Le conseguenze interne e internazionali del terremoto in Turchia e Siria
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La piena portata dei forti terremoti che lunedì hanno colpito la Turchia meridionale e nel nord ovest della Siria non sarà nota a breve. I sismologi affermano che si tratta della peggiore serie di terremoti che abbia colpito la Turchia in tempi moderni. Il bilancio delle vittime è di oltre 24mila (più del terremoto del 1999), ed è destinato a salire ancora, considerato il numero non stimabile di persone ancora sotto le macerie. Con il calare della notte e l'abbassamento delle temperature nelle rigide condizioni invernali, le probabilità di sopravvivenza si fanno ancora più critiche.
Le cause del terremoto del 6 febbraio in Turchia e Siria
La sequenza sismica che ha devastato Turchia e Siria il 6 febbraio 2023 è stata innescata dalla cosiddetta faglia est-anatolica (la linea rosa nell'immagine in basso), lunga circa 500 km.
La faglia est-anatolica si trova nella parte orientale della Turchia in un punto che collega tre diverse placche tettoniche: quella anatolica con quella araba e con quella africana. Le tre placche scorrono una accanto alle altre con un movimento orizzontale. Nel caso del terremoto del 6 febbraio si ipotizza che il suolo si sia spostato di 3 metri circa.
Grazie alla comparazione di queste due immagini satellitari possiamo ancora una volta notare come si sia mossa la faglia durante il catastrofico #terremoto di magnitudo 7.8 in #Tuchia. Parliamo di uno slip orizzontale di 3-4 metri. 📸 @DrAndreasS pic.twitter.com/tewl9pEIka
— Il Mondo dei Terremoti (@mondoterremoti) February 9, 2023
In quest'area a sud della Turchia nel corso della storia si sono verificati numerosi terremoti con magnitudo simili a quelli odierni. Quasi tutti a basse profondità: anche il sisma più intenso avvenuto in Turchia il 6 febbraio ha fatto registrare un ipocentro di soli 17,9 km.
Lo sciame sismico ha colpito due paesi che si trovavano già in situazioni delicate e precarie. Ciò avrà considerevoli effetti sia sulla politica interna, sia sullo scacchiere internazionale.
Perché è ancora difficile prevedere un terremoto
Erdoğan: tra crisi economica e collasso politico
Il primo tassello è quello legato alle prossime elezioni presidenziali e parlamentari che dovrebbero tenersi il 14 maggio. La condizione eccezionale in cui verte il paese potrebbe far sì che le elezioni vengano posticipate. Ciò dipenderà da due fattori: se ci saranno le condizioni fisiche per le elezioni più vicine e se Recep Tayyip Erdoğan deciderà di prolungare lo stato di emergenza dichiarato mercoledì e di rinviare le votazioni oltre la scadenza del 18 giugno. Anche le opposizioni, che proprio lunedì avrebbero dovuto presentare la candidatura ufficiale di chi dovrebbe sfidare il presidente uscente, hanno deciso, per rispetto delle vittime, di posticipare l’annuncio.
Ankara sta affrontando la peggiore crisi economica da quando Erdoğan e il suo Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) sono saliti al potere nel 2002, con un'inflazione annua superiore all'80%, un calo della lira del 30% rispetto al dollaro lo scorso anno e un deficit delle partite correnti del paese che ha raggiunto quasi il 5% del PIL. La crisi sta intaccando la popolarità di Erdoğan e i sondaggi di opinione continuano a suggerire che l'opposizione potrebbe essere in grado di sconfiggerlo.
Repressione del dissenso e colpi di mano istituzionali: così Erdogan vuole farsi rieleggere presidente della Turchia
Un banco di prova fondamentale sarà il modo in cui il Governo gestirà quella che probabilmente è una delle più grandi crisi che ha affrontato durante il suo mandato, e Erdoğan ne è estremamente consapevole. L’inadeguata risposta del Governo di coalizione all'ultimo grande terremoto che ha colpito il paese nella provincia nordoccidentale di İzmit nel 1999 è stata ampiamente considerata un fattore determinante per l'ascesa dell'AKP. Non ha aiutato il fatto che l'esercito anti-islamista, che di fatto manovrava il Governo, abbia prima salvato i militari e poi i civili.
L'attuale Governo, invece, ha mobilitato le squadre di soccorso, , subito dopo la prima scossa di magnitudo 7,8 della scala Richter, avvenuta alle 4:17 ora locale. Il sempre pragmatico Erdoğan si è rapidamente liberato del suo pungente nazionalismo per accogliere gli aiuti dei paesi occidentali, compresi quelli di Israele e della Grecia - nonostante i rapporti tesi tra i due paesi, esacerbati nell’ultimo anno per la questione relativa ai giacimenti di gas nel Mediterraneo Orientale e di Cipro - e ha dichiarato sette giorni di lutto nazionale.
Un altro dettaglio non da poco è l’area di interesse del sisma. Il terremoto del 1999 colpì il cuore industriale della Turchia, uccidendo circa 20.000 persone. Le scosse di lunedì invece, hanno colpito una delle regioni più povere e meno sviluppate del paese. Non hanno colpito le aree turistiche, che ormai sono una delle più importanti fonti di valuta estera della Turchia. Una risposta efficace all'emergenza potrebbe addirittura rafforzare il leader dell'AKP e innescare un senso di solidarietà nazionale sotto la guida di Erdoğan, esattamente come successo dopo il tentato golpe del 2016.
Con circa l’80% dei mass media nelle mani di personalità vicine al Sultano, la copertura della risposta del Governo è destinata ad essere favorevole. Il cecchinaggio dell'opposizione in questi primi giorni non sarebbe gradito a una nazione immersa nel dolore. Tuttavia, l'umore dell'opinione pubblica potrebbe presto cambiare, grazie alle notizie diffuse sul fatto che le squadre di soccorso non stanno arrivando in tempo.
I social media sono stati inondati di richieste di aiuto. Ed è per questo motivo che mercoledì, in tutto il paese, è stato imposto uno shutdown di Twitter e almeno quattro persone sono state arrestate con l’accusa di aver diffuso il panico sui social per aver denunciato il ritardo nei soccorsi.
Come nel 1999, tornerà alla luce della ribalta la questione legata ai codici degli appalti pubblici e sugli standard di sicurezza, riscritti nel ventennio di Governo dell'AKP, segnati da una corruzione senza precedenti. Soprattutto, si tornerà anche a parlare della cosiddetta “banda dei cinque”, amici d’affare di Erdoğan, che, negli ultimi vent’anni, hanno guadagnato miliardi di dollari in appalti pubblici. Il principale leader dell'opposizione, Kemal Kilicdaroglu, - colui che dovrebbe essere il candidato designato dell’opposizione - ha inserito proprio questo tema nella campagna elettorale.
Erdoğan, per recuperare nei sondaggi, e per tentare di far riprendere l’economia, negli ultimi mesi ha aumentato la spesa pubblica dando la possibilità del pensionamento anticipato a 2,3 milioni di lavoratori, enormi sovvenzioni per l'energia e promettendo di costruire mezzo milione di case per le famiglie a basso reddito. È improbabile che i prestiti da parte dei regimi del Golfo e l'energia a basso costo dalla Russia, che ha contribuito ad alimentare la situazione di crisi, possano mitigare i costi colossali della tragedia di lunedì.
La crescente ostilità dell'opinione pubblica nei confronti della presenza di quasi 4 milioni di rifugiati siriani renderà difficile per il Governo giustificare qualsiasi deviazione di fondi verso la Siria settentrionale, ancora occupata dalla Turchia. Mentre scrivo, sono 3.377 le vittime in Siria, quasi la metà nel nord-ovest del paese controllato dalle opposizioni. L’amara consolazione per i curdi siriani è che Erdoğan ora ha ancora meno probabilità di invadere il paese, come ha minacciato di fare negli scorsi mesi, anche se già poche ore dopo il sisma, le forze di Ankara hanno bombardato le enclavi dell’YPG in Siria, accusato di aver lanciato missili contro il confine turco da Tel Riifat.
I prossimi giorni riveleranno quanto Erdoğan sia ancora abile nel volgere le avversità a proprio vantaggio - come ha fatto dopo il fallito colpo di Stato del 2016 - usandole come pretesto per schiacciare i suoi oppositori. L'entità del disastro di lunedì, però, suggerisce che questa volta anche Erdoğan potrebbe non essere all'altezza della situazione.
Il disastro della Siria
In una Siria devastata da 12 anni di guerra civile, il sisma che ha colpito la regione nella notte tra domenica e lunedì non ha fatto altro che esacerbare una situazione già disperata, in cui gli aiuti umanitari stanno tardando ad arrivare. Il primo convoglio delle Nazioni Unite ha raggiunto il nord del paese solo nel primo pomeriggio di giovedì, e il ritardo nell’arrivo degli aiuti dipende da diversi fattori.
Dopo 11 anni, in Siria si continua a morire e a combattere
In primo luogo, il fatto che non esiste una Siria, ma ne esistono almeno tre. La Siria del Regime di Assad, la Siria governata dall’opposizione e la Siria gestita dai curdi, il Rojava. E la modalità con cui vengono gestiti gli aiuti dipende completamente da chi governa l’area interessata, in particolare le province di Aleppo e Idlib, gestite dall’opposizione.
Aleppo è il simbolo della guerra civile siriana, dal 2012 al 2016 è stata l’epicentro del conflitto. L’assedio di Aleppo è passato alla storia come la madre di tutte le battaglie della guerra. Nella Stalingrado di Siria, in quattro anni sono morti più di 31mila civili. Nel 2015, la città è stata scenario di una brutale offensiva da parte del Regime e dell’alleato russo, vennero chiusi completamente gli accessi alla città, gli aiuti umanitari e i convogli con il cibo non potevano raggiungere la città, causando una delle peggiori crisi umanitarie e di fame nel paese - famose le immagini dei bambini malnutriti che si nutrivano con fili d’erba e spazzatura.
Aleppo, la città dei silenzi
Idlib, invece, è stato il centro delle proteste scoppiate nel marzo 2011. Come Aleppo, anche Idlib è stata un’enclave nelle battaglie tra il Regime e i ribelli, fino alla conquista da parte dei miliziani di Daesh nel 2017, diventando, quindi, il centro delle battaglie della Coalizione internazionale contro il cosiddetto Stato Islamico. Nel 2018, Russia e Turchia si accordarono per la demilitarizzazione della città escludendo, però, Damasco che non ha riconosciuto l’accordo e nel 2020, vista l’avanzata delle truppe di Assad verso il nordovest siriano, Ankara ha cominciato i raid sulla città, che - come dicevamo sopra - sono continuati negli ultimi mesi, con addirittura la minaccia di Erdoğan di invadere l’area via terra. Idlib è anche il luogo in cui, nel 2019, è stato ucciso Al-Baghdadi, il fondatore e leader di Daesh.
La zona è completamente distrutta dalla guerra civile, le infrastrutture sono precarie gli ospedali sono pochi, le case costruite con le macerie; la condizione non dipende solo dai bombardamenti, ma dai valichi con la Turchia spesso chiusi, dal Regime che per punire i ribelli li lascia in condizioni precarie e dalle sanzioni internazionali che non permettono l’arrivo di donazioni. Gli effetti di tutto questo li vediamo nella gestione della crisi lato siriano.
La comunità internazionale ha rotto le relazioni con il Regime all’inizio della guerra civile, gli aiuti umanitari delle istituzioni internazionali e degli Stati possono raggiungere i territori governati dall’opposizione solo via terra dalla Turchia meridionale. Tuttavia, credere oggi che sia semplice far arrivare i convogli da una Turchia martoriata - Adana, l’unico aeroporto attivo nel Sud della Turchia dista molti chilometri da Idlib e Aleppo - e con l’insofferenza della popolazione locale nei confronti dei rifugiati siriani, è un errore. Prima di giovedì, infatti, non sono passati convogli; anzi, gli attivisti hanno denunciato che i primi camion arrivati erano carichi solo dei corpi di rifugiati siriani morti in territorio turco. Non solo, Assad ha approfittato del caos per bombardare i territori colpiti dal sisma.
Nelle zone governate da Assad la situazione non è migliore. Le sanzioni internazionali non permettono alle banche siriane di ricevere transazioni dall’estero, comprese le donazioni. Gli aiuti fisicamente inviati a Damasco da Russia, Emirati Arabi, Iraq, Algeria, Iran, Tunisia ed Egitto, non solo sono insufficienti, ma si trovano a più di quattro ore di auto dalle zone martoriate, in un paese dove c’è carenza di benzina.
A testimoniare l’impatto delle sanzioni sul rallentamento dei soccorsi, il capo della Mezzaluna Rossa siriana Khaled Hboubati ha dichiarato esplicitamente che se Stati Uniti e Unione Europea non alleggeriscono le sanzioni, gli aiuti non ci saranno. Sia il dipartimento di Stato USA che la Francia di Macron hanno confermato la loro volontà di non rimuovere le sanzioni e di non voler collaborare con Assad. A nulla è valso anche l’appello della CEI nella richiesta della sospensione delle sanzioni, affinché si possano inviare gli aiuti alle popolazioni colpite. Lato europeo, dopo la richiesta ufficiale arrivata da Assad, l’Unione ha attivato il meccanismo di protezione civile comunitaria, con il dispiego di 6,5 milioni di euro da destinare a Turchia e Siria per l’assistenza umanitaria. Nella giornata di venerdì è infine arrivata la decisione degli Stati Uniti di sospendere le sanzioni per 180 giorni.
Se da un lato le sanzioni impediscono l’invio di aiuti umanitari, con Assad che accusa la comunità internazionale di giocare con la politica sulla pelle dei siriani, dall’altro lato c’è anche la questione della corruzione che ha portato il Regime ad ottenere il 47% degli aiuti umanitari inviati in Siria nel biennio 2019-2020, tramite imprese legate alla famiglia Assad, come riportato da un report del Syrian Legal Development Programme (SLDP) e dell’Observatory of Political and Economic Network (Open). Oltre ai soldi, però, servono gli uomini: le persone sono sotto le macerie e i pochi sopravvissuti rischiano di morire di freddo.
Per comprendere quanto sia una lotta contro il tempo e quanto sia necessario che gli aiuti in Siria arrivino il prima possibile, è importante ricordare i numeri. Anche prima del terremoto, il numero di siriani in necessità di assistenza umanitaria era superiore a qualsiasi altro momento dall'inizio della guerra: il 70% della popolazione ha bisogno di aiuto. La settimana scorsa, il WFP ha avvertito che il tasso di fame in Siria ha raggiunto il punto più alto dall'inizio della guerra; 2,9 milioni di persone rischiano di cadere nella fame, mentre altri 12 milioni non sanno da dove verrà il loro prossimo pasto. Secondo le stime dell'ONU, il 90% dei 18 milioni di persone in Siria vive in condizioni di povertà, con un'economia colpita dal conflitto, dalla siccità e dalla pandemia di Covid e di colera, oltre che dalle conseguenze del crollo finanziario nel vicino Libano.
Come dichiarato da El-Mostafa Benlamlih, coordinatore delle Nazioni Unite per la Siria, il terremoto e la sua gestione non farà altro che colpire una popolazione che già martoriata, una popolazione che vede negli effetti del sisma, la devastazione voluta dal Regime e dai suoi alleati.
Aggiornamento 11 febbraio 2023: l'articolo è stato integrato dopo la decisione degli Stati Uniti di sospendere temporaneamente le sanzioni verso la Siria.