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La sfida del terrorismo ai media e ai social network

18 Luglio 2017 38 min lettura

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La sfida del terrorismo ai media e ai social network

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L’Isis, tuttavia, è lungi dall’avere perpetrato contro l’Occidente l’equivalente dell’ 11 settembre. A creare il panico, quindi, non è tanto la sua capacità quantitativa di uccidere quanto lo straordinario talento dimostrato nel mettere in scena il terrore, la grande capacità non di distruggere ma di fare paura. Una paura che ci acceca. (Olivier Roy, "Generazione ISIS")

In molti paesi si è convinti che il terrorismo rappresenti la più importante minaccia alla vita quotidiana. Diversi movimenti politici sfruttano questa paura per ottenere consenso. È anche in questo contesto così critico che si rende necessaria una riflessione su come i media possono inavvertitamente contribuire a un simile clima di tensione e quali passi fare per affrontare questo tipo di sfide, scrive Frank La Rue nell'introduzione al paper dell'Unesco Terrorism and the Media: A Handbook for Journalists (la maggior parte delle informazioni di questo mio approfondimento è tratta proprio da questo paper).

Il terrorismo non è di certo un fenomeno recente. Molti paesi hanno subito per anni attacchi contro i civili come strategia politica.

Ma oggi, nel nostro mondo contemporaneo interconnesso e con le nuove tecnologie, per i media gestire la propaganda terroristica si è fatto enormemente più complicato. In un ambiente digitale complesso, anche le migliori pratiche editoriali sono diventate più difficili da portare avanti. Il problema, con l'accelerazione del ciclo delle notizie e l'avvento dei social media, è diventato più complesso dal punto di vista tecnologico, etico, pratico.

Gli attacchi terroristici avvengono spesso in diretta sui social o ricevono copertura quasi immediata. Le fonti sono immensamente più numerose rispetto al passato e a contribuire al flusso informativo non sono più solo i giornalisti, in campo ci sono gli stessi cittadini-testimoni e anche gli stessi terroristi. Da qui la sfida della verifica, dell'uso delle fonti, del senso delle proporzioni, l'importanza dello studio del tipo di propaganda che ci troviamo a fronteggiare, la necessità di riflettere su quale linguaggio usare, la responsabilità di contestualizzare, mostrare empatia, evitare sensazionalismi e narrazioni che possono avere un forte impatto su differenti comunità, sull'agenda politica, sulla democrazia stessa.

Facebook, Twitter, Google – tra le principali piattaforma di intermediazione – sono ampiamente coinvolti, come sottolinea Charlie Beckett nel suo lavoro Fanning The Flames: Reporting Terror in a Networked World, pubblicato per il Tow Center for Digital Journalism della Columbia Graduate School for Journalism.

Il terrorismo nell'era delle instant news e dei social media è diventato "una bestia differente", afferma Richard Sambrook, ex BBC Global News Director:

Venti anni fa, coprire il terrore era più semplice. Sapevi chi era responsabile. Un'autobomba viene fatta esplodere davanti i magazzini Harrods, e l'IRA comunica direttamente con parole in codice. La polizia le avrebbe comprese. Le dinamiche erano più semplici e sapevi con chi avevi a che fare. Ora è molto più complicato. Il terrorismo è una bestia differente, e il fatto che sia in Rete, connesso o che sia più probabilmente autoctono solleva una serie di ulteriori questioni.

"Questo è ciò che i terroristi vogliono"
Il dilemma infernale
L'approccio globale
Terrorismo e spettacolarizzazione
Il terrorismo è una sfida alla qualità del giornalismo
Diversi "terrorismi", diverse coperture
L'importanza del frame narrativo: loro vs noi; lo scontro di civiltà
Alcune regole di base
La scelta delle parole e il rischio delle generalizzazioni
I social network e la sfida del terrorismo

"Questo è ciò che i terroristi vogliono"

Haroro J. Ingram, ricercatore dell'International Centre for Counter-Terrorism – The Hague (ICCT), nei suoi studi ha "vivisezionato" la logica strategica che è alla base della propaganda di gruppi terroristici come ISIS e Al-Qaeda, e analizzato come i media occidentali possono con la loro copertura amplificare od ostacolare lo scopo e gli effetti di quella logica propagandistica.

Nel farlo prende in esame sei aspetti al centro della copertura mediatica: la propaganda, i responsabili degli attacchi (assalitori), le vittime, le comunità, i governi e i media stessi. Dal rapporto fra questi aspetti e da come i media coprono ognuno di essi dipende poi l'impatto mediatico di amplificazione o di contrasto della propaganda.

Media indipendenti, forti, responsabili e con atteggiamento critico sono la migliore arma che le democrazie hanno contro la propaganda terroristica. Ma è anche un'arma che i propagandisti dell'ISIS e Al-Qaeda cercano di rigirare contro di noi. E per capire come fanno è necessario comprendere la logica strategica che è alla base della loro propaganda: esaminare esattamente perché gruppi come ISIS, considerando le loro risorse svantaggiate rispetto ai loro nemici (vedi una superpotenza come l'America), non solo usano la propaganda nelle loro strategie di "marketing" ma danno alla propaganda un ruolo strategico centrale.

Parole e immagini violente elaborate con molta attenzione per creare specifici messaggi hanno un ruolo centrale nella strategia comunicativa dei terroristi proprio in virtù della loro debolezza economica, militare, politica. La propaganda viene usata dai terroristi come una forza moltiplicatrice per rafforzare l'impatto delle loro azioni, contenere/annullare gli effetti di quelle dei loro nemici e come mezzo per condizionare il modo in cui il loro "target di riferimento" (il loro pubblico) percepisce se stesso, gli altri e il mondo.

Il messaggio che questo tipo di propaganda veicola è in sintesi: noi facciamo quello che diciamo, manteniamo le nostre promesse, mentre gli sforzi politico-militari dei nostri nemici rivelano una distanza fra ciò che essi dichiarano e ciò che effettivamente ottengono. Questo è l'aspetto pragmatico, poi c'è l'aspetto percettivo.

Gli estremisti violenti giocano su identità, crisi e soluzioni per influenzare il modo in cui il pubblico percepisce e giudica il conflitto. Per esempio, per i militanti islamisti sunniti come ISIS e Al-Qaeda, il cuore di questa narrazione funziona più o meno così: noi siamo i campioni e protettori dei Sunniti (identità gruppo interno), i nostri nemici comuni sono gli Altri cattivi (identità gruppo esterno), che sono responsabili della crisi sunnita e noi siamo l'unica speranza per risolvere questa situazione. Questo messaggio è progettato per costringere il proprio target a prendere una decisione basata sulla scelta dell'identità e dell'appartenenza.

Questi due messaggi (pragmatico e di percezione) non sono mai veicolati in modo indipendente e questo, secondo Ingram, spiega non solo l'attrazione magnetica di questa propaganda ma anche la apparente abilità di radicalizzare in maniera veloce i suoi sostenitori verso l'azione. E questa tipologia di propaganda è progettata per essere rinforzata ciclicamente: più le azioni del gruppo sono viste come efficaci, più sono viste come inefficaci le azioni dei nemici e più il gruppo è percepito come l'unico baluardo per risolvere la crisi indotta dai nemici.

Un esempio di appello basato sulla scelta di appartenenza/identità è un articolo dal titolo "Cari Musulmani Americani" pubblicato su Inspire, il magazine dell'AQAP (al Qaeda in the Arabian Peninsula): "La vostra appartenenza all'Islam è sufficiente per classificarvi come nemici, di fatto ci guardano come giovani musulmani indipendentemente dal nostro aspetto e dalla nostra educazione. Non considerano la nostra cittadinanza e l'infanzia che abbiamo trascorso nei loro quartieri... I nostri nemici ci trattano solo come musulmani, niente di più... Noi dobbiamo attenerci alla nostra religione e stare dalla parte dell'umma (comunità). Un simile trattamento merita un'unica risposta".

Questo messaggio, spiega ancora Ingram, è strutturato per radicalizzare, esacerbando le percezioni della crisi indotta dal nemico e presentando soluzioni a quella crisi, gli estremisti violenti cercano di convincere il loro pubblico – un ragazzo a Parigi, una coppia in California, giovani uomini a Jalalabad o Marawi, o un ribelle siriano – che una crisi estrema richiede soluzioni estreme.

Altro elemento da tenere a mente di questa propaganda è questo: le azioni e i messaggi sono studiati per ottenere una specifica reazione da parte degli avversari. Racconta il ricercatore del Centro Internazionale di contro-terrorismo: "Un membro dell'opposizione siriana mi disse nel 2015: la cosa importante è come voi reagite ai media di Daesh (altro termine per indicare ISIS). Daesh ha costruito una trappola mediatica e tutti i media occidentali ci sono cascati. Loro sanno di quali paure e immagini i media occidentali sono affamati, così Daesh dà loro esattamente quello e i media le diffondono". Questi gruppi ci studiano, monitorano i nostri media e pubblicano analisi di queste coperture. Controllano anche cosa i ricercatori accademici dicono. Lo stesso Ingram scrive che è stato al centro di un articolo in lingua araba di AQAP.

Solo studiando l'ampia strategia della propaganda terroristica – e non dimenticando mai che uno dei suoi punti di forza è trascinare i loro stessi nemici nel rafforzare questa logica – possiamo comprendere  come i media, anche inavvertitamente, la stanno alimentando.

I media, come detto all'inizio, possono amplificare questo tipo di propaganda o fermarla, dipende tutto da come  trattano questi sei aspetti interconnessi fra di loro: propaganda, assalitori, vittime, comunità, governi, media stessi.

  1. Le speculazioni dei media sui responsabili di un attacco terroristico o la diffusione di dichiarazioni di responsabilità non verificate aiutano il messaggio propagandistico. La propaganda dovrebbe essere quindi riportata in modo critico e non dovrebbe essere diffusa senza verifica e questo include anche le rivendicazioni degli attacchi. I giornalisti o gli esperti che usano espressioni come "è solo una ipotesi ma..." dovrebbero essere bannati da produttori e direttori. È irresponsabile, segno di pigrizia e di scarsa professionalità. Tipica, dice Ingram, degli esperti del click bait da terrorismo.

2. Gli assalitori, gli estremisti violenti (siano essi membri formali, lupi solitari/appartenenti a piccole cellule o sostenitori). La copertura mediatica favorisce la propaganda sia quando, cedendo al sensazionalismo, li esalta come figure anti-eroiche sia quando non distingue tra ciò che afferma la propaganda e ciò che invece sono i fatti rispetto ai responsabili di attacchi ispirati (ossia quelli non organizzati e condotti direttamente da ISIS). Anche il trattamento differente a seconda di chi sono gli aggressori contribuisce a rafforzare la propaganda: quando il terrorismo colpisce le comunità musulmane allora le motivazioni dell'attacco vengono esplorate nelle loro varie possibilità, se gli aggressori sono musulmani invece queste azioni vengono rapidamente definite terrorismo, dando la priorità all'Islam come motivazione dell'attacco.

Secondo Ingram si dovrebbe evitare di mostrare i loro nomi, le foto (se non per aiutare le forze dell'ordine) e il sensazionalismo sulle loro storie.

3. Quando parla di vittime Ingram si riferisce sia a quelle degli attacchi che alle comunità da cui provengono vittime e gli aggressori. I media possono alimentare la propaganda in questo caso in tre modi: 1) focalizzandosi in modo esagerato e sproporzionato sugli aggressori anziché sulle vittime. 2) il modo con cui si parla delle vittime, che dovrebbero essere trattate con delicatezza e coerenza, evitando la diffusione di immagini. Questo significa anche che le vittime in Medio Oriente, Africa e Asia dovrebbero avere lo stesso rispettoso trattamento di quelle in Occidente. 3) indicando intere comunità come responsabili o complici degli atti di una persona o di un gruppo di persone, senza nessuna prova a supporto di una simile accusa. Una pratica professionale disonesta, che non reggerebbe la prova dei fatti.

4. I governi, i politici e i loro portavoce. La retorica politica polarizzante, divisiva, che rozzamente separa in due parti contrapposte quelle che sono in realtà società complesse e pluraliste non fa altro che rafforzare la visione bipolare degli estremisti. Ovviamente i politici hanno il diritto di esprimere i loro punti di vista, ma è dovere di un giornalismo indipendente, critico e responsabile chiedere conto delle loro affermazioni e pretendere trasparenza da parte dei governi. E questo è particolarmente rilevante quando si tratta di retoriche e politiche che rischiano di danneggiare le nostre democrazia e libertà in nome della sicurezza nazionale.

Nei primi momenti di un attacco i media, naturalmente, tendono a sospendere il loro atteggiamento critico verso il potere, il governo. Ma dopo il primo iniziale shock è necessario per i giornalisti tornare a porre domande scomode e chiedere conto ai governi di come gestiscono la risposta al terrorismo, indagare sulle decisioni politiche e su eventuali azioni illegali adottate (come può essere la tortura). L'attacco poteva essere previsto? I servizi di intelligence hanno fallito? Le misure di sicurezza erano sufficienti? I terroristi erano già noti alle forze dell'ordine? Le riforme sulla sicurezza e le misure di emergenza sono davvero efficaci contro il terrorismo e non rischiano di limitare i diritti e la libertà dei cittadini? (Unesco, Terrorism and Media, pag. 99).

5. Le comunità. Dice Ingram: c'è una tendenza dei media a trattare le comunità musulmane che vivono in Occidente come un blocco monolitico, sebbene siano molto diverse fra di loro, anche qui rafforzando la narrativa bipolare che caratterizza la propaganda degli estremisti violenti. La tendenza a percepire ogni questione riguardante le comunità musulmane attraverso le lenti della sicurezza in chiave anti-terroristica non fa altro che alimentare la percezione della crisi all'interno di queste stesse comunità. Questo tipo di copertura è controproducente, alimenta il populismo e può essere utile per il click bait ma non supererebbe un processo di verifica basato sulle evidenze.

6. Media. I giornalisti hanno un ruolo fondamentale nel monitorare e sottoporre ad analisi critica il giornalismo dei loro stessi colleghi. Una particolare attenzione bisognerebbe averla anche nella selezione di esperti, commentatori e analisti chiamati a esprimersi e a commentare fatti legati al terrorismo. La professionalità, le competenze non sempre purtroppo sono i criteri seguiti per la selezione, quanto piuttosto la capacità di attirare pubblico e fare audience.

Attacchi terroristici ispirati

I cosiddetti "inspired attacks" sono una componente essenziale della strategia ISIS e AQAP. In questi casi il responsabile dell'attacco non ha nessun sostegno o contatto diretto con i gruppi terroristici. Questo tipo di attacchi, a basso costo e a basso rischio per ISIS, sono incoraggiati per creare la percezione di un movimento globale.

Incitando gli attacchi in Occidente, disseminando manuali d'istruzione, i terroristi pongono le basi per potersi poi appropriare di questi attacchi. In questo modo fanno cadere nella loro trappola i media che si intestano coperture spesso sbagliate e la politica che si rende responsabile di dichiarazioni sprovvedute: entrambi contribuiscono ad alimentare ulteriormente la propaganda 'jihadista' che presenta gli attacchi non solo come un più grande sforzo politico-militare ma anche come prova di una rivoluzione globale.

Quando i media e i politici si trovano di fronte questa tipologia di attacchi dovrebbero essere molto cauti, verificare prima di diffondere notizie e parlare di responsabilità, evitando commenti sproporzionati. Ingram fa un esempio molto calzante, commentando l'attacco a Westminster a marzo scorso, quando un aggressore ha travolto dei pedoni, è sceso dalla macchina e ha pugnalato un poliziotto prima di essere ucciso. Eppure di questo episodio viene trasmessa un'altra versione. Per esempio, prima ancora che ISIS stesso riconoscesse ufficialmente l'attacco, un leader occidentale ha descritto l'evento in questo modo: "Un attacco ai parlamenti, alla libertà e alla democrazia ovunque". Un vigliacco con una pistola e un coltello o una macchina che uccide innocenti inermi diventa un agente di un movimento globale. Così si è trasformata l'azione di una persona isolata in un attacco alle democrazie di tutto il mondo. Dichiarazioni simili di altri politici e la copertura mediatica hanno ulteriormente alimentato questo tipo di narrazione. Quando ISIS poi rivendicherà l'attacco, in un modo tale che si capisce che sa poco della dinamica e dell'aggressore, poco importa. Il lavoro "sporco" lo hanno già fatto i nostri media e i nostri politici.

E tutto questo considerando che, secondo un recente rapporto dell'ICCT, di 51 attacchi avvenuti in Occidente fra dicembre 2014 e giugno 2017, meno di uno su dieci è stato portato avanti sotto ordini diretti di ISIS.

La conclusione che suggerisce Ingram non è poi tanto sorprendente: un giornalismo di qualità – critico, basato su evidenze e sulla verifica attraverso più fonti – è più che sufficiente per fare da freno e per ostacolare la propaganda terroristica, che non è il ruolo del giornalismo, ma semplicemente il frutto di un giornalismo di qualità.

Il dilemma infernale

via Pulse

La relazione fra media e terrorismo è dunque complessa e controversa. Nel caso peggiore, come sottolinea l'Unesco in Terrorism and the Media: A Handbook for Journalists, è un rapporto simbiotico perverso: i gruppi terroristici realizzano spettacoli di violenza per continuare ad attirare l'attenzione del mondo, e i media sono portati ad offrire totale copertura per il grande interesse del pubblico verso questo tipo di contenuti.

Coprire gli attacchi terroristici asseconda, senza volerlo, l'obiettivo del terrorismo di diffondere paura, ma limitare o contenere la copertura potrebbe alimentare sfiducia nei media e rischio di censura.

I cittadini si aspettano dai media di essere informati nel modo più completo possibile, evitando eccessi e sensazionalismi. Le autorità invece chiedono di contenere la diffusione delle notizie per evitare di compromettere le operazioni in atto e per non diffondere panico fra la popolazione. I media corrono sempre il rischio di essere accusati di fare da megafono del terrorismo per attirare più audience possibile.

La reazione dei media contribuisce a determinare l'impatto del terrorismo sulla società, scrive Antoine Garapon: "I media sono davanti a un dilemma infernale. Da un lato è probabile che la loro eco renda le vittime messaggeri involontari della ricerca di gloria dei loro carnefici; dall'altro lato l'auto-censura potrebbe essere interpretata come una sorta di capitolazione. La paura può portare a una restrizione delle tante sudate libertà, riducendo così la differenza fra Stati democratici e regimi autoritari, esattamente quello che vuole il terrorismo".

Dopo ogni attacco vengono messe in discussione le modalità di copertura. È vero che le vittime nel mondo sono di più per disastri ambientali, guerre o incidenti stradali, ma come ha sottolineato Moises Naim: "Il terrorismo non è la fra le principali cause di morte del 21° secolo, ma sta senza dubbio cambiando il mondo". Ciò non toglie che i media e i giornalisti non debbano interrogarsi sulle modalità e anche sulla quantità di copertura.

I media hanno dunque il dovere di trovare un equilibrio fra libertà e responsabilità di informare, tra il diritto di sapere e il dovere di proteggere, rispettando le norme e i valori fondamentali del giornalismo: ricerca della verità, indipendenza, senso di responsabilità.

L'approccio globale

La copertura degli attacchi terroristici pone una sfida alla qualità del giornalismo che deve restituire un quadro quanto più possibile completo della minaccia terroristica nel mondo e della sua complessità. Gli attacchi che hanno ricevuto più ampia copertura vanno da New York a Mosca, da Parigi a Istanbul. Ma non danno il quadro completo del terrorismo globale: Nigeria, Camerun, Yemen, Golfo di Guinea, Siria, Bangladesh, Filippine sono investite allo stesso modo. Qui sotto la mappa degli attentati/attacchi rivendicati (o attribuiti) dall'ISIS dal 2014 a giugno di quest'anno.

Sono stati utilizzati i dati di The New York Times, Le Monde e Wikipedia. Nella mappa, come spiegato da Le Monde, sono stati esclusi gli attacchi in Siria e in Iraq perché "il controllo è spesso complicato, l’esaustività impossibile e la caratterizzazione come un 'attacco terroristico' discutibile (perché si inseriscono nella guerra civile)". I giornalisti francesi specificano comunque che con questa decisione non ne sottovalutano il peso, ricordando ad esempio che "nel mese di gennaio 2016, l’ISIS ha commesso più di 100 attacchi suicidi in Iraq e Siria, e ucciso quasi 300 persone in un singolo attacco a Baghdad all'inizio di luglio" dell'anno scorso. Per ogni attacco vengono elencati: città, paese, numero di morti e grado di responsabilità del gruppo terroristica. Su quest'ultimo dato bisogna ricordare che si tratta di informazioni ancora non definitive, in quanto le indagini sui singoli casi sono in corso).

I media dovrebbero avere un approccio globale, olistico nella copertura del terrorismo e "investigare" anche territori solitamente trascurati. Per anni la copertura giornalistica del nascente Stato islamico/Daesh è stata molto limitata (così come fu quasi assente per l'Afghanistan dopo la sconfitta sovietica nel 1990, "bucando" totalmente l'ascesa di Talebani e Al-Qaeda), se non inesistente fino a quando non ha travolto i nostri paesi direttamente. Eppure per molti anni ha covato in territori sunniti dell'Iraq, come Joby Warrick e Jason Burke hanno raccontato nei loro rispettivi libri su Isis.

Anche le connessioni fra le diverse aree in cui operano i vari gruppi terroristici sono trascurate. Libia, Nigeria e Siria sono coperte in modo separato, quando in realtà ci sono collegamenti fra di loro. Il criterio della prossimità diventa quindi un grosso limite nella comprensione del fenomeno terroristico.

Leggi anche >> Una riflessione sulla reazione internazionale agli attacchi a Beirut e a Parigi

Terrorismo e spettacolarizzazione

I terroristi contano sul fatto che i media, e soprattutto la TV, in nome dell'audience tendono alla spettacolarizzazione, al sensazionalismo, coprendo in modo quasi ossessivo la violenza. Tutto questo si è enormemente complicato con il web, con la possibilità dei terroristi di disintermediare, cioè di produrre e diffondere autonomamente contenuti, e messaggi, provando e spesso riuscendoci a dettare l'agenda mediatica.

In questo contesto la guerra di immagini e parole ha raggiunto una portata senza precedenti. L'ascesa dell'ISIS ha esacerbato questo dinamica, perché questo gruppo terroristico ha sviluppato capacità e tecniche di propaganda molto sofisticate (ben più di Al-Qaeda). Da una parte sono in grado di produrre e diffondere i loro contenuti bypassando i media tradizionali, ma dall'altro usano gli stessi media per sfruttare al massimo l'impatto psicologico dei loro attacchi: diffondere insicurezza, paura nelle popolazioni ma anche affascinare e sedurre nuovi sostenitori. ISIS si è specializzato nelle tecniche di comunicazione e nell'uso dei social e soprattutto propone una narrazione allettante di eroismo e virilità, spesso contando proprio sulla copertura dei media tradizionali. I media dovrebbero fare attenzione, cercare di sottrarsi a questa strumentalizzazione, alla "danza macabra del terrore che attraverso la teatralizzazione dell'informazione mette nelle mani dei terroristi la bacchetta della coreografica omicida", come scrive la sociologa Hasna Hussein. Trasmettere ad esempio ripetutamente video con colonne di soldati che sfilano a Raqqa, quasi come in una scena cinematografica, o i combattenti stranieri che si muovono in fuoristrada rafforza solo il processo di"eroizzazione" del gruppo.

Il terrorismo è una sfida alla qualità del giornalismo

via abcnews

La copertura giornalistica non può limitarsi agli episodi di violenza, ai singoli attacchi. La qualità, il ruolo e l'importanza che si ricopre per la società dipende da altri fattori che vanno oltre le breaking news e le emergenze: interrogarsi sul fenomeno che si ha di fronte, investigare sulle sue origini e conseguenze. Si chiede al giornalismo una specifica capacità di analisi investigativa su temi di grande complessità che riguardano la politica internazionale, rapporti di potere politico interno, religione e crimine transnazionale.

Superficiale, datato e senza respiro, così Philip Seib, professore di giornalismo dell'University of Southern California e autore del libro "As Terrorism Evolves: Media, Religion, and Governance", definisce  il giornalismo occidentale nella sua copertura del terrorismo.

Un tipo di copertura episodica, non approfondita, quasi da repertorio, contribuisce ad aumentare il senso di vulnerabilità dei cittadini: lì fuori c'è il male, imprevedibile, feroce e colpirà ancora.

Ma cosa c'è dietro quel male? Chi sono queste persone che uccidono in modo così spietato? Perché lo fanno? E, cosa più importante, come potrebbero essere fermati tali attacchi? Rispondere a queste domande richiede una copertura quotidiana e non una reazione di volta in volta ai singoli attacchi terroristici.

In un contesto come questo dove i terroristi puntano soprattutto ad azzerare la cosiddetta "zona grigia"– vedi un articolo di inizio 2015 di Dabiq magazine – (dove c'è diversità, tolleranza, comprensione, discussione e dibattito), la posta in gioco si fa ancora più alta: i media devono assumersi la responsabilità di non incentivare, rafforzare stereotipi, visioni semplicistiche o parziali, alimentare pregiudizi, generalizzazioni. L'attenzione all'uso delle parole e delle immagini diventa per questo davvero cruciale.

Afferma Seib: articoli che parlano in modo superficiale di attacchi terroristici in qualche modo legati all'Islam, senza alcun approfondimento hanno portato al risultato che una religione di 1,6 miliardi di persone viene definita dalle azioni di pochi responsabili di stragi come a Manchester o a Baghdad. E questo limite nella comprensione del mondo islamico da parte di quello non-musulmano porta molte persone ad accettare l'equazione Islam=terrorismo.

Il timore che un racconto giornalistico distorto o parziale delle comunità possa avere poi un forte impatto sulla opinione pubblica è confermato da diversi studi, come la ricerca di Meighan Stone (Entrepreneurship Fellow allo Shorenstein Center on media, politics and public policy della Harvard Kennedy School ed ex presidente del Malala Fund) che mostra come la copertura televisiva contribuisca a un'opinione pubblica negativa verso i musulmani.

Analizzando i notiziari di tre fra i principali canali TV americani – CBS, Fox e NBC – Stone ha trovato che, durante i due anni 2015-2017 presi in analisi, non c'è stato un solo mese in cui storie positive di musulmani abbiano prevalso sulle storie negative. Guerra e terrorismo sono stati i principali focus delle notizie, con ISIS a fare da protagonista per il 75% del tempo, mentre storie di vita vissuta o quelle che raccontano i musulmani come membri produttivi della società, sono state nettamente trascurate. Questo ha un impatto su cosa gli americani pensano dei musulmani, rendendoli sospettosi nei lori confronti. L'organizzazione Gallup definisce l'islamofobia come una paura esagerata, un odio e una ostilità verso l'Islam e i musulmani che è perpetuata da stereotipi negativi che portano al pregiudizio, alla discriminazione e alla marginalizzazione e all'esclusione dalla vita politica, sociale e civile.

I media – sottolinea Stone – sono criticabili più in quello che non fanno rispetto a quello che fanno. Non possono certo essere accusati di coprire le breaking news, che seguono attacchi terroristici e i conflitti in Medio Oriente. E non c'è dubbio che gli americani devono sapere delle violenze perpetrate da Daesh, Boko Haram e altri gruppi terroristici. Quello che i giornali sottovalutano sono gli sviluppi positivi nella comunità musulmana e gli sforzi che questa comunità fa per crearsi uno spazio in America, che comprende combattere quelli che nelle loro comunità hanno ideologie estremiste che non riflettono i loro valori o la loro fede. A dicembre 2015, ad esempio, attivisti musulmani hanno tenuto una marcia pubblica contro ISIS e il terrorismo. Gli organizzatori della marcia hanno così riassunto la copertura mediatica ricevuta: "silenzio".

Un giornalismo di qualità – prosegue Seib – dovrebbe approfondire i legami con l'Arabia Saudita e l'ideologia musulmana wahabita che è una minaccia per i musulmani moderati visti come i non-musulmani come nemici (dati i legami con molti paesi occidentali difficilmente i politici parleranno di questo, sta ai media indagare). Investigare sull'uso dei social media per diffondere propaganda, fare proselitismo, reclutare giovani terroristi, per ispirare attacchi terroristici, e trovare finanziamenti.

Infine andrebbero sottoposti ad esame critico gli interventi militari per contrastare il terrorismo e anche le mosse anti-terroristiche dell'intelligence. I cittadini hanno il diritto di sapere cosa funziona e cosa no.

Seib cita come esempi di giornalismo di qualità con questo tipo di approccio e competenze Joby Warrick del Washington Post e Rukmini Callimachi of The New York Times. Anche Charlie Beckett nel suo lavoro per la CJR cita Callimachi, riporta come esempio di giornalismo di approfondimento, qualità e contestualizzazione i documentari di Vice News America su ISIS e gli approfondimenti del Financial Times degli affari del Califfato nel mercato del petrolio. Un lavoro eccezionale (anche dal punto di vista della grafica interattiva) che ha mostrato come l'organizzazione terroristica si stava finanziando e i suoi legami con il mercato internazionale. Questo tipo di giornalismo aiuta a superare la narrazione legata esclusivamente a questioni di sicurezza. Invece di concentrarci solo sugli attacchi, le vittime, il dramma delle nostre vite quotidiane sconvolte, questo tipo di approfondimenti, obiettivi, basati sui fatti, non faziosi, aiuta a differenziare i vari tipi di terrore e a fornire una chiarezza, una completezza di informazione di cui abbiamo molto bisogno.

Leggi anche >> Chi è la giornalista che racconta il mondo dei terroristi ISIS tra fonti dirette e social network

Il terrorismo diventa così un test per il giornalismo anche sotto il profilo della libertà e dell'indipendenza. Dopo un attacco, una strage di civili, per patriottismo, per calcolo o perché costretti, i media di solito tendono ad assecondare le restrizioni volute dai loro governi o lo stato emotivo dell'opinione pubblica, rischiando anche una sorta di autocensura o di farsi megafoni del potere. Troppo spesso gli Stati usano il terrorismo come argomento per silenziare i media e mettere il giornalismo sotto controllo. L'esempio più eclatante in questo senso è stata la copertura dei media americani post 11 settembre, che ha assecondato l'agenda politica al punto da sostenere in modo acritico la guerra in Iraq sulla base di dichiarazioni risultate poi false (il possesso di armi di distruzione di massa).

Diversi "terrorismi", diverse coperture

La violenza che ha in assoluto maggiore copertura mediatica – si legge nel documento Unesco – è quella che si accompagna a dichiarazioni religiose. Ma ci sono anche stragi e violenze motivate dal nazionalismo di estrema destra o dal suprematismo bianco (le bombe a Oslo e la strage di Utøya perpetrate da Anders Behring Breivick nel 2011 in Norvegia, il massacro di Afro-Americani nella chiesa battista di Charleston, in America nel 2015, l'assassinio della parlamentare britannica Jo Cox nel giugno 2016).

Dagli anni '60 agli anni '80 i media si sono dovuti occupare di terrorismo di estrema destra e di estrema sinistra e di movimenti indipendentisti. Oggi il terrorismo ispirato dalla religione è quello al centro dell'attenzione mediatica, soprattutto se si tratta di attacchi istigati da organizzazioni che dichiarano di seguire i dettami dell'Islam, sebbene ricercatori, esperti abbiano fortemente contestato il riferimento all'Islam, non solo all'interno delle comunità musulmane ma anche in quei paesi dove l'Islam è religione di Stato. Nel 2016, durante un incontro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il rappresentante del Kuwait aveva spiegato, a nome della OIC (Organization of Islamic Cooperation) che l'espressione "gruppo terroristico ispirato dalla religione" era sbagliata dal momento che "nessuna religione giustifica o incita al terrorismo", sebbene ci siano gruppi terroristici che "sfruttano" le religioni.

E così spesso i media dicono che questi terroristi sono in guerra contro l'Occidente. Ma dimenticano di aggiungere che le azioni violente colpiscono anche le popolazioni a maggioranza musulmana, o direttamente come in Siria e in Iraq, o indirettamente come nel caso degli attacchi a Bruxelles il 22 marzo 2016, Nizza il 14 giugno 2016, visto che tra le vittime c'erano anche musulmani.

In Usa da dopo l'11 settembre 2001 e fino al 2015, gli attacchi perpetrati da suprematisti o estrema destra anti-governativa hanno causato più morti rispetto a quelli attribuiti ai jihadisti.

Una ricerca sulla copertura mediatica degli attacchi terroristici, condotta fra il 2011 e il 2015, ha dimostrato che se l'attacco è portato avanti da musulmani riceve una copertura 4 volte superiore rispetto agli attacchi portati avanti da non-musulmani. I musulmani hanno commesso il 12,4 % degli attacchi durante quel periodo ma hanno ricevuto il 41,4 % di copertura mediatica. Non solo. Le ragioni degli aggressori non-musulmani sono depoliticizzate e spesso attribuite a problemi mentali. Il fatto di essere bianchi e il loro credo religioso (cristiani per esempio) non porta a considerare terroristi tutti i membri della loro etnia o della loro fede religiosa.

Stessa osservazione che il Financial Times ha fatto quando la parlamentare laburista Jo Cox è stata assassinata, sottolineando come i tabloid trattassero con cautela i collegamenti del killer con l'estrema destra – Il Sun e il Daily Mail sottolineavano nella loro copertura che il presunto killer era un folle solitario con una storia di malattia mentale –. Un tipo di cautela che andrebbe applicata in realtà in tutti i casi di violenza terroristica. Non generalizzare e non cadere negli stereotipi è una delle grandi responsabilità dei giornalisti.

Il doppio standard è una delle accuse fatte ai giornali britannici anche recentemente. Se il responsabile dell'attacco è musulmano, c'è ampia copertura e un ben diverso trattamento a partire dalla scelta delle immagini e dei titoli. Nel caso dell'attacco a Finsbury Park contro fedeli musulmani, il sospettato – bianco e britannico – viene definito un "lupo solitario", senza lavoro e padre di 4 figli.
La differenza fra l'attacco a Westminster e quello a Finsbury, in termine di modalità di copertura, è ben rappresentato in questo tweet.

 

L'importanza del frame narrativo: loro vs noi; lo scontro di civiltà

via Odissey Online

La cornice narrativa usata per coprire il terrorismo è decisiva per diversi motivi. News frames, nella definizione di Pippa Norris, Montague Kern e Marian Just, nel loro libro "Framing Terrorism: the news media, the government and the public", sono "strutture narrative che i giornalisti usano per inserire determinati eventi in contesti più ampi". Il frame chiaramente implica la selezione di alcuni aspetti, alcuni angoli della realtà, che vengono poi privilegiati nella descrizione, interpretazione, definizione, valutazione morale del soggetto che si sta coprendo.

La scelta fatta dai media non è sempre consapevole e spesso può essere influenzata da altri fattori e attori in campo: gli esperti, lo stato emotivo delle persone, le autorità, pregiudizi ideologici, la stessa routine giornalistica che dà priorità alla prossimità (agli eventi più vicini a noi per esempio) e alle emozioni. E questo può influenzare pesantemente anche le reazioni sia del pubblico che delle autorità.

La cornice narrativa usata dai media americani subito dopo gli attacchi dell'11 settembre 2001 aveva come obiettivo quello di chiedere e ottenere una rappresaglia decisiva. La stampa ha ampiamente riportato le dichiarazione dei politici che invocavano una reazione militare, e la voce di cittadini che chiedevano una ritorsione. Durante la guerra fredda il frame dominante era Oriente vs Occidente. Con la caduta del muro di Berlino e l'ascesa del terrorismo di "ispirazione islamica", gli atti terroristici sono "narrati" in modo molto simile come scontro di civiltà, loro vs noi.

Lo stesso evento può rientrare in frame narrativi diversi. C'è chi mette in evidenza ciò che divide le comunità, altri scelgono di raccontare fatti che dimostrano l'esigenza di vivere insieme e la possibilità di farlo in modo costruttivo. Così dopo l'11 settembre alcuni media si dedicarono alla pubblicazione di storie positive su gli Arabi-Americani e sui cittadini musulmani. Questo frame puntava a evitare ritorsioni contro una specifica comunità americana e insisteva sulla necessità di rispondere alla sfida che poneva Al-Qaeda con la legge e non con la discriminazione.

I frame narrativi incidono quindi profondamente sul lavoro giornalistico, nella misura in cui si decide di coprire o meno alcune notizie. Per esempio, possono portare a trascurare la morte di civili causata da una rappresaglia come risposta agli atti terroristici, o a tacere degli abusi commessi dal proprio paese, cose che chiaramente ci costringono a interrogarci sulla pratica giornalistica (equità, imparzialità, verità), sull'etica, sull'empatia.

Fa una certa impressione rileggere un memorandum interno della CNN dell'ottobre 2001 (riportato nel testo dell'Unesco): "Data l'enormità del bilancio delle vittime innocenti in America, dobbiamo essere attenti a non focalizzarci in modo eccessivo sulle perdite e le sofferenze in Afghanistan che inevitabilmente saranno parte di questa guerra".

La stampa americana cominciò a parlare seriamente e a informare i cittadini delle torture portate avanti dai soldati americani nelle prigioni di Abu Ghraib non prima del 2004, nonostante fossero ben note da prima grazie alle denunce delle associazioni umanitarie.

I frame narrativi incidono anche sulle spiegazioni delle cause profonde che vengono date del terrorismo. Dietro alcune spiegazioni di esperti possono esserci posizioni e pregiudizi ideologici che possono inficiare un'analisi indipendente.

Liberarsi dai frame narrativi significa porsi domande che vanno oltre le nostri lenti interpretative, come per esempio (Unesco, Terrorism and Media, pag. 37): "Il terrorismo nasce da condizioni sociali disagiate? È il prodotto delle interferenze internazionali? Quali eventi storici lo ispirano? Qual è l'effettivo ruolo della religione? Il Jihadismo è la conseguenza della radicalizzazione dell'Islam o il contrario come dice il ricercatore francese, Olivier Roy, il risultato dell'islamizzazione del radicalismo. La risposta a queste domande determina non solo la linea editoriale, ma spesso le stesse scelte di copertura giornalistica".

Alcune regole di base

 

La guida dell'Unesco suggerisce alcune regole di base, che troppo spesso diamo per scontato. Ma che purtroppo altrettanto spesso sono disattese.

Come si diceva all'inizio, le fonti dove attingere informazioni sono aumentate. I social sono uno strumento per ricevere e dare informazioni allo stesso tempo. I media recupereranno centralità del loro ruolo se sapranno essere autorevoli nella selezione e gestione delle informazioni da dare.

Durante i primi momenti di un attacco terroristico, i media dovrebbero fornire una informazione chiara, accurata, veloce e responsabile. La scelta dei toni, le immagini, le parole non solo aiuta a evitare il panico, ma contribuisce anche contenere eventuali azioni di ritorsione contro individui o gruppi che qualcuno potrebbe collegare ai responsabili degli attacchi. Controllare, verificare, filtrare è fondamentale soprattutto nei primi momenti di caos e confusione, dove circola di tutto: propaganda, false notizie, speculazioni, trolling. In questi momenti sono decisivi professionalità e principi etici.

Nel momento dell'emergenza regna la confusione, l'incertezza. È fondamentale rimanere autorevoli, riuscire a separare il rumore dai fatti e a smontare la disinformazione. Essere cauti, avere dubbi, cercare il più possibile di essere precisi, il format "cosa sappiamo e cosa non sappiamo" nasce proprio da questo tipo di esigenze durante la copertura live. Correggere il più velocemente possibile eventuali errori. Tutto deve essere controllato, verificato, soppesato e giustificato. Dare i nomi degli assalitori è una delle priorità dei media e spesso si commettono errori gravissimi che danneggiano le persone coinvolte ingiustamente e le comunità di riferimento.

In un secondo momento è fondamentale cercare di capire, approfondire, contestualizzare, che non significa affatto giustificare gli attacchi terroristici. Informare in modo indipendente senza farsi condizionare o intimidire dal sentimento dell'opinione pubblica o dagli ordini delle autorità. Questo ovviamente senza mettere in pericolo la vita delle persone, degli ostaggi e le operazioni delle forze dell'ordine. È fondamentale interrogarsi sull'opportunità di pubblicare foto o comunicati delle organizzazioni terroristiche, i loro manifesti, o video di uccisioni di ostaggi, per evitare di farsi megafono delle strategie dell'odio. Dopo gli attentati in Francia a luglio 2016 ci fu un ampio dibattito in seguito alla scelta di alcune testate come Le Monde di non pubblicare più le foto degli attentatori e i loro nomi.

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È altrettanto necessario essere attenti nella scelta degli esperti a cui ci si rivolge per commenti e analisi, ben consapevoli che gli stessi esperti possono commettere errori o avere una specifica agenda (fondazioni, ministri, agenzie di intelligence). È cruciale verificare la qualità e l'indipendenza delle loro competenze, non affidandosi in modo cieco e acritico alla loro valutazioni.

Ancora, la scelta delle parole con cui vengono definiti gli assalitori rischia di indicare anche non volendo una sorta di ammirazione: "killer", "mostri", "barbari", "assassini". Oppure si parla di "mente" dietro gli attacchi, o si definiscono gli attacchi "sofisticati". Dovremmo chiederci se non stiamo correndo il rischio in questo modo di esaltare i terroristi, presentandoli come esseri eccezionali.

Coprire le violenza terroristiche significa anche mantenere il senso delle proporzioni. Troppa informazione può causare ansia, così come troppo poca. La tendenza dei media è di eccedere nella copertura, amplificando l'impatto voluto dai terroristi. Mandare in onda 24 ore su 24 gli stessi video di vittime e superstiti può solo intensificare la paura e la rabbia. Ma non rende i cittadini più informati.

La sociologa ed esperta di social e movimenti, Zeynep Tufecki, mette in guardia i media, in un articolo su BuzzFeed News scritto subito dopo l'attentato di Manchester del 22 maggio scorso, proprio da questo. Mandare in onda senza sosta quei pochi video delle vittime nel panico, che urlano, l'angoscia dei genitori mentre aspettano i loro figli, madri spaventate in lacrime è un modo per assecondare la strategia dei terroristi.

La reazione viscerale è comprensibile, quello che non è accettabile – scrive Tufecki – sono i mass media che reagiscono sempre così ancora e ancora, come se i terroristi fossero i registi ombra di un riprovevole reality show in TV.

Si potrebbe dire che la viralità sui social media è parte del problema, ma devo dirlo: le persone sui social stanno gestendo sempre meglio questa dinamica. Per lavoro seguo migliaia di persone appartenenti ad un ampio spettro politico su diverse piattaforme: la maggior parte delle persone si è fatta più assennata in questa partita. Questa volta la maggior parte delle immagini di persone ferite o senza vita dell'attacco di Manchester erano allegate a tweet o video di testate come BBC o CNN. Le persone sono più avanti rispetto ai mass media nel comprendere e contrastare questo gioco malato di attenzione e orrore. È giunto il momento per i media di recuperare.

Cosa fare allora? Tufecki suggerisce di prendere esempio dalle strategie mediatiche sulla copertura dei suicidi e delle sparatorie di massa.

Stiamo così contribuendo a ispirare il prossimo imitatore, il prossimo giovane uomo con il distorto desiderio di infamia e morte (compresa la sua) e il prossimo omicidio di massa... Priviamoli dell'attenzione che cercano, non facciamoci dettare l'agenda. Abbracciamo le vittime e le loro famiglie in tutto il mondo, non solo quelle a noi più vicine. Non diffondiamo i loro nomi e i loro volti in TV; non ripetiamo senza sosta i loro manifesti. Ogni morte è orribile, ma non è un motivo per esagerare il potere o la portata degli assassini. Il terrorismo è omicidio di massa con una strategia mediatica. È arrivato il momento di fermare questa strategia.

È importante, come già detto, dare spazio e visibilità a storie positive, di solidarietà e di coraggio. Soprattutto perché sono notizie e non andrebbero sottovalutate o trascurate. A nostro avviso è stata per esempio una scelta differente dalle altre e inaspettata rispetto agli standard delle coperture degli attacchi quella del Guardian di dare risalto, durante gli attacchi a London Bridge del giugno scorso, alla tempestività con cui la polizia è intervenuta e ha fermato e ucciso gli assalitori. Questo può avere un impatto positivo sui cittadini, contendendo il senso di insicurezza e di paura e mettendo in evidenza la capacità di reazione delle nostre forze dell'ordine.

La scelta delle parole e il rischio delle generalizzazioni

Il linguaggio apocalittico è il linguaggio su cui prospera il fondamentalismo, scrive Jacqueline Rose, Co-Director del Birkbeck Institute for the Humanities.

"L'asse del male", "barbarie", "martiri", "invasioni", "attacchi", "rappresaglie", sono termini usati da entrambe le parti – terroristi e autorità – che dovrebbero essere maneggiato con molta cautela dai giornalisti. A partire dalla stessa designazione dello "Stato Islamico". La Francia per esempio aveva chiesto di usare solo il termine Daesh, l'acronimo arabo di "Stato Islamico di Iraq e Levante". L'allora ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, aveva dichiarato: «Il gruppo terroristico di cui parliamo non è uno Stato, vorrebbe esserlo, ma non lo è. E chiamarlo Stato significa fargli un favore. Così come mi raccomando di non usare l'espressione "Stato islamico", perché induce a confusione tra "Islam", "Islamismo" e "Musulmani"».  Nel giornale arabo Riyadh, si legge nel paper dell'Unesco, Amjad Al Munif aveva sottolineato il punto di vista condiviso anche da altri fonti giornalistiche arabe che denunciava la "propaganda semantica". Durante una intervista ad Al-Arabya, il Grande Mufti d'Egitto, faceva notare che il gruppo non è uno Stato ma sono dei terroristi e che non avevano niente a che vedere con l'Islam. Aveva perciò chiesto ai media di non usare il nome arabo per esteso, ma piuttosto di chiamarli "l'organizzazione terroristica Daesh". E il nome è un aspetto cruciale della propaganda. Testimoniato anche dal fatto che l'organizzazione punisce chi li chiama nel modo sbagliato, rivelando che è in gioco anche una battaglia di parole e acronimi.

La stessa questione si pone per il termine "Jihadisti", che rischia di rendere glamour il terrorismo, dipingendo i terroristi con un potere religioso che in realtà non hanno (dal memorandum Homeland Security Department americano). Dice Allie Kirchner, ricercatrice del Stimson Center di Washington, "i terroristi hanno sfruttato la parola jihad per creare la falsa impressione che il testo del Corano supporti i loro crimini violenti". Focalizzandosi sul concetto limitato di jihad usato dai terroristi, continua Kirchner, i media americani hanno inavvertitamente rafforzato il legame fra terrorismo e Islam nella visione degli americani e hanno contribuito a diffondere sempre più una percezione negativa dell'Islam nell'opinione pubblica. Il manuale redazionale di Al Jazeera, ad esempio, vieta il termine jihadche strettamente vuol dire una battaglia interiore spirituale, non una guerra santa. Non è secondo tradizione un termine negativo. Significa anche la lotta per difendere l'Islam contro ciò che lo minaccia.

Inoltre, dovremmo davvero parlare di guerra contro il terrorismo? Se si usa questo termine il rischio è dare una dignità alla causa dei terroristi, trattandoli come soldati e non come criminali. Obama nel 2009 si dichiarò contro l'uso di questo termine, preferendo l'espressione lotta contro il terrorismo. Nella sua testimonianza dopo gli attacchi di Parigi del 13 novembre 2015, Dominique Faget dell'AFP ha detto: «In questi giorni ho sentito molte persone parlare di "scene di guerra" o di "situazione di guerra". Ma bisognerebbe mettere questo in prospettiva. Venerdì 13 novembre abbiamo assistito a una serie di attacchi terroristici a Parigi. Il peggior attacco dai tempi della liberazione durante la Seconda Guerra mondiale. Ma questa non è una guerra. Guerra significa vivere in un costante terrore di morte, vivere nella costante precarietà e in uno stato di insicurezza ovunque, sempre. Significa vedere gente morire attorno a te ogni giorno colpita da proiettili e granate che piovono sull'intera città».

I social network e la sfida del terrorismo

via Reuters

I social network, i giganti delle Rete, sono da tempo al centro di polemiche, critiche e forti pressioni, accusati di "favorire" il terrorismo e di fare poco per contrastarlo.

I terroristi usano il web, i social, le chat per diffondere la propaganda, reclutare sostenitori, fare proselitismo, organizzare attacchi, raccogliere finanziamenti.

Il giorno dopo l'attacco a London Bridge dei primi di giugno, il primo ministro britannico, Theresa May, dichiarò: «Quando è troppo è troppo», criticando nello specifico le grandi compagnie della Rete e invocando nuove misure: «Non possiamo permettere a questa ideologia di avere spazi sicuri tramite cui diffondersi. Dobbiamo lavorare con i governi democratici alleati per definire accordi internazionali per regolamentare il cyberspazio, in modo da prevenire la diffusione dell'estremismo e del terrorismo».

La preoccupazione dei leader politici è doppia: il materiale estremista che viene trasmesso in modo potente dai siti dei terroristi e dalle loro chat-room e diffuso attraverso i social media; l'abilità dei terroristi di comunicare attraverso le app di messaggistica protette dalla crittografia. Questi due elementi combinati hanno una forte capacità di amplificare i messaggi anti-occidentali e influenzare pochi individui al punto da portali a compiere attacchi suicidi. I tre aggressori di London Bridge, scrive The Economist, non sono "lupi solitari", erano parte di un gruppo basato a Londra che supporta ISIS ed è legato a Al Muhajiroun, una organizzazione islamista vietata, fondata da Anjem Choudary, uno dei principali predicatori islamici di nazionalità britannica, arrestato lo scorso anno per aver incoraggiato il sostegno a ISIS. Alcune persone a lui vicine sono rimaste libere di predicare e ispirare i militanti. Due tra i massimi esperti di anti-terrorismo in Gran Bretagna, Peter Neumann e Shiraz Maher, hanno sottolineato nei loro studi proprio questo aspetto: "La grandi compagnie possono anche abbattere la propaganda online ma si ritrovano ad affrontare una battaglia in salita se predicatori come Choudary da anni diffondono incontrastati messaggi per le strade del paese".

Almeno uno di loro era conosciuto alle forze dell'ordine. Dalle indagini sono emerse le prove del ruolo che Internet ha giocato nel rafforzare il loro estremismo e aiutarli a pianificare l'attacco. È molto probabile che abbiano usato per comunicare app che usano la crittografia come Whatsapp e Telegram.

ISIS, molto più di Al-Qaeda, ha rafforzato la sua presenza online, usando il web in modo sofisticato per diffondere la sua ideologia e promuovere i suoi successi  militari e nella società. A differenza di Al-Qaeda, che indirizza i suoi messaggi a singole cellule terroristiche, scrive sempre The Economist, ISIS usa le principali piattaforme digitali per costruire reti sociali e esternalizzare l'organizzare di atti terroristici (una sorta di crowdsourcing del terrore).

Le operazioni mediatiche dell'ISIS sono state studiate e riportate in un report pubblicato nel 2015 per Quilliam Foundation, una organizzazione londinese di contro-terrorismo: una produzione di contenuti in diverse lingue, che vanno da video di vittorie sul campo e di martirio fino ai documentari che esaltano le gioie della vita nel Califfato. Ogni provincia del Califfato (wylayat) ha il suo team di produzione di contenuti locali. Su Twitter una fitta rete di account (anche se chiusi, vengono continuamente riaperti con altri nomi utenti) trasmettono contenuti originali, diffondono i nuovi account che sostituiscono i vecchi chiusi, retwittano materiali propagandistici.

Se non ci sono dubbi sull'uso di Internet da parte dell'ISIS, non c'è consenso unanime da parti degli esperti di sicurezza sul suo impatto complessivo. "Se c'è un messaggio che ha presa, troverà terreno fertile fuori dal web" – dice Nigel Inkster – ex agente dell'intelligence ora all'International Institute for Strategic Studies di Londra. Quello che Internet ha cambiato, sottolinea Inkster, è la velocità con la quale viaggia il messaggio e la sua ubiquità. Internet ha permesso al processo di radicalizzazione di evolversi, ma non lo ha rivoluzionato. I contenuti terroristici online possono scatenare o rinforzare la radicalizzazione, ma raramente si possono ottenere risultati solo in questo modo. "La creazione di un terrorista richiede la cura attraverso reti sociali offline che offrono una forma di cameratismo basata su scopi comuni e legami personali che creano sentimenti di obbligo".

Sulla stessa posizione anche Peter Neumann e Shiraz Maher: "Le nostre ricerche [basate su informazioni raccolte su circa 800 reclute occidentali] hanno dimostrato che raramente la radicalizzazione si verifica esclusivamente online. Internet svolge un ruolo importante in termini di diffusione di informazioni e costruzione del brand di organizzazioni come ISIS, ma raramente è sufficiente a sostituire la potenza e il fascino di un reclutatore del mondo reale".

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Sicuramente Internet amplifica l'impatto del terrorismo e spinge giovani alienati verso l'estremismo e la violenza. E senza dubbio questo pone una sfida ai giganti della Rete, che non hanno nessun interesse nella diffusione dell'estremismo attraverso le loro piattaforme, anzi questi contenuti costituiscono anche una minaccia alla loro reputazione e ai loro profitti (diverse aziende hanno ritirato i loro investimenti su YouTube quando si sono resi conto che il loro brand appariva accanto a video violenti ed estremisti).

È vero che già in base ai termini e condizioni d'uso di diversi social è prevista la rimozione di contenuti pro-terrorismo. Ma il sistema si basa soprattutto sulle segnalazioni degli utenti che vengono valutate internamente e solo dopo l'azienda decide se rimuovere o meno i contenuti terroristici. Un metodo faticoso, lento, costoso, pieno di falle. La ricerca e gli investimenti puntano ora allo sviluppo di nuovi strumenti, grazie anche all'intelligenza artificiale, per rendere questi interventi più rapidi e precisi. Ma come lo stesso Zuckerberg ha affermato – annunciando anche l'assunzione di 3000 persone che saranno impegnate sulla moderazione dei contenuti – prima di arrivare a un sistema così sofisticato ci vorrà ancora tempo.

Per i contenuti pedopornografici si è intervenuti in maniera più efficiente e radicale, sotto la pressione dei governi a partire dagli anni '90, ma il problema è proprio la tipologia del contenuto: mentre è più semplice sviluppare un programma che riconosca immagini di bambini in atti sessuali, è più difficile che un algoritmo riesca a distinguere un video di propaganda terroristica o un video con valenza giornalistica, un documentario di denuncia, un articolo che usa immagini dei terroristi. Il rischio di errori e censura è evidente.

Google, Facebook, Twitter e Microsoft l'anno scorso hanno annunciato di lavorare insieme per creare un database dove vengono segnalati contenuti terroristici con un identificatore unico. Altre aziende possono accedere a questo database e rimuovere dalle loro piattaforme quei contenuti contrassegnati. Il database è per ora ancora in fase iniziale.

Google, il 19 giugno scorso ha annunciato una serie di misure per contrastare il terrorismo online soprattutto su YouTube:

1) Sarà intensificato l'uso di tecnologie per identificare video di propaganda terroristica e distinguerli da video a scopi informativi come possono essere documentari e servizi giornalistici. Si investirà dunque maggiormente nello sviluppo di algoritmi di machine learning sempre più sofisticati.

2) Saranno coinvolti più esperti indipendenti nel programma YouTube Trusted Flagger che valuteranno le segnalazioni del sistema d'analisi automatico, che a differenza di quelle degli utenti comuni si sono rivelate più accurate nel 90% dei casi, e decideranno se rimuovere o meno un video. Fanno parte di questo team 63 organizzazioni non governative, a queste se ne aggiungeranno altre 50. Google collaborerà inoltre con gruppi per la lotta al terrorismo per l'individuazione di contenuti tesi alla radicalizzazione e al reclutamento di terroristi.

3) Saranno applicati standard più rigidi e se anche alcuni video non violano apertamente le regole del servizio ma diffondono estremismo religioso e odio razziale, un avviso partirà prima della loro riproduzione, non sarà possibile monetizzare il traffico inserendo pubblicità, non saranno ammessi commenti, non sarà facile trovarli.

4) Sarà intensificato il programma Creators for Change, realizzato in collaborazione con Jigsaw, che attraverso Redirect Method invia a potenziali terroristi, che fanno specifiche ricerche, video e contenuti di anti-terrorismo.

Anche Facebook ha spiegato nei dettagli il suo impegno  per contrastare i contenuti terroristici. Anche in questo caso al centro delle iniziative c'è un vasto utilizzo dell'intelligenza artificiale che serve per esempio a individuare account legati ad attività terroristiche e a bloccarli. Se un utente prova a caricare foto e video di propaganda questa tecnologia è in grado di confrontare le immagini con altre già segnalate e impedirne la pubblicazione in maniera preventiva. La rete di contatti di un account sospetto viene individuata e tenuta sotto controllo e se il caso i profili vengono chiusi. Le tecnologie usate dal social network sono in grado anche di individuare chi, una volta bloccato, prova a riaprire un profilo usando false identità. Facebook per questo tipo di attività usa e incrocia anche i dati delle altre due piattaforme che possiede, Whatsapp e Instagram. Un team composto da 150 persone, costituito da esperti di anti-terrorismo, ex-agenti delle forze dell'ordine, procuratori, ingegneri. lavorerà esclusivamente all'individuazione di contenuti terroristici.
A questo si affianca l'impegno di collaborare sempre più con le autorità per rimuovere nel più breve tempo possibile i contenuti segnalati.

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Ulteriori passi prevedono una maggiore collaborazione tra le grandi compagnie e i governi, anche se la richiesta da parte delle autorità di mettere backdoor nei loro software per spiare i terroristi è stata in larga parte abbandonata. Una simile operazione avrebbe reso i software meno sicuri per tutti gli utenti, avrebbe potuto violare la libertà di espressione e tra l'altro sarebbe stato impossibile da applicare per tutti, visto che alcune app di messaggistica come Telegram sfuggono alla legislazione occidentale.

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Foto anteprima via Red24

Credits:
Mappa: Andrea Zitelli
Card: Marco Tonus
Editing: Angelo Romano

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