Terremoto e prevenzione: perché l’Italia non è come il Giappone
9 min letturaDi fronte al terremoto che ha colpito diverse province dell'Italia centrale, soprattutto quelle di Rieti e Ascoli Piceno, così come in occasione di altri eventi simili del passato anche recente, molti, esperti e cittadini, discutono della mancata prevenzione antisismica (non accenno nemmeno a eventuali polemiche sull'assenza di previsione, dal momento che attualmente non c'è alcun metodo di previsione efficace dei terremoti che sia basato su un consenso scientifico). Mi pare che la questione si possa riassumere in questo modo:
Opzione 1. Spendiamo tanti soldi subito, nell'adeguamento antisismico di case, ospedali, scuole. Di qualsiasi struttura, di qualsiasi tipo, ovunque sia possibile farlo. Anche di chiese e di beni storici. In un paese come l'Italia, con un patrimonio storico diffuso sul territorio e dove praticamente ogni città e paese ha un nucleo di edifici vecchi di secoli, non si può parlare di prevenzione antisismica trascurando edifici e beni storici. È un problema che riguarda anche la sicurezza, non solo la tutela del patrimonio e dell'identità dei luoghi e del paesaggio. Quindi, spendiamo subito, investendo in opere edilizie di adeguamento e nella ricerca scientifica sull'applicazione di tecnologie e sistemi antisismici di monitoraggio e prevenzione.
Opzione 2. Spendiamo tanti soldi dopo. Dopo la distruzione e i morti. Spendendo, stando almeno a quanto calcolato dal Consiglio nazionale degli ingegneri, 120 miliardi negli ultimi 50 anni (145, secondo altre stime). Parliamo di soldi per la ricostruzione, il costo della perdita di vite umane non è quantificabile.
A occhio, mi sembra che da decenni abbiamo (non) scelto l'opzione 2. No, non date la colpa solo alla politica. Non c'è sufficiente domanda di prevenzione antisismica, nemmeno nelle aree a pericolosità maggiore. Semplicemente non è un tema di dibattito. È ciò che del resto accade in un paese dove si è consumato territorio pressoché ovunque si potesse (e anche dove non si sarebbe potuto), dal dopoguerra a oggi, e che solo da pochi anni inizia a parlare di recupero e ristrutturazione dell'esistente. Anche se non fa, in concreto, tanto quanto parla. Di prevenzione antisismica si discute solo in occasione di terremoti. Ed esperienze positive di ricostruzione con applicazione di sistemi antisismici si sono verificate, appunto, in seguito a terremoti. Come il caso di Norcia, che pur essendo a 15 chilometri dall'epicentro della scossa più forte, ha riportato danni molto più contenuti rispetto ai paesi più colpiti, grazie agli interventi seguiti ai terremoti del 1979 e del 1997. Anche se non mancano esempi positivi di prevenzione. Nel borgo di Retrosi, una frazione di Amatrice, oggi non si contano vittime. Le vecchie case del paese, che oggi fanno parte di un albergo diffuso, hanno resistito all'impatto del terremoto, anche se ora sono inagibili.
Ma cosa si dovrebbe fare, in concreto? L'ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile), un ente di ricerca impegnato tra l'altro anche nello studio di sistemi antisismici, afferma che l'Italia è tra i paesi leader nell'applicazione di queste tecnologie, ma ricorda anche che «oltre il 70% dell’edificato attuale non è in grado di resistere ai terremoti che potrebbero colpirlo». Nel 2012 il Consiglio superiore dei lavori pubblici aveva pubblicato uno "Studio propedeutico all’elaborazione di strumenti d’indirizzo per l’applicazione della normativa sismica agli insediamenti storici”, in linea con le raccomandazioni dell'Unesco sul paesaggio storico urbano, che avrebbe dovuto costituire la base per politiche di prevenzione.
I quattro miliardi che abbiamo speso, mediamente ogni anno, per la ricostruzione sono il costo della mancata prevenzione, dice Paolo Riva, vicepresidente dell’Associazione di ingegneria sismica italiana. Che richiama anche il caso dell’Emilia Romagna, che dimostra che non è sufficiente limitare gli interventi solo alle aree che sulla carta sono ad elevata pericolosità. Questi interventi possono essere facilitati da incentivi fiscali, che già esistono. Le recenti leggi di stabilità hanno previsto meccanismi di detrazione che permettono di recuperare fino al 65% delle spese sostenute per la riqualificazione energetica e l'adeguamento strutturale nelle zone ad alta pericolosità. Ma, ricorda ancora Riva, «mentre un lavoro di efficientamento energetico porta al privato un immediato risparmio nella bolletta, per quanto riguarda i lavori di adeguamento antisismico i vantaggi ci sono solo nel momento in cui ci dovesse essere un terremoto». Peraltro dei bonus attualmente può usufruire solo chi abita nelle zone più pericolose, cioè la zona 1 e 2 (nella classificazione in 4 zone di pericolosità).
Cosa ne possiamo dedurre, quindi? Probabilmente potremmo permettere di recuperare anche il 100% di quanto speso, cercando di convincere i privati ad agire, ma ciò non significa che poi questi lo faranno davvero. L'incentivo fiscale funziona sulla prospettiva di vantaggi e ritorni immediati, non sulla convinzione di fare un investimento nel lungo periodo. Perciò, afferma Riva, si potrebbe «concedere la detrazione fiscale solo quando le opere in campo energetico sono eseguite insieme a opere di adeguamento antisismico». Ma è difficile che anche in questo caso si intervenga estesamente, in assenza di norme che siano davvero obbligatorie. Una soluzione, secondo Bernardino Chiaia, docente di scienza delle costruzioni al Politecnico di Torino, potrebbe essere quella di rendere obbligatoria una assicurazione contro i disastri naturali. «Nel resto dell'Europa questo tipo di assicurazione già c'è ed è entrata in gioco in occasione delle ultime alluvioni del Reno e del Danubio», dice Chiaia.
Un altro problema riguarda la microzonazione sismica, cioè l'analisi che permette di individuare le differenze di pericolosità su scala locale, tra diversi comuni e all'interno di uno stesso comune. Queste differenze geologiche, relative alle caratteristiche del suolo e alla sua stabilità, fanno sì che un terremoto possa provocare effetti diversi in luoghi che si trovano a una distanza ravvicinata. I dati raccolti in queste analisi dettagliate devono servire per la pianificazione urbanistica e il governo del territorio, ai fini di una prevenzione sismica efficace.
A questo riguardo, lo scorso aprile, il Consiglio Nazionale dei Geologi, nel ricordare le numerose leggi approvate in Italia, che però non hanno saputo prevenire le conseguenze di molti sismi, denunciava che le «istituzioni da sempre hanno investito pochissimo nella conoscenza del territorio e ancor meno nella prevenzione, ed anche quando si è investito in conoscenza, le risultanze sono state spesso disattese». Nonostante lo Stato abbia già riconosciuto l'importanza della microzonazione sismica co-finanziando il suo svolgimento sul territorio nazionale, a detta dei geologi questo «cantiere di conoscenza del territorio» procede «in maniera disuniforme e talvolta con ritardi, con affidamenti a soggetti diversi dai geologi liberi professionisti, con la difficoltà di tanti comuni di co-finanziare gli studi».
E a questo si lega un altro problema: quello della carenza di personale a supporto degli interventi e della pianificazione sul territorio. Sono sempre gli esperti a ricordare, da tempo, che servirebbero più geologi. «È indispensabile la presenza dei geologi in ogni comune, con una loro distribuzione accurata sul territorio e non lacunosa come allo stato attuale», dice Fabio Tortici, del Consiglio Nazionale dei Geologi. Insomma: in un paese come il nostro non dovrebbe esistere un geologo disoccupato.
I geologi chiedono da tempo anche l'adozione obbligatoria del "fascicolo del fabbricato", cioè di quel documento che dovrebbe contenere tutte le informazioni tecniche relative a un edificio e agli interventi che ha subito. Uno strumento che permetterebbe una conoscenza più approfondita delle strutture, per la prevenzione non solo di eventi catastrofici ma anche di crolli e cedimenti. Il quotidiano online EdilTecnico scrive che strumenti simili sono già stati adottati in altri paesi europei: «in Francia è stato istituito già dal 1977 il Libretto per la gestione manutentiva, in Germania il Diario edilizio, in Spagna il Libro per il controllo della qualità dell’opera». Esistono decreti e leggi sulla manutenzione delle opere, ma «spesso slegati fra loro, senza un approccio unitario e coordinato, bensì solo di carattere “settoriale"».
Questi sono alcuni tra i problemi che dobbiamo ancora risolvere. E per quanto riguarda, nel concreto, gli interventi di adeguamento antisismico, è evidente che questi, soprattutto per beni e centri storici, si dovrebbero fondare su analisi e studi condotti caso per caso. Come spiega il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche), con una diagnosi e terapia adatte a ogni situazione.
Molti, di fronte all'impreparazione italiana, si richiamano all'esempio del Giappone o degli Stati Uniti, della California in particolare, dove terremoti di magnitudo maggiore di quelli italiani riescono spesso a fare danni molto contenuti. Le tecniche di prevenzione adottate in questi paesi (anche per quanto riguarda le norme comportamentali) sono sicuramente efficaci. Ma non bisogna dimenticare la diversità e la particolarità del contesto italiano, della sua geografia, del suo patrimonio storico così delicato, antico e diffuso, nelle città, nei paesi e nelle campagne. Il patrimonio storico italiano non consiste solo in quello che chiamiamo "monumenti", ma costituisce il corpo di intere città e paesi. E va detto che molti edifici antichi hanno dimostrato di sapere reggere la forza di un sisma meglio di strutture recenti, e che talvolta sono stati indeboliti da ristrutturazioni che hanno impiegato materiali "moderni". Spiega Bernardino Chiaia: «le tecnologie antisismiche più avanzate, come quelle usate in Giappone e negli Usa, ma anche in Italia, sono ottime ma poco adatte nei centri storici italiani, perché sono molto costose e invasive. E visto il numero di interventi di cui parliamo, per rafforzare gli edifici più vecchi a rischio sismico, invece, è meglio usare tecniche tradizionali, molto meno costose e più velocemente implementabili».
Al di là dei problemi tecnici, quanto costerebbe tutto questo? Tanti soldi. Decine di miliardi? Fare una stima è difficile, ma l'ordine di grandezza potrebbe essere questo. Le risorse possono poi essere pubbliche e private, ma l'interesse sarebbe evidentemente pubblico.
Ma non è soltanto il patrimonio storico a essere esposto al rischio. In Italia esistono moltissimi edifici costruiti nel dopoguerra, negli anni '50 e '60, durante la prima fase della disordinata urbanizzazione che sarebbe proseguita nei decenni successivi fino a oggi. Tra questi edifici ci sono anche molte case «costruite, malissimo e oggi fragili, esposte a rischi, obsolete e energivore», scrive Stefano Boeri. Questi edifici sono talvolta esposti anche al pericolo delle frane, non solo dei terremoti. Perché non dobbiamo dimenticare che il problema del ritardo nella prevenzione del rischio sismico si salda, in molte zone del paese, a quello del dissesto idrogeologico. Per non parlare della piaga dell'abusivismo edilizio.
Allora, di fronte alla complessità del problema, ai ritardi, alle annose lacune, alla frammentarietà delle azioni svolte, la priorità è rendersi conto che il maggiore ostacolo da superare non è tecnico o economico, ma culturale, generale. Qualsiasi ostacolo pratico sarà sempre irrisolvibile se il tema della prevenzione antisismica non diventerà una occupazione ordinaria, che impegna tutti i giorni risorse, enti pubblici, imprese, competenze, anche quando la prospettiva di un sisma sembra lontana dalla percezione quotidiana.
Perché sebbene l'Italia possa fare esperienza di terremoti forti (o magari solo di media intensità, ma distruttivi) anche nel breve termine di pochi anni, questi eventi naturali sembrano non riguardare mai il domani, ma un futuro lontano e incerto, che non ci interessa direttamente. Del resto sappiamo che ogni previsione, al momento, è legata a fattori probabilistici, di rischio. E nulla come il concetto di rischio risulta così poco comprensibile dai nostri cervelli. Terremoti importanti, anche nelle aree a pericolosità maggiore, hanno comunque un tempo di ritorno lungo, almeno sulla scala dei tempi umani. Questo facilita una percezione errata del problema. E induce a sottostimare il rischio, come dimostra una indagine dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia pubblicata lo scorso luglio, che ha rilevato che, in una scala di percezione dove 7 indica il punteggio massimo, la percezione della pericolosità sismica in Italia è in media del 3,24. Tra gli intervistati, solo il 6% pensa di essere ben informato sull'argomento. Per quanto si possa e si debba migliorare la comunicazione scientifica sui terremoti, questa mancata percezione è una delle ragioni per cui, come già detto, risulta inefficace affidare la soluzione del problema alla sola iniziativa privata, e a un meccanismo di incentivazione che si basa su vantaggi e ritorni immediati. Perciò, quello che accade è che da decenni i più vivono sperando (taluni magari pregando), senza pensarci.
La politica non se ne interessa quanto dovrebbe, perché non è materia di consenso elettorale. E il consenso che la politica va cercando è sempre il nostro. L'incapacità diffusa di percepire in modo corretto il rischio e di mantenere una memoria collettiva degli eventi fa il gioco di una politica miope e interessata anch'essa, quasi sempre, solo a vantaggi immediati. Come scrivono gli autori di Oltre il rischio sismico. Valutare, comunicare e decidere oggi, «è importante l’apporto della memoria e un’interpretazione consapevole della propria realtà e del proprio ambiente naturale e culturale». Ma non ne siamo capaci. E questa nostra incapacità, insieme alle logiche del consenso, costituisce «l’orizzonte culturale che abbiamo di fronte e su questo cambio di orizzonte bisogna agire per rafforzare gli strumenti di prevenzione».
Se siamo così in ritardo, dunque, le responsabilità sono in ultima analisi diffuse. Non c'è una soluzione di continuità tra cittadini e politica - la politica non è fatta solo di capi di governo e di parlamentari, ma anche di sindaci, assessori, semplici consiglieri. Cosa rispondere poi ai refrain del "non ci sono le risorse"? Se non ci sono risorse per interventi vasti e diffusi di prevenzione antisismica, in un paese come l'Italia, tanto vale dichiarare la bancarotta. Non la bancarotta economica, ma politica e generale. Quella di un sistema e di un intero paese.
(Immagine principale: Amatrice, 2016, via AFP)