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Il diritto di essere transgender

16 Dicembre 2020 19 min lettura

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Il diritto di essere transgender

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di Claudia Torrisi e Andrea Zitelli

“Ciao amici, voglio condividere con voi che sono trans. Mi sento fortunato a poterlo scrivere. A essere qui. A essere arrivato a questo punto della mia vita”. L’attore Elliot Page ha dichiarato di essere una persona transgender e non binaria e di utilizzare pronomi maschili (he, o il neutro they). 

 

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Nel post pubblicato sui propri account social, Page ha scritto di provare una gioia “vera ma anche fragile”: “La verità è che, nonostante mi senta profondamente felice in questo momento e sappia quanti privilegi ho, ho anche paura. Ho paura dell’invadenza, dell’odio, delle ‘battute’ e della violenza”. L’attore ha poi parlato delle discriminazioni e delle violenze subite dalle persone transgender, citando i dati relativi agli USA. “Vi vedo, vi amo e farò tutto il possibile per cambiare questo mondo in meglio”.

Secondo molti, il coming out di Page è stato molto importante per le persone trans e non binarie. La giornalista transgender Elly Belle ha scritto su Refinery29 che ha avuto un impatto fondamentale in termini di rappresentazione, una cosa che è molto carente a livello mainstream quando si parla di persone trans: “La rappresentazione è un passo importante per far sapere alle persone trans che non siamo sole. Non è una piccola cosa in una società piena di gente che vorrebbe negare la nostra stessa realtà, che insiste nel dire che ci inventiamo la nostra identità”.

Una persona trans è una persona la cui identità di genere non coincide con il sesso attribuito alla nascita. Per capire di cosa stiamo parlando bisogna intendersi sui termini. Con la parola “sesso” ci si riferisce alla sfera anatomica e fisica di una persona, mentre il “genere” è più una dimensione psicologica e culturale che si riferisce alle caratteristiche definite socialmente che distinguono il maschile dal femminile: norme, ruoli e relazioni tra individui definiti come maschi e femmine. L’identità di genere, dunque, è l’esperienza individuale del proprio genere, come donna, uomo o persona non binaria, che può o meno corrispondere al sesso assegnato alla nascita.

Quando si parla di persone transgender, si pensa solitamente a due possibilità: donne trans, il cui sesso assegnato alla nascita era il maschile, e uomini trans, a cui viceversa era stato attribuito il sesso femminile. In senso stretto, anzi, “transgender” dovrebbe indicare le persone che si identificano con il genere opposto al loro sesso ma che non vogliono sottoporsi all’operazione chirurgica per la riassegnazione, mentre “transessuale” quelle che vogliono modificare anche i propri genitali.

“Transgender” però può essere un termine ombrello. Come scrive Katelyn Burns su Vox, questa parola descrive “un insieme eterogeneo di comunità di persone il cui genere non corrisponde al sesso assegnato”, comprese quelle che non iniziano un percorso di transizione da un punto di vista chirurgico-farmacologico e quelle che non credono che il loro genere possa essere categorizzato. Questo insieme include “le persone non binarie che non aderiscono alle nozioni binarie di genere”, cioè uomo o donna.

L’attivista trans-femminista, scrittrice e biologa Julia Serano ha spiegato che «le persone hanno più familiarità con la canonica persona trans che ha passato parte della sua vita sapendo di essere una ragazza o un ragazzo» prima di iniziare una transizione. «Molte persone potrebbero non identificarsi con il sesso assegnato alla nascita, ma potrebbero non sapere con certezza se rientrano nel cosiddetto altro genere. Di conseguenza, molti di noi che sono trans pongono molte domande sul genere, sulla società e su come classifichiamo le persone».

Secondo Lorenzo Bernini, direttore del Centro di ricerca PoliTeSse dell’Università di Verona, quella delle soggettività transgender è un’ampia galassia, «che si è arricchita di soggettività gender fluidgender questioningagender, in cui il binarismo sessuale viene messo in discussione in modi differenti».

Anche il percorso di transizione è meno netto rispetto all’immaginario collettivo. Ad esempio, l’intervento chirurgico di conferma di genere può anche non farne parte, e non ne è necessariamente l’esito finale. Alcune persone transgender decidono di operarsi solo a un certo punto del percorso, altre mai, per un’infinità di ragioni. 

«La fissazione per la transizione e la chirurgia oggettifica le persone trans», ha detto l’attrice trans Laverne Cox nel documentario Disclosure, sulla rappresentazione cinematografica delle persone transgender. Il film mostra come sia stato costruito l’immaginario della “donna con il pene”: minaccia sessuale oppure oggetto di scherno. Come sempre la rappresentazione ha ricadute sulla realtà: un sondaggio di YouGov sull’atteggiamento dei britannici verso le persone trans ha mostrato una grossa differenza tra il supporto alle donne trans operate rispetto a quello per quelle che avevano mantenuto i genitali maschili. Le questioni più controverse riguardo queste ultime comprendevano l’uso di spogliatoi e accesso ai bagni femminili.

Esistono poi le persone trans non medicalizzate, cioè che non ricorrono alla chirurgia o alla terapia ormonale. Si tratta, come ha spiegato l’attivista trans non medicalizzato Nathan Bonni, autore del blog Progetto Genderqueer 2.0, di un percorso “poco rappresentato” che “riguarda tante persone che sono costrette ad affrontare la vita quotidiana, dal mondo del lavoro alle questioni sanitarie, prive di un riconoscimento legale della propria identità di genere”.

Una questione che attiene all’esperienza delle persone trans riguarda l’uso dei pronomi. Nella sua lettera, Elliot Page specifica che il pronome da utilizzare da questo momento per riferirsi alla sua persona è he (maschile) o they (neutro). Le persone trans scelgono il pronome che le rappresenta, e solitamente lo esplicitano. Quando non è così, basta chiedere. Quello che è importante è non utilizzare pronomi, articoli o desinenze sbagliate di proposito: si chiama misgendering ed è profondamente irrispettoso – oltre che dannoso – per le persone transgender, perché è sostanzialmente una negazione della loro identità.

Un discorso analogo vale per il nome. Chiamare le persone trans con il nome che ormai hanno abbandonato (deadnaming) è una forma di violenza, ha scritto qualche tempo fa la giornalista Sam Riedel: “Per noi persone trans, la relazione con i nostri nomi è quantomeno complicata. Il modo in cui veniamo chiamati ha un potere, e sentire un nome palesemente maschile o femminile quando stai cercando di riallineare il tuo genere in una direzione diversa può essere una fonte di profonda ansia. Ascoltare o vedere il proprio vecchio nome può indurre un senso di terrore viscerale perché non importa quanti progressi si fanno nella transizione, la persona che erano (o fingevano di essere) è ancora lì”.

Similarmente, il filosofo e scrittore spagnolo Paul B. Preciado ha spiegato che “l’intensità del dolore che si prova quando ci si confronta con il fatto che una persona decida di usare per voi l’altro pronome, oppure rifiuti di chiamarvi con il solo nome che è ormai è il vostro, è direttamente proporzionale alla forza con la quale questo piccolo gesto reitera una catena storica di violenze e di esclusioni”.

Discriminazioni, violenze e le difficoltà nel riconoscimento dell’identità di genere

Molte delle persone transgender subiscono nella propria quotidianità diverse forme di discriminazione, molestie, abusi e violenze. Una serie di atti che si manifestano in vario modo e in diversi momenti e aspetti della vita – nella quotidianità, nel mercato del lavoro, nell’accesso ai servizi sanitari e sociali, nelle scuole e nelle università –, che impedisce la piena ed equa partecipazione sociale ed economica delle persone transgender e nega il rispetto dei loro diritti. È quanto emerge dal rapporto “Legal gender recognition in the EU. The journeys of trans people towards full equality” redatto dalla Commissione europea, pubblicato la scorsa estate e basato, oltre che su studi, anche sulle esperienze di oltre mille persone transgender che vivono nei 27 Stati membri dell'Unione Europea e nel Regno Unito. Uno studio che nasce come impegno delle autorità europee per approfondire e promuovere iniziative politiche contro la discriminazione e l’odio nei confronti della comunità LGBTI. 

Nel rapporto si legge che il coming out e la transizione delle persone transgender verso il nuovo ruolo di genere possono variare a seconda dell’età, dell’identità di genere, della propria famiglia, dei sistemi legali e della realtà sociale in cui si vive. Secondo un sondaggio del 2019 dell’Agenzia dell'Unione Europea per i diritti fondamentali (Agency for Fundamental Rights, FRA) la maggior parte delle persone transgender si rende conto della propria identità di genere prima di aver compiuto 18 anni. Per diverse persone transgender questo momento è accompagnato da sentimenti di frustrazione o di fallimento per il mancato rispetto delle aspettative della società riguardo al genere assegnato e per lo scontro con svariati stereotipi. 

Alcuni intervistati nel rapporto della Commissione Europea hanno detto di aver represso i propri sentimenti sulla loro identità di genere e ritardato il coming out per anni per paura del rifiuto familiare o di perdere il lavoro. Inoltre, molte persone transgender non si sentono in grado di comunicare agli altri la propria identità di genere in diversi contesti, come ad esempio in quello scolastico, per paure di bullismo, molestie e violenza.

Proprio riguardo al sistema scolastico, nessuno degli oltre mille intervistati nel rapporto ha fatto riferimento all’esistenza di informazioni fornite all’interno delle scuole sulle identità transgender che potrebbero essere utili quando un individuo prende coscienza della propria identità di genere. Ciò, denuncia la Commissione Europea, riflette una mancanza di politiche educative inclusive relative alle identità trans nella maggior parte degli Stati membri dell'UE.

Problematiche si riscontrano anche nel contesto lavorativo con diversi fattori che influenzano negativamente la posizione delle persone transgender nel mercato del lavoro. Tra i principali ci sono la discriminazione o l’avere anche documenti che non corrispondono alla propria identità di genere.

Il rapporto della Commissione Europea afferma che i dati statistici a oggi disponibili suggeriscono che le persone transgender hanno tassi di occupazione inferiori, livelli di inattività economica più elevati e tassi di disoccupazione più alti rispetto alla popolazione generale. Una situazione che si riscontra non solo nell’Unione Europea ma anche negli Stati Uniti d’America. Inoltre, comunicare la propria identità di genere all’interno della realtà in cui si lavora può comportare rischi per le persone transgender con i casi più negativi che si contraddistinguono con l'avere meno opportunità di fare carriera, essere licenziate e subire molestie.

In generale, il rapporto “Essere trans nell’UE” della FRA mostra come all’interno della comunità LGBTQ+ le persone trans abbiano maggiori possibilità di incorrere in discriminazioni, molestie o violenza. Il report, pubblicato nel 2014, dice che il 54% degli intervistati trans ha detto di essersi sentito molestato o discriminato perché percepito come transgender, contro il 47% del resto della comunità LGBTQ+. 

Secondo il progetto Trans Murder Monitoring dell’organizzazione no-profit Transgender Europe, solo nell’ultimo anno, dall’ottobre del 2019 a quello del 2020, a livello globale 350 persone transgender sono state uccise, il 6% in più rispetto alla rilevazione precedente. L’Italia è il paese che in Europa ha registrato il maggior numero di omicidi di persone trans, 42, superato solamente dalla Turchia con 54.

Un quadro preoccupante in cui si inserisce anche il fatto che l'identità di genere degli individui trans non si riflette sempre nei loro documenti. Le persone transgender per ottenere un documento con la propria identità di genere e un nuovo nome devono infatti portare a termine il procedimento del riconoscimento giuridico del proprio cambiamento di genere (Legal Gender Recognition, LGR). Questi riconoscimenti si differenziano da paese a paese e in diversi casi presentano delle procedure – burocratiche e/o mediche – che rendono estremamente difficoltoso per le persone trans portarli a termine. 

Ad esempio, in Bulgaria, in Lituania, in Lettonia, in Romania e in Italia coloro che vogliono ottenere il riconoscimento della propria identità di genere nei documenti devono ottenere il via libera basato sulla decisione di un giudice. In Ungheria, invece, lo scorso maggio è stata approvata una legge che impedisce di cambiare l’indicazione di genere all’anagrafe, negando in questo modo il riconoscimento legale delle persone transgender e intersessuali. Si tratta di una norma che ha ricevuto dure critiche sia a livello nazionale che internazionale.

In altri paesi, invece, come Belgio, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Portogallo le procedure di Legal Gender Recognition si basano sull'autodeterminazione e sul rispetto dei principi di Yogyakarta per l'applicazione delle leggi internazionali sui diritti umani in relazione all'orientamento sessuale e identità di genere.

Nel complesso le procedure di riconoscimento giuridico del proprio cambiamento di genere si differenziano paese per paese e sono previsti differenti requisiti legali, che in alcuni casi, denuncia la Commissione Europea, sono palesi ostacoli che risultano anche essere in violazione della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU) e delle norme vincolanti sui diritti umani, come l’essere divorziati o essersi sottoposti a un processo di sterilizzazione. Diversi Stati richiedono anche requisiti medici come parte del processo LGR, comprese diagnosi di disforia di genere, trattamenti ormonali e chirurgia. In alcuni casi, inoltre, è stata denunciata una mancanza di competenza tra gli stessi operatori sanitari per quanto riguarda le esigenze di salute delle persone trans durante queste procedure stabilite per legge con conseguenti impatti psicologici dannosi.

Nella maggior parte dei paesi, la LGR è esclusa ai minori di 18 anni. In alcuni Stati, come l’Italia, è previsto anche che le persone transgender che vogliono iniziare questa procedura debbano vivere la cosiddetta “esperienza di vita reale” (Real life experience, RLE), cioè un periodo in cui la persona vive a tempo pieno con la propria identità di genere senza documenti che lo attestano, con, in alcuni casi, conseguenti difficoltà nell’affrontare questo periodo senza un’identità ufficiale. Questo porta, ad esempio, a numerose situazioni in cui la persona trans si trova costretta a rivelare la propria situazione. Ad esempio all’università o al seggio elettorale

In generale, spiega la Commissione Europea, i paesi in cui i requisiti per portare a termine la Legal Gender Recognition sono meno accessibili si basano su un approccio più paternalistico o patologizzante, con lo Stato (attraverso tribunali o altri organi) o i medici che valutano il genere di una persona. Quadri giuridici che “riflettono un approccio secondo cui le persone transgender sono viste come bisognose di ‘test’ sul loro impegno per la propria identità di genere”.

Un altro aspetto che presenta diverse problematiche è il costo che le persone devono sostenere per queste procedure. Le spese maggiori, si legge nel rapporto, si riscontrano in quelle procedure che hanno un numero maggiore di requisiti da soddisfare, con una spesa mediana che supera di poco gli 800 euro. Molte delle persone intervistate nel rapporto hanno inoltre spiegato che il tempo necessario per completare il cambio legale dell'indicatore di genere era troppo lungo e che questo aveva impatti negativi sul proprio benessere, con conseguente stress e in alcuni casi anche depressione. «Non si rendono conto che il fatto di dover spiegare un viaggio dalla A alla Z può essere molto doloroso per la persona», ha affermato una delle persone intervistate.

Secondo Transgender Europe (TGEU), organizzazione non governativa che si batte per i diritti delle persone transessuali e transgender e contro la discriminazione e la transfobia, in 41 paesi su 54 tra Europa e Asia centrale esiste la possibilità per le persone transgender di cambiare la propria identità di genere. In 31 di questi paesi viene richiesta una diagnosi di salute mentale prima del cambio dei documenti di identità.

Trans Rights Europe & Central Asia Index & Maps 2020, via TGEU

L’ONG ricorda che il Consiglio d'Europa e le Nazioni Unite “hanno stabilito che una diagnosi obbligatoria di salute mentale, o un'opinione medica, giudiziaria o di qualsiasi altra parte di terzi, viola la dignità delle persone trans e il loro diritto all'autodeterminazione della loro identità di genere”. Questo perché “il requisito della diagnosi contribuisce allo stigma, all'esclusione e alla discriminazione e si basa sulla falsa nozione che essere trans sia un disturbo psichiatrico”. 

Sempre nella revisione di TGEU si vede che negli oltre quaranta paesi dove la procedura è possibile, in 13 di questi viene richiesto  alle persone transgender una sterilizzazione obbligatoria prima di cambiare la propria identità di genere.

Trans Rights Europe & Central Asia Index & Maps 2020, via TGEU

Anche in questo caso le Nazioni Unite sono intervenute riconoscendo questo obbligo come una forma di tortura, un trattamento crudele, inumano o degradante: “Il Consiglio d'Europa – spiega ancora l’ONG – ha stabilito che gli Stati membri devono abolire questo requisito. Nel 2017, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha deciso che la sterilizzazione coatta viola il diritto delle persone trans alla vita privata e familiare”.

Riuscire a portare a termine il Legal Gender Recognition può comportare il superamento dei problemi legati a documenti che non corrispondono al proprio genere e far acquisire un maggiore senso di sicurezza e protezione nella vita di tutti i giorni. 

In Italia la legge che regola la transizione di genere è la numero 164 del 1982 e si intitola “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”. Si tratta di una legge – approvata dopo proteste e mobilitazioni da parte di associazioni e movimenti italiani di persone transgender e formata da 7 articoli – che prevede che la domanda debba essere proposta con un ricorso al tribunale del luogo dove si ha la residenza. Quando è ritenuto "necessario", un giudice dispone poi "con ordinanza l'acquisizione di consulenza intesa ad accertare le condizioni psico-sessuali dell'interessato”. Secondo Christian Leonardo Cristalli, cofondatore dell’associazione Gruppo Trans di Bologna intervistato da Osservatorio Diritti, si tratta di una legge «obsoleta e ambigua». Ad esempio, afferma Cristalli, non è ben chiaro cosa si intenda con “quando necessario”, lasciando il tutto all’interpretazione dei giudici. 

In base all’articolo 3, ad esempio, “il tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza”. Questa legge è stata successivamente integrata con l'articolo 31 del decreto legislativo n.150 del 2011. L'articolo 3 citato sopra è stato modificato in questo modo "Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato". Ma questa norma, sia nella versione vecchia che in quella attuale, è stata interpretata nel tempo in modo che per ottenere un riconoscimento dell’identità genere fosse necessaria l’operazione chirurgica. Nel 2015, però, la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione, tramite due pronunciamenti, hanno stabilito che, al contrario dell’interpretazione prevalente, non fosse necessario l’intervento chirurgico per vedere riconoscere ufficialmente il cambio del proprio genere. 

Christian Ballarin, responsabile di Spot, sportello trans dell’associazione Maurice di Torino, ha raccontato alla giornalista Giulia Siviero di aver fatto ricorso al tribunale per il riconoscimento della propria transizione da donna a uomo all’inizio del 2000, prima cioè delle sentenze della Cassazione. «All’epoca era necessario presentare due ricorsi: uno per l’autorizzazione all’intervento e uno, a intervento effettuato, per i nuovi documenti. Le sentenze del 2015 sono state molto positive, perché prima non c’era possibilità di scegliere: se volevi i documenti dovevi operarti, anche se non lo volevi fare. Così fecero molte persone che non volevano essere costrette a una continua violazione della privacy e che non volevano essere sottoposte al costante disagio che deriva dal contrasto tra identità di genere vissuta e identità scritta sui documenti. Ma è stata una violenza indicibile, da parte dello Stato. E comunque, per il cambio dei documenti, continua ad essere necessario passare da un tribunale e portare delle perizie che, a partire da una diagnosi, attestino che quella che hai scelto è la cosa migliore per te». Anche queste diagnosi psicologiche, continua la giornalista, sono percepite come una sorta di forzatura: “Le persone trans che intendono accedere alle cure non possono scegliere se andare dallo psicologo: devono farlo, perché è solo grazie al rilascio di relazioni diagnostiche che attestino la Disforia di Genere che possono proseguire la transizione”. 

Il Protocollo Onig (Osservatorio nazionale identità di genere) applicato in Italia si compone di 4-6 mesi di percorso psicologico, durante il quale viene riconosciuta la "Disforia di genere" e viene dato il nulla osta per la terapia ormonale. Seguono poi 8-12 mesi di real life test. A quel punto vengono fatte la relazione diagnostica e la perizia endocrinologica da presentare in tribunale. I tempi in questo caso non sono definiti, anche perché, come detto, il giudice può richiedere una consulenza tecnica. Anche la riconversione chirurgica del sesso, qualora la persona lo richieda, viene concessa con una sentenza. 

Per una depatologizzazione dell’essere transgender

Diversi movimenti e associazioni chiedono da anni di compiere ulteriori passi verso una depatologizzazione dell’essere trans. In questo senso nel 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha preso una decisione rilevante, rimuovendo l’"incongruenza di genere" dal capitolo relativo ai disturbi mentali nell’ultima classificazione internazionale delle malattie, l’ICD-11, e trasferendola in quello della salute sessuale, creato appositamente. L’obiettivo di questa scelta, ha spiegato la dottoressa Lale Say, esperta di salute riproduttiva dell’OMS, è quello di «ridurre lo stigma» e «promuovere l’accettazione sociale delle persone» che convivono con l’incongruenza di genere.

Il problema però persiste a livello legislativo. Da tempo associazioni e movimenti LGBTQ+ italiani chiedono un alleggerimento dell’iter per la transizione di genere. Uno dei presupposti della legge è la necessità di una diagnosi di Disforia di genere per le persone trans, affinché possano accedere alle terapie mediche o chirurgiche o al cambio anagrafico. Questo è sicuramente un requisito ancora patologizzante, anche se secondo alcuni attivisti nel contesto italiano avere una diagnosi consente di accedere all’assistenza sanitaria gratuita.

Inoltre, entrano in gioco autorità decisionali come psicologi, medici, giudici ai quali spetta il verdetto sull’identità della persona. La rettificazione del sesso infatti viene fatta in forza di una sentenza passata in giudicato, e “quando necessario” il giudice può disporre l’acquisizione di una consulenza tecnica.

«Nonostante i passi avanti, ad oggi in Italia, le persone trans devono comunque subire un iter che prevede di presentarsi davanti ad un giudice per chiedere il permesso ad agire sul proprio corpo e a sancire l’esistenza della propria identità con il nome e l’identità utilizzata nei rapporti sociali», ha spiegato il cofondatore dell’associazione Gruppo Trans di Bologna, secondo cui sarebbe opportuna una «procedura extragiudiziale semplificata»: «Non può dipendere dal giudice che ti trovi davanti se sarai costretto o meno a vederti assegnato un Consulente Tecnico di Ufficio (CTU) che debba redigere una perizia per stabilire la tua idoneità a vivere la tua vita. Fa lievitare i costi e si sovrappone allo scrutinio psicologico e psichiatrico».

Secondo Marta Ciaccasassi, responsabile del gruppo T dell’associazione Omphalos di Perugia, il percorso di transizione non è uguale per tutte le persone: «Ogni persona trans ha esigenze specifiche e diverse: c’è chi sceglie di non assumere ormoni e anche chi non vuole accedere a un percorso medico ma vorrebbe solo la rettifica amministrativa, che in Italia non è possibile. Ma per l’attuale normativa, per i giudici e il servizio sanitario noi dobbiamo il più possibile standardizzarci a un modello preimpostato, canonico, stereotipato, che spesso ci costringe o a mentire o ad allungamenti infiniti del proprio percorso, o addirittura a veri e propri rifiuti, respinte o negazioni».

Il percorso, come osservato da Ciaccasassi, è lungo e costoso, tra perizie, sedute dallo psicologo, spese legali. «Vorremmo arrivare al punto in cui una persona possa autodeterminarsi senza passare da un percorso medico, psicologico, giuridico e senza essere continuamente sottoposti a controlli per essere sicuri che stiamo facendo la scelta giusta. Alle persone non trans non viene chiesto».

Quello che manca in Italia è inoltre una maggiore tutela contro le numerose discriminazioni vissute dalle persone transgender. Come si legge sul sito dell’Osservatorio Nazionale sull'Identità di Genere, in Italia “non esistono normative esplicitamente discriminatorie, ma nemmeno norme a tutela”. Questo si traduce in una serie di difficoltà e discriminazioni che riguardano il mondo del lavoro, quello della scuola o dell’università, le soluzioni abitative, i rapporti familiari. Senza contare le violenze e gli episodi di odio. Da questo punto di vista, un inizio sarebbe l’approvazione del disegno di legge Zan contro l’omotransfobia, che mette sullo stesso piano la discriminazione su base razziale e quella in ragione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, intervenendo sul codice penale. 

Leggi anche >> Omotransfobia, una legge contro odio e discriminazione che aspetta da 25 anni

Alle richieste di diritti delle persone transgender si oppone la propaganda conservatrice e dell’estrema destra. Gli argomenti principali parlano delle persone trans come di una lobby con il desiderio di “confondere le idee” ai bambini e alle bambine e distruggere la famiglia e i ruoli di genere. In un altro gruppo molto critico nei confronti delle istanze transgender rientrano alcune appartenenti a una certa corrente del femminismo definite TERF (Trans-exclusionary radical feminists) o anche solo “gender critical”. 

Secondo queste persone, esistono solo due sessi strettamente dipendenti da fattori anatomici – nel presupposto di una corrispondenza tra sesso e genere – e includere le donne transgender nella categoria delle donne danneggerebbe quelle che sono definite biologicamente tali. Dunque le donne trans non sono donne, mentre gli uomini trans “sono donne oppresse dal patriarcato e spinte ad assumere un corpo maschile attraverso mutilazioni del corpo”, per riportare una definizione usata dal sito Pasionaria.

«Gli attivisti contro le persone trans provano a difendere una visione del mondo secondo cui la biologia è un destino. Quando sollevano un problema per una persona con un cromosoma Y che usa i pronomi femminili, quello che davvero li disturba è quel pronome, quel nome, il vestiario. Tutto ciò non è codificato in quello che viene spesso definito il sesso biologico», ha detto a Vox Gillian Branstetter, portavoce del National Women’s Law Center.

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In Italia un esempio di chi assume queste posizioni è incarnato da ArciLesbica, che si è spesso espressa su fatti di cronaca praticando misgendering e deadnaming di persone transgender. Lo scorso settembre, ad esempio, l'associazione aveva insistito nel chiamare "Cira" Ciro Migliore, ragazzo transgender fidanzato di Maria Paola Gaglione, una donna morta a Caivano perché la famiglia non accettava la sua relazione: "la transessualità non si autocertifica" e "Cira Migliore ha documenti e corpo femminili, non ha mai iniziato alcun percorso di transizione".

Il femminismo trans-escludente è comunque ormai una posizione minoritaria e superata dai movimenti femministi più recenti, alleati delle persone trans e per i quali l’autodeterminazione riveste un ruolo fondamentale. L’approccio è definito transfemminista, che come spiegato da Antonia Caruso, donna trans e attivista, “racchiude ed espande alcune delle istanze femministe sul controllo del corpo (che si estende oltre il diritto all’aborto sicuro, alla chirurgia genitale, all’uso di ormoni, prescritti da un medico o autosomministrati) e sulla violenza di genere, che colpisce donne cisgender (cioè coloro che percepiscono in modo positivo la corrispondenza fra la propria identità di genere e il proprio sesso biologico), donne trans, uomini trans, gay, lesbiche”.

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