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La narrazione sulle persone minorenni transgender e non binarie: riparare i discorsi di odio

2 Giugno 2021 7 min lettura

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La narrazione sulle persone minorenni transgender e non binarie: riparare i discorsi di odio

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di Ethan Bonali

L’attualità della discussione del Ddl Zan in Italia ha portato all’attenzione del grande pubblico la realtà delle persone transgender e gender variant, tramite una retorica contraddistinta da discorsi di odio non facilmente riconoscibili per la mancanza di una cultura di genere.

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Le persone transgender si sono viste oggetto del discorso, senza poter partecipare al dibattito. Si sono viste mettere in discussione le proprie vite, la propria autenticità, la propria legittimità ad appartenere allo spazio pubblico e a pretendere tutele. Si sono viste patologizzate, definite “predatori sessuali”, “uomini che rubano diritti alle donne biologiche” e “ragazze traumatizzate” e “mutilate” senza possibilità di replica. Hanno visto ripetere pregiudizi e stereotipi su qualunque mezzo di comunicazione.

 

Tali argomentazioni hanno distolto l’attenzione dai reali contenuti del disegno di legge in discussione al senato ed hanno permesso di osservare la progressiva radicalizzazione, in senso contrario all’allargamento di diritti, di figure pubbliche fino a quel momento sostenitrici o quantomeno neutrali rispetto ai diritti lgbt.

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Un fenomeno sociale simile si è osservato nel 2010 nel Regno Unito, in occasione della discussione dell’Equality Act ed è stato oggetto dell’intervento della giornalista Jane Fae al Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia del 2018. Come in Gran Bretagna, nel nostro paese il dibattito è stato generalizzato ai temi più sensibili dell’opinione pubblica, quali la violenza nelle carceri, la cancellazione del sesso e la salute nell’infanzia e adolescenza gender variant, scatenando confusione e panico sociale.

Repubblica - D esce infatti il 15 maggio con un dossier intitolato “Viaggio ai confini del gender”, dedicato ai minorenni transgender, puntando l’attenzione sulle “ragazze” che intraprendono un percorso di affermazione verso un’espressione maschile. Le parole utilizzate, quali “contagio” ed “epidemia di transizioni”, sono fortemente connotate da significati patologizzanti, la lettura è contrassegnata da un ritmo ansiogeno e le informazioni confuse.

In un commento su Facebook al dossier, la Dott.ssa Francesca Fadda, tra le professioniste che hanno portato avanti recentemente la formazione sulla consulenza e psicoterapia con le persone LGBTQIAP+ all’Ordine degli Psicologi e delle Psicologhe della Sardegna scrive: “Un testo molto pericoloso per chi fa ricerca e lavora con genitori e adolescenti nel percorso di affermazione della propria identità di genere. Parlare di epidemia e fare riferimento a studi che associano la disforia di genere all’anoressia, veicola false informazioni riferendosi a studi invalidati scientificamente, crea allarmismo e panico gratuito, alimentando lo stress e la paura di chi ogni giorno vive il proprio cammino di autodeterminazione. Leggiamo con pensiero critico e verifichiamo le fonti prima di farci influenzare da queste notizie. La psicologia è una scienza. Il rispetto è una pratica di umanità che può essere appresa”.

In effetti, nel tentativo di consolidare la propria tesi, la giornalista che ha curato il dossier cita uno studio di Lisa Littman basato sul concetto di diagnosi precoce di disforia di genere “Rapid Onset Gender Dysphoria” (ROGD) riferibile alle terapie riparative, pubblicato senza revisione nel 2018, e pesantantemente criticato da parte della comunità scientifica. In un comunicato il WPATH definisce il termine ROGD niente più che un acronimo. La tesi di fondo dello studio ipotizza una forma di contagio sociale che porterebbe le “giovani ragazze “a “credere di essere disforiche”, rintracciando le cause di tale contagio nella misoginia interiorizzata, nell’essere lesbiche represse, nell’aver subito traumi o abusi, o, ancora, individuando antecedenti eziopatogenetici in malattie mentali, disturbi alimentari, autismo o ansia sociale.

Quelle che vengono riportate come cause sono in realtà le conseguenze del minority stress, ossia quel fenomeno in cui concorrono fattori come lo stigma, il pregiudizio e la discriminazione che a loro volta determinano un ambiente sociale ostile e stressante predisponente a problemi di salute mentale, considerato dalla letteratura scientifica internazionale, fattore unico, causale e di natura sociale del disagio psicologico e sociale vissuto dalle minoranze di genere e sessuali (Meyer e Frost 2013). Si sono scambiate quindi le conseguenze per le cause. È tipico dell’approccio riparativo/correttivo, che parte dall’assunto che essere gender variant sia una patologia che deve essere corretta, ricercare la “causa della transessualità” riducendo la complessità del processo di costruzione delle identità a mero sintomo secondo una logica lineare causa-effetto impossibile da verificare.

La scelta di Repubblica - D di riaprire la questione sulla validità delle terapie riparative non sembra casuale, poiché si innesta in un dibattito internazionale in cui numerosi Stati, come Gran Bretagna e Canada, stanno approvando il bando legale delle stesse e, sorprendentemente, alcune associazioni femministe per la difesa dei diritti delle donne basato sul sesso hanno presentato dossier contrari alle proposte di legge.

La stessa situazione si è ripetuta in Australia in occasione di riforme di tutela nei confronti delle persone transgender e in Italia si è formata una sezione del Women’s Human Rights Campaign (WHRC) tra le cui fondatrici è presente Sheila Jeffreys, femminista radicale ad oggi nota per le sue posizioni apertamente ostili verso le persone transgender.

Tornando al dossier di Repubblica – D cerchiamo di capire qualcosa di più sulle terapie riparative e di comprendere il pensiero della comunità scientifica.

Nel maggio del 2010 la WPATH (World Professional Association for Transgender Health) prende una chiara posizione, presto seguita anche da APA (American Psychological Association), a favore della de-psicopatologizzazione della varianza di genere, definendola come una espressione del genere, riguardante l’identità, non stereotipicamente associata al sesso di nascita alla quale non deve essere associata una connotazione negativa o una patologia.

Fino a quel momento il modello più diffuso era stato quello delle terapie correttive o riparative, il quale prevedeva di aiutare bambini/e ad accettare il sesso assegnato loro alla nascita, orientando il loro comportamento in quella direzione. Ad oggi la comunità scientifica considera non etico qualunque intervento rivolto a forzare l’identità di genere o l’espressione di genere a conformarsi con il genere assegnato alla nascita, nonché qualsiasi intervento volto alla prevenzione della disforia di genere/incongruenza di genere o allo sviluppo dell’identità di genere. Le terapie riparative si sono infatti rivelate inutili e dannose. Un report del 2020 sui loro effetti commissionato dal Consiglio per i diritti umani delle Nazione Unite, tratta, al punto 57, la particolare vulnerabilità di bambini/e transgender all’esposizione di tali terapie e i danni significativi, in termini di salute mentale, autostima, ansia, depressione, disturbi alimentari, trauma, PTSD etc., riportati dai minorenni (anche sotto i 10 anni).

Tale modello, basato sul pregiudizio che la varianza di genere sia una condizione negativa, rinforza infatti lo stigma sulle persone transgender e tale stigma può portare a pregiudizio e discriminazione e indurre quello che viene definito “minority stress”. Non solo, oltre al pregiudizio ed alla discriminazione sociale nel senso più generale del termine, lo stigma può contribuire ad abusi e negligenze nelle relazioni con i propri simili e con i propri familiari, che a loro volta possono vivere un disagio psicologico. Tuttavia, questi sintomi sono portati da un contesto sociale discriminante e non sono strettamente legati all’essere transessuali, transgender o di genere non-conforme.

In Italia ricorrere alle terapie riparative è considerata una violazione del codice deontologico da parte dell’Ordine degli psicologi ai sensi degli articoli 3, 4 e 5 di tale codice. Lo/a psicologo/a è infatti tenuto/a a promuovere il benessere psicologico della persona, a non imporre il proprio sistema di valori e non operare discriminazioni ed è tenuto/a a mantenere un livello di aggiornamento adeguato al settore in cui opera.

Nel modello affermativo, ad oggi il più avvalorato dalla comunità scientifica (WPATH e APA), la salute di genere è vista come la capacità del bambino di esprimere il proprio genere senza incontrare restrizioni, critiche ed ostracismo.

“Il genere si presenta in un’infinita varietà di forme, dimensioni e tonalità, piuttosto che avere due taglie che si adattano o al bambino o alla bambina, e che fin troppo spesso non calzano bene a nessuno dei due. Il genere è una costruzione tridimensionale che impegna ogni bambino/a nella tessitura del proprio intreccio attraverso tre fili – natura, educazione e cultura – per arrivare a trovare quel genere che corrisponde al loro “io”. Non ci sono due bambini/e che abbiano un identico intreccio di genere e lo stesso vale per l’intreccio di ogni adulto”. Così Diane Ehrensaft – psicologa, direttrice del CAGC (Child and Adolescent Gender Center) e co-autrice della pubblicazione “The gender affirmative model” per APA (American Psycholgical Association) – introduce nel suo libro “il bambino gender creative”, un’idea di genere complessa che solo l’aderenza alla realtà può fornire, restituendo al soggetto bambino la dignità delle proprie consapevolezze e la delicatezza di sguardo che merita.

Continua sempre Ehrensaft nel suo libro: “Se i nostri genitori ci tolgono di mano quel filo che stiamo intessendo e ci dicono quale dovrebbe essere il nostro genere invece di ascoltarci mentre spieghiamo quale in effetti è o di guardarci mentre svolgiamo il nostro lavoro creativo, corriamo il rischio di finire intrappolati in un groviglio di fili annodati invece di ottenere uno splendido intreccio che risplende e scintilla”. Nell’approccio affermativo i genitori non scompaiono, ma anzi, diventano osservatori ed accompagnatori in quello che è il compito genitoriale: lasciare che la persona si esplori, si autodetermini in un ambiente sicuro, per poi essere una persona adulta felice domani.

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Immagine anteprima Daydreamerboy  via Wikimedia Commons sotto licenza CC BY-SA 4.0

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