salute mentale
Mentre si parla tanto di presunti vantaggi e vittorie rubate, si parla pochissmo proprio della pressione sociale e degli effetti che questo tipo di dibattiti hanno sulla salute mentale di atleti e atlete transgender e persone non binarie.
Rach McBride, triatleta non binary, a questo proposito ha spiegato che, quando partecipa a una competizione, sente che non solo deve concentrarsi per fare una buona performance, ma deve anche tenere in considerazione la possibilità di subire eventuali attacchi transfobici: “È come se mi dovessi presentare alla linea di partenza con una dose extra di energia”.
La tossicità di certi ambienti è ciò che poi spesso allontana le persone transgender dall’attività sportiva: se ad esempio è proprio nello sport che molti ragazzi e ragazze trans hanno trovato benefici per il proprio benessere psicofisico, è l’odio che spesso hanno ricevuto in questi contesti a spingerli a ritirarsi. Secondo un report pubblicato da Outsport, progetto cofinanziato dalla Commissione Europea, il 54% delle persone transgender intervistate si è sentito escluso o ha smesso di praticare sport per la sua identità di genere. Più di un terzo delle persone non cisgenere intervistate ha avuto almeno un’esperienza negativa in ambito sportivo nei 12 mesi precedenti l’intervista e il 46% di queste sono donne transgender.
“Ci focalizziamo su come le persone cisgenere si sentono riguardo le donne trans che prendono parte a competizioni sportive”, ha detto Britni de la Cretaz, “ma non ci preoccupiamo di come stanno le donne transgender che vengono escluse dalle gare e che non possono godere delle stesse opportunità”.
Come dimostrano le decisioni prese da alcune federazioni nazionali e internazionali, alle ragazze e alle donne transgender che vengono escluse dalle competizioni sportive non sono infatti date alternative. Trincerandosi dietro la motivazione per cui non esistono abbastanza studi che assicurino l’equità delle competizioni, molte organizzazioni sportive preferiscono assecondare la pressione politica e di una parte della società. In questo modo, però, si evita di adempiere a quello che anche l’organizzazione sui diritti umani Human Rights Watch ha definito come un dovere intrinseco, ovvero tutelare i diritti di atleti e atlete.
Inoltre, se è vero che vi è ancora una grossa lacuna in termini di dati e che sono le stesse atlete transgender a chiedere alla scienza maggiori ricerche, è anche vero che, come si è visto, esistono degli studi che smentiscono o quantomeno mettono in discussione l’esclusione a priori delle persone trans e non binarie dalle competizioni. Mentre c’è intanto chi si chiede se sia arrivato il momento per il mondo dello sport di ripensare alla sua definizione e alle sue classificazioni – da sempre incapaci di racchiudere la complessità dell’essere umano ma che oggi dimostrano ancora di più tutta la loro limitatezza – è ancora più urgente comprendere cosa si celi dietro certe scelte politiche e istituzionali e quali siano le conseguenze.
Come ha spiegato Cleo Madeleine a Valigia Blu, infatti “le persone transgender – e le donne transgender in particolare - sono costantemente presentate come una minaccia, cosa che influenza negativamente la percezione pubblica e porta a maggiore discriminazione e odio”.
Questo risulta evidente soprattutto in ambito sportivo, dove si è creato un vero e proprio dibattito artificioso costruito ad arte dalla politica, dai gruppi trans-escludenti e anche da quegli stessi media che, invece di fornire dati e strumenti, chiedono all’opinione pubblica di prendere posizione favorendo così la polarizzazione. Definita spesso come “disumanizzante” e “dannosa” da più parti, questa narrazione perpetua lo stigma e continua a emarginare e lasciare fuori le voci delle persone transgender. Infine, secondo Madeleine “Sottoporre i corpi trans a un dibattito e a un esame così intensi porta ad attaccare chiunque non si conformi a una concezione limitata del proprio genere”, come dimostrano casi come quelli di Caster Semenya e Dutee Chand.
Immagine in anteprima: Laurel Hubbard, la prima donna transgender a gareggiare alle Olimpiadi – Frame video CBC News via YouTube