Ti scippo la testa: le minacce via Facebook a un giornalista che denuncia la mafia
4 min letturaPaolo è un giornalista, nei giorni scorsi ha ricevuto minacce pubbliche su Facebook.
Come Valigia Blu gli abbiamo chiesto di raccontare la sua storia. Un modo per far sapere che siamo al suo fianco e per ricordare attraverso il suo racconto che moltissimi giornalisti - sconosciuti al grande pubblico - spesso precari, per svolgere con coraggio il loro lavoro nelle loro terre martoriate dalle criminalità organizzate vivono sotto attacco, sotto minaccia tutti i giorni.
“Scrivere, raccontare e denunciare come stanno le cose equivale a non subirle”.
È questo da sempre il mio motto, il leitmotiv di una attività quotidiana che cerco di svolgere con passione e professionalità, tentando di dare il mio contributo, come ogni singola persona, ogni giornalista deve fare.
D’altronde un giornalista che non scrive la verità, che non si guarda intorno, che non ha il coraggio di denunciare, non è solo una persona che semplicemente non sta facendo il proprio dovere nei confronti dell’opinione pubblica, ma avrà anche la responsabilità di portarsi sulla coscienza i dolori, le sopraffazioni e le ingiustizie subite dalle migliaia di cittadini vittime delle mafie, del malaffare, della corruzione.
In ciò si inseriscono le scarse tutele di cui godiamo come categoria. La passione giornalistica nasce presto nella mia vita, e dalla radio alla carta stampata il passo è breve, fino poi ad arrivare a creare e dirigere, con un gruppo di giovani, il sito di inchieste Laspia.it e collaborare con l’agenzia di stampa AGI. Dalla nascita del progetto on-line le compagnie meno gradite ma più presenti sono state le minacce, in una provincia - Ragusa - più a sud di Tunisi e da sempre considerata “isola felice”. Provincia “babba”, cioè stupida, dove della criminalità organizzata non si deve parlare e solo a pronunciare la parola “mafia”, si viene etichettati come “pazzi e visionari”. Ciò fino a dimenticare che il ragusano è la terra che ha dato i natali (ed anche spezzato la vita) al brillante e mai troppo celebrato collega Giovanni Spampinato, il cui ricordo è spesso macchiato dalla terribile frase “se l’è cercata”, tesa incredibilmente a giustificare la mano assassina che ne spezzò i sogni d’esistenza. Una provincia meravigliosa sotto il profilo artistico e architettonico e fra le più ricche di Sicilia, tanto da essere una vera e propria “lavatrice” di danaro sporco. In questo contesto nascono le nostre inchieste giornalistiche che porteranno, fra l’altro, a contribuire allo scioglimento per mafia del comune di Scicli, meglio conosciuto (per esserne il set a cielo aperto) come la “città del Commissario Montalbano” e sulla criminalità organizzata, da Vittoria a Comiso.
La mano criminale delle minacce si è spinta, nel mio caso, fino a una aggressione fisica (che mi ha causato la menomazione permanente della spalla destra) e all’incendio della porta di casa della mia abitazione a Modica.
Tutto ciò poiché ancora oggi, in questo nostro paese, c’è chi pensa che con le minacce, le intimidazioni e anche le aggressioni fisiche possa cambiare il corso delle cose. Fissiamocelo in mente: sono soltanto mezzi uomini, scarti della società che tentano di far leva sulla propria forza sociale e sul consenso dato dalla paura di chi li incontra per strada e abbassa gli occhi.
Vittoria come Ostia, Napoli come Gioia Tauro, Brescello come Palermo. Tutto il mondo è paese per le mafie, per chi si alimenta e pasce nel malaffare, nella corruzione, spesso anche di politici collusi e corrotti che nulla fanno per arginare questo andazzo.
Basti pensare ai dati forniti da “Ossigeno per l’Informazione” che, dal 2006 ad oggi, ha censito 2261 casi di minacce, attentati, avvertimenti ai danni di migliaia di giornalisti.
Penne, strumento di libertà, minacciate, assalite, derise, in un tourbillon di parole irripetibili.
Le minacce crollatemi addosso in questi ultimi giorni, «Ti scippo la testa» o ancora, «Ti scippo la testa anche dentro il Commissariato di Polizia» a opera del fratello del capomafia di Vittoria (Ragusa), Giombattista Ventura, fanno il paio con le frasi rivolte ai colleghi Nello Trocchia, Sandro Ruotolo, Michele Albanese, Federica Angeli e tanti altri. E il filo conduttore di chi le afferma è la convinzione di totale impunità che boss – siano essi mafiosi, camorristi o ‘ndranghetisti – hanno, nel disperato tentativo di continuare a dettare legge.
La genesi delle minacce è sempre la stessa: gli interessi economici. Nell’ultimo periodo, ad esempio, ho scoperto che l’agenzia di pompe funebri della famiglia mafiosa dei Ventura (il cui capo è al 41bis), gestita da Gionbattista a Vittoria (Ragusa), non è in realtà intestata a lui.
Gionbattista Ventura non può avere autorizzazioni e licenze, soprattutto antimafia, avendo ancora processi e carichi pendenti. A questa rivelazione ha fatto seguito la minaccia pubblicata su Facebook: «Portati dietro l’esercito tanto la testa ta scippu u stissu»; e ancora: «Tu tocca ciò che è mio.. e co na tumpulata ti fazzu cantari l’ave maria n’sicilianu».
Ed ecco perché sono convinto che questa non debba essere una terra di “eroi, lapidi e commemorazioni”. Non ne abbiamo di bisogno. La cosiddetta società civile non si deve indignare il “giorno del ricordo” delle vittime di mafia, ma anche il giorno successivo deve mantenere i propositi, con i propri comportamenti, con l’antimafia dei fatti.
Bisogna lanciare un messaggio fondamentale: non alimentare le attività imprenditoriali dei mafiosi, di queste persone come i Ventura a Vittoria, non si deve avere né paura né rispetto. Solo così si depotenzieranno e lentamente “moriranno”.
Quando la gente inizierà a guardarli con spregio e le denuncerà, allora le nostre parole intrise di sangue e sofferenza avranno raggiunto il proprio scopo.