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Campagna elettorale: oltre le ‘fake news’ c’è di più

8 Dicembre 2017 16 min lettura

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Campagna elettorale: oltre le ‘fake news’ c’è di più

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Istituire una commissione d’inchiesta parlamentare sulla disinformazione. Sarebbe, questa, l’ultima proposta di Matteo Renzi per «continuare la battaglia contro le operazioni di disinformazione che l’Italia, non solo io o il Pd, ha subìto in questi anni», stando a quanto scrive Jacopo Iacoboni su La Stampa.

Dopo l’annuncio della scorsa settimana alla Leopolda di un rapporto ufficiale da presentare ogni 15 giorni sulle «schifezze diffuse in rete» per combattere il rischio che le false notizie possano inquinare la campagna elettorale del prossimo anno, il segretario del Partito Democratico continua a individuare nelle fake news un tema caldo della campagna elettorale. L’esempio da seguire sono le commissioni d’inchiesta del Congresso americano, il riferimento implicito è ancora una volta al Movimento Cinque Stelle e alla Lega Nord, che alla Leopolda Renzi aveva detto di aver sgamato: «Non sto pensando né a una legge né a nessuna censura. Nella prossima legislatura chiederò l’istituzione di una Commissione d’inchiesta parlamentare, con i poteri della magistratura, sulle operazioni di disinformazione, meglio chiamarle così piuttosto che fake news, perché in Italia è accaduto qualcosa di organizzato, e ci andremo a fondo, chiamando testimoni, guardando i dati, interrogando le persone in una commissione. Vedremo le centrali. Così come sta avvenendo nelle tre commissioni d’inchiesta del Congresso americano». Su questo, Valigia Blu ha lanciato un appello a tutte le forze politiche affinché adottino un codice di condotta e dichiarino l’utilizzo di canali e tecnologie digitali per la diffusione dei propri messaggi politici. Un impegno etico sottoscritto dai soggetti coinvolti con lo scopo di portare un minimo di trasparenza nella presente (e magari nelle future) campagna elettorale.

Leggi anche >> I partiti politici dovrebbero adottare un codice di condotta per le campagne digitali

Pur riconoscendo che la disinformazione è una questione che merita di essere presa in seria considerazione, forte è il rischio che ci sia un'attenzione sbilanciata sulle "fake news" rispetto ad altri argomenti molto importanti per la vita della nostra società. Qui proponiamo alcuni tra i tanti temi sui quali una democrazia (intesa come istituzioni, forze politiche, associazionismo, categorie professionali, cittadini) dovrebbe confrontarsi.

Lotta alla criminalità organizzata

“La mafia non ha vinto. Ma non ha nemmeno perso. Se, dal maxi-processo in poi, la repressione si è intensificata e, successivamente, sono stati aggrediti ingenti patrimoni mafiosi, certo il metodo mafioso, di produrre profitto con il disprezzo della legge, la sopraffazione minacciata o esercitata, non si è arrestato”, scriveva il ministro della Giustizia, Andrea Orlando su Repubblica lo scorso 22 maggio a 25 anni dalla strage di Capaci in cui avevano perso la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.

Le mafie – spiegava il ministro – sono state capaci di infiltrarsi nelle istituzioni pubbliche e di allargarsi a macchia d’olio nel tessuto sociale e professionale, approfittando della debolezza della politica e dei poteri pubblici: “Abbiamo assistito all’esplosione del fenomeno in territori a non tradizionale insediamento delle organizzazioni criminali, a cambiamenti straordinari, non tutti ancora decifrati, che chiamano in causa la globalizzazione dei mercati, la crisi dei corpi intermedi e le difficoltà degli stati nazionali ad adeguare i loro ordinamenti a reti e capitali in costante movimento”.

Nonostante il mutare delle caratteristiche e della pericolosità del fenomeno, da molti considerato “uno dei mali più grossi del nostro Paese, (…), la lotta alla criminalità organizzata sembra poi sparire dai programmi dei Governi”, notava OpenPolis nel 2014. All’epoca, dei 43 disegni di legge presentati a Camera e Senato in materia da Deputati e Senatori, 11 erano stati approvati nelle varie fasi dell’iter e solo due diventati legge. Tra questi, la legge sul voto di scambio politico mafioso. E anche gli atti non legislativi (mozioni, interrogazioni, interpellanze) si arenavano nell’iter parlamentare perché non considerate una priorità al momento.

Nel 2016, nove Comuni sono stati sciolti per criminalità organizzata. In generale, il 96,49% dei commissariamenti per mafia in Italia sono tra Calabria, Campania e Sicilia. A loro si aggiungono Piemonte, Lazio, Liguria, Lombardia e Puglia, per un totale di 8 regioni coinvolte.

Il 23 e il 24 novembre il ministero della Giustizia ha organizzato gli “Stati Generali contro la mafia”, che ha riunito in 16 tavoli tematici magistrati, professori universitari, studiosi e rappresentanti delle istituzioni per definire interventi di contrasto al diffondersi della criminalità organizzata. «La mafia si contrasta facendo funzionare bene i servizi, con una pubblica amministrazione trasparente, costruendo welfare, facendo in modo che la giustizia abbia gli strumenti organizzativi adeguati», ha dichiarato il ministro Orlando.

Lotta alla corruzione

Nei primi nove mesi del 2017, sui media sono stati segnalati 566 casi di corruzione: 439 relativi a indagini, 76 a condanne, 10 a prescrizioni intervenute nel tempo, 27 ad assoluzioni, 8 a patteggiamenti. La corruzione è, dunque, un tema predominante nella cronaca quotidiana, scrive Guido Romeo su Il Sole 24 Ore. Lo scorso anno avevano fatto discutere le dichiarazioni dell’allora presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Piercamillo Davigo, secondo il quale, a differenza della “Prima Repubblica”, i politici attuali non hanno smesso di rubare ma, continua il magistrato, «hanno smesso di vergognarsi, rivendicando con sfrontatezza quel che prima facevano di nascosto». Al di là di queste affermazioni, Davigo aveva segnalato, però, problematiche sulla macchina della giustizia in Italia e su come la politica stava affrontando il fenomeno della corruzione.

Secondo il recente rapporto “Agenda anticorruzione 2017” di Transparency International Italia, nel nostro paese l’apparato normativo è buono, ma l’applicazione delle leggi è insufficiente. Tra le principali criticità segnalate, la lentezza dell’iter legislativo, la difficoltà a quantificare e misurare un fenomeno diffuso come la corruzione, l’assenza di una regolamentazione del lobbying, la debolezza degli strumenti per la prevenzione. Il governo Renzi ha approvato il disegno di legge antocorruzione (legge n. 69 del 2015) che, tra le altre cose, aumenta le sanzioni dei reati contro la pubblica amministrazione e revisiona il reato di falso in bilancio. Inoltre è stato introdotto il delitto di autoriciclaggio. Norme, quelle contro la corruzione, che hanno ricevuto diverse critiche, come quelle dell'Associazione Nazionale Magistrati (Anm), che le ha definite “timide” e in alcuni aspetti “incoerenti”. Lo scorso novembre, la Camera ha approvato la legge sul “Whistleblowing” che tutela chi segnala reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato.

Il presidente dell’Anac, l’Autorità anticorruzione, Raffaele Cantone ha recentemente sottolineato la necessità di una regolamentazione sul lobbying e interventi “per regolare i meccanismi di finanziamento della politica, concentrandosi sulla trasparenza nelle nomine e sulle fondazioni”. È questo, spiega Cantone, “il prossimo fronte da aprire quando si parla di contrasto alla corruzione”.

Giovani e lavoro

Secondo l’ultimo rilevamento Istat del 7 dicembre, relativo al terzo trimestre 2017, il mercato del lavoro presenta, nel complesso, “un quadro di crescita dell'occupazione, stabilità della disoccupazione e diminuzione dell'inattività”. I dati Istat confermano l’andamento dei precedenti rapporti, spiega Francesco Seghezzi, ricercatore del centro studi Adapt: «Aumentano i lavoratori over 50 e a termine. Demografia e nuove esigenze delle imprese guidano il mercato, con buona pace delle riforme». In altre parole, come specificato in un precedente articolo su Il Foglio dallo stesso Seghezzi, la stragrande maggioranza dei nuovi occupati sembrerebbe composta da over 50 e le nuove esigenze delle imprese privilegiano il ricorso a contratti a termine: “Nel corso degli ultimi anni la popolazione anziana è aumentata mentre quella delle coorti più giovani diminuita, generando quindi un’illusione ottica. Ma (…) sostenere che tutto è conseguenza della ‘scomparsa’ dei giovani è solo una mezza verità. Anche considerato l’effetto demografico, oltre la metà dei occupati risultanti dalle statistiche è molto probabilmente composta da lavoratori che sarebbero andati in pensione con le vecchie norme previdenziali e che ora restano al lavoro per qualche anno in più, e non da nuovi occupati”.

L’incremento dei contratti a termine sta segnando la fine del lavoro a tempo indeterminato, conseguenza delle esigenze dei lavoratori ma soprattutto delle imprese “che sono sottoposte oggi a dinamiche di competitività e di durata dei cicli di vita dei prodotti molto diverse rispetto al passato. Anche in questo caso non si tratta di un trend da negare, ma basterebbe prenderne atto e muoversi di conseguenza, investendo sulle politiche attive ad esempio, che aiutano i lavoratori nelle transizioni o sulla formazione, vera tutela nel mercato del lavoro di oggi”.

Proprio uno strumento di politica attiva si sta rivelando fallimentare. Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal), Garanzia Giovani (il Piano Europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile, in particolare a sostegno di persone tra i 19 e i 24 anni non impegnate in un’attività lavorativa, né inserite in un percorso scolastico o formativo), in Italia non si sta rivelando uno strumento utile a favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. «Garanzia Giovani – spiegava a Wired ancora Francesco Seghezzi – è uno strumento di politica attiva del lavoro che non fa politica attiva. Occupa per sei mesi, con pagamenti bassi e senza tutele, dopodiché il 75% si trova di nuovo a cercare lavoro. È meglio che niente ma non è efficace».

Futuro del lavoro nell'era dei robot

Lavori del futuro e futuro del lavoro. Un gioco di parole che tiene insieme temi interconnessi: la trasformazione dei lavori per come li abbiamo finora conosciuti e l’introduzione di nuove tipologie di lavoro grazie anche all’automazione. Fino ad ora il dibattito si è concentrato più sull’eventuale perdita di lavoro e meno sui vantaggi competitivi nell’era dei robot. L’automazione sostituirà di certo il lavoro dell’uomo ma allo stesso tempo creerà l’esigenza di nuove e più complesse competenze da parte degli esseri umani. Il lavoro non è quindi per forza destinato a finire, quanto piuttosto a cambiare. Qualche istituzione ha cominciato a porsi la questione. “La Commissione britannica per ‘Impiego e Competenze’ ha redatto un rapporto intitolato ‘The Future of Work: Jobs and Skills in 2030’ ("Il Futuro del Lavoro: Professioni e Competenze nel 2030"). Altri soggetti istituzionali, invece, devono ancora cominciare a problematizzare la questione. A partire dall’Italia, dove manca qualunque elaborazione”, scrive Fabio Chiusi in un lungo approfondimento sul tema.

Reddito di base e nuovo welfare

La trasformazione della società e delle forme di lavoro sta ponendo al centro del dibattito internazionale una riflessione su nuove forme di reddito e sostegno economico. Tra queste, c’è il reddito di base, un’idea che implica un cambiamento radicale del modo di pensare la società, il welfare e il rapporto tra uomo e lavoro, perché il salario non diventa più l’unica via per la propria esistenza. Gianfranco Sabattini, nel suo libro Riforma del Welfare state, spiega che la misura segnerebbe il passaggio da un’etica del lavoro a un’etica della solidarietà “(tra chi lavora e chi non riesce a percepire un reddito) in quanto parte di un sistema sociale in cui tutti hanno uguali diritti e doveri sociali”. Da un lato c’è chi sostiene che la misura, sostituendo gli ammortizzatori sociali attualmente attivi, sposterebbe ampie risorse oggi destinate ai poveri distribuendole a persone con redditi superiori. Dall’altro, invece, si sottolinea che l’attuale organizzazione del welfare è piena di falle e il reddito di base funzionerebbe come un pavimento che darebbe stabilità a tutti, garantendo un sussidio anche a quelle persone, attualmente non riconosciute come beneficiarie dei programmi di assistenza sociale, ma che una volta pagate le tasse finiscono sotto la soglia di povertà. Le proposte che hanno preso in seria considerazione l’introduzione del reddito di base vanno da un aumento della tassazione sulla ricchezza estrema o sulle rendite finanziarie all’utilizzo di fondi capitali ricavati dai proventi del petrolio (come avviene in Alaska, ad esempio) o altri flussi di entrate.

Misure di contrasto della povertà

Il tema delle marginalità sociali è una delle chiavi di lettura più utilizzate per analizzare il risultato delle elezioni. Già tre anni fa, Luca Ricolfi, all’indomani delle elezioni europee, scriveva che i partiti erano incapaci di vedere sei milioni di deboli, di persone escluse dal mercato del lavoro, che per la loro bassa posizione sociale hanno scarso controllo sul proprio destino. È stato recentemente approvato il cosiddetto reddito di inclusione, “una misura unica a livello nazionale, di carattere universale, subordinata alla prova dei mezzi (cioè all’accertamento della situazione patrimoniale e reddituale) e all’adesione a un progetto personalizzato di inclusione, articolata in un beneficio economico e in una componente di servizi alla persona”.

Secondo il recente "Rapporto sulla povertà della Caritas Italiana", i giovani sono i più colpiti dalla povertà e, mentre in Europa la povertà giovanile è in declino, in Italia è in aumento, con un incremento del 12,9% dal 2010 al 2015. “Questa nuova povertà dei giovani pesa di più rispetto a quella degli anziani perché ha maglie più larghe e colpisce un intero ecosistema. Un giovane povero è un giovane che non investe nell’educazione, che non può permettersi uno sport, che non va in vacanza. È un giovane che ha scarse possibilità di trovare un lavoro, uscire dalla propria casa di origine e fare famiglia. È quello che a livello europeo viene chiamato il fenomeno dei NEET, giovani privi di lavoro e fuori dal circuito educativo: l’Ocse stima che uno su tre vive ai margini della società”.

Politiche abitative

Lo sgombero di molte occupazioni in diverse città italiane è spesso stato associato all’incremento dei flussi migratori e alla difficoltà di gestirne l’accoglienza. Ma le singole storie hanno mostrato come le occupazioni sollevino una questione di politiche dell’abitare più che di immigrazione. È questo un tema centrale perché connesso allo sviluppo dei centri urbani e alla costruzione di città sostenibili e a misura di cittadino. “La possibilità di disporre di un alloggio di qualità rappresenta uno dei pilastri su cui si costruiscono la qualità della vita dell’individuo e la sua inclusione nella società”, scrive la ricercatrice Chiara Lodi Rizzini su secondowelfare. “Le politiche abitative, che tutelano il diritto alla casa, rientrano quindi a pieno titolo nell’ambito del welfare state. Per molto tempo, tuttavia, la questione abitativa è rimasta ai margini delle agende politiche, in parte per l’elevato numero delle case di proprietà, in parte perché si pensava che la povertà abitativa fosse destinata a essere assorbita dallo sviluppo economico. Così non è stato, e oggi il fenomeno sta tornando prepotentemente alla ribalta, inasprito dalla crisi economico-finanziaria”.

Scuola

Piano Nazionale Scuola Digitale, messa in sicurezza degli istituti e dispersione scolastica sono tre questioni importanti riguardanti il mondo della scuola.

Il Piano Nazionale Scuola Digitale, varato nel 2015 per dotare la scuola di connessione ad alta velocità, di tecnologie per una didattica rinnovata, di competenze di alfabetizzazione ai media e alle notizie, è in ritardo, scrive l’Agi in un lungo approfondimento sul tema: “I ritardi nelll’esecuzione sono gravi. E se è vero che quelli della fibra ottica dipendono dal ministero dello Sviluppo Economico, (…) tutti gli altri ritardi sono invece imputabili al ministero dell’Istruzione”. Il 6 dicembre il Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (Miur) ha lanciato per i soggetti che possano essere interessati e che si occupano di alfabetizzazione digitale una manifestazione di interesse per aderire alla costruzione di un Curriculum di Educazione Civica Digitale. La presidente della Camera, Laura Boldrini, ha presentato il progetto #bastabufale, presentato come un progetto di alfabetizzazione alle notizie, ma che tradisce una certa distanza dalla cultura della Rete e che focalizza i suoi obiettivi più su come smascherare (e non diffondere) le false informazioni che sulla maturazione di un pensiero critico rispetto a tutto quello che leggiamo, indipendentemente da fonte e mezzo.

Per quanto riguarda la messa in sicurezza delle scuole, negli ultimi tre anni sono stati messi a posto più di 7100 istituti su 42mila, pari a poco più del 15%. Un risultato importante rispetto a quanto fatto tra il 2003 e il 2014, quando erano state sistemate 1500 scuole, ma non ancora soddisfacente, scrive Elisabetta Tola su Agi.

Non siamo ancora in grado, nonostante le numerose tabelle consultabili, di poter dire cosa è stato fatto nelle scuole che ci interessano, per esempio quelle dei nostri figli, quali interventi, quale messa in sicurezza. Non possiamo distinguere tra un piccolo adeguamento e una ristrutturazione che tocca gli elementi critici. Nella gran parte dei casi, non sappiamo come sono stati fatti i lavori, se c’è stata, come in molti casi, una operazione al ribasso. (…) Che sia complicato lavorare su un patrimonio edilizio complesso e vecchio (meno della metà delle scuole italiane è stata costruita dalla seconda metà degli anni ‘70 in poi), distribuito su un territorio molto difficile e caratterizzato da diversi tipi di rischio, a partire appunto da quello sismico, è indubbio. Ma che la strada per mettere in sicurezza 8 milioni di studenti e più di un milione di lavoratori tra docenti e altro personale che ogni giorno passano in aula diverse ore della propria vita sia ancora molto lunga è una certezza.

Il fenomeno della dispersione scolastica in Italia è in calo, con grandi differenze tra Nord e Sud e con i casi più difficili in Sicilia e Sardegna. Il problema è più acuto nelle periferie delle città, dove sono maggiori i casi di marginalizzazione sociale. In un’audizione davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta Città e periferie della Camera, il ministro Valeria Fedeli ha sottolineato che «i tassi elevati di abbandoni e di livelli critici di conoscenza coincidono con le zone più povere d'Italia dove sono concentrate le famiglie socialmente escluse e dove è minore l'accesso a libri, biblioteche, musei, rete dei servizi per la prima infanzia, sport, fruizione digitale, etc..» e ha affermato che «le scuole di periferia devono diventare avanguardie di sperimentazione di nuove forme di didattica, mettere in campo intelligenze, energie, esperienze, e a noi spetta il compito di garantire risorse, economiche e umane, adeguate alla sfida che le si pone a carico. Tutte le periferie urbane - ha ricordato - devono e possono diventare un laboratorio di innovazione didattica e sociale con forte competenza nelle azioni di inclusione».

Ricerca, istruzione e università

Bassi investimenti statali e privati in ricerca, scarsa attrattività di ricercatori dall’estero, casi di corruzione e “malavita accademica” che mettono in questione le modalità attraverso le quali avviene il reclutamento universitario. Sono tra i principali nodi che riguardano università e ricerca che, nonostante questo, continua ad avere punte di qualità.

Nel complesso, la spesa per la ricerca e lo sviluppo in Italia è tra le più basse in Europa. I fondi di finanziamento ordinario stanno conoscendo una tendenza alla riduzione, i fondi Prin (Progetti rilevanti di interesse nazionale), recentemente aumentati, suscitano perplessità per le modalità di assegnazione, i ricercatori sono pochi e sempre più anziani (vengono assunti meno di due ricercatori ogni 10 pensionamenti, mostra la ricerca "In & Out" a cura di Orazio Giancola, del Dipartimento di Scienze sociali ed economiche dell’università La Sapienza di Roma, e Francesco M. Vitucci, del Dipartimento Saperi di Sinistra Italiana) e più del 90% dei dottorandi vede interrotta la propria carriera al termine del dottorato. Secondo la settima indagine annuale dell'associazione dottorandi italiani (Adi), dopo dieci anni di tagli, solo al 9,2% degli assegnisti di ricerca viene data la possibilità di arrivare a un contratto indeterminato.

Un recente studio pubblicato su Nature ha mostrato che il lavoro dei ricercatori riesce ad avere un maggiore impatto nella società, proprio quando sono liberi di cambiare centro di ricerca, paese, addirittura continente. In Italia, se si esaminano i dati sulla mobilità all'interno delle università italiane in termini di assunzioni di ricercatori, professori associati e ordinari, il concetto di mobilità sembra ancora un miraggio. Secondo il Rapporto di Anvur del 2016, fra il 2008 e il 2011, solo il 12% dei professori associati proveniva da altro ateneo, una percentuale che scende al 10% nel periodo 2012-15. Riguardo ai nuovi professori ordinari, sempre fra il 2008 e il 2011 solo il 4% proveniva da altro ateneo, per passare al 5% nel periodo 2012-15.

In questo contesto si inseriscono storie di “malavita accademica” che contribuiscono ad alimentare un sentimento di sfiducia verso l’Università. “Come tutte le istituzioni – scrive Carlo Rovelli sul Corriere della Sera ­– l’Università è fatta da persone ed è la qualità di queste che conta. La chiave della sua efficacia è la spinosa questione del reclutamento e del ricambio. Ovunque nel mondo, fiorisce quando riesce a reclutare i giovani migliori, stranieri e nazionali, e sa fare scelte oculate e lungimiranti sulle direzioni verso cui rinnovarsi. L’attuale situazione di strozzamento rende questo difficilissimo e genera comportamenti difensivi e talvolta miopi e porta a redigere norme a volte devastanti”.

Tutto questo significa, scrive Francesco Sylos Labini, che senza l’intervento dello Stato, l’Italia «è destinata alla desertificazione tecnologica e scientifica».

Dissesto idrogeologico e consumo di suolo

Alluvioni, frane, esondazioni, smottamenti. L'ultimo rapporto redatto dall'Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) per il 2015 ha calcolato più di un centinaio di eventi franosi all’anno in Italia, oltre 7mila i centri situati in aree a pericolosità da frana e idraulica, pari all’88% dei comuni italiani. Il 2050 è l'anno per il quale l'Unione Europea ha fissato l'obiettivo del consumo di suolo netto zero, ma il consumo di suolo con le sue conseguenze, rallenta ma non accenna a fermarsi. Il 7,64% del suolo risulta ormai impermeabilizzato e ricoperto da cemento o asfalto. E al di là delle superfici ricoperte questo fenomeno ha coinvolto ormai gran parte del territorio specialmente nelle aree di pianura e sulle coste, segnandone profondamente il paesaggio.

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L'ISPRA ha anche calcolato i costi economici relativi al consumo di suolo applicando dei metodi di calcolo che quantificano in termini monetari la perdita delle funzioni ecosistemiche che il suolo svolge. Il solo consumo di suolo avvenuto tra il 2012 e il 2016 costerà una cifra compresa tra i 625 e 908 milioni di euro l’anno, da attribuire per il 45% circa alla perdita di produttività agricola.

Digitalizzazione delle pubbliche amministrazioni e accessibilità dei dati per i cittadini

Sette pubbliche amministrazioni italiane su dieci sono “fuori legge” perché non consentono ai cittadini di accedere alle informazioni, scriveva un rapporto dell’associazione Diritto di Sapere, lo scorso aprile: “Il 73% delle richieste inviate a ministeri, aziende sanitarie o comuni da una rete di associazioni non ha ricevuto alcuna risposta”, nonostante dal dicembre 2016 il ‘silenzio amministrativo’ sia effettivamente fuori legge, grazie all’entrata in vigore del Foia, il diritto di accesso alle informazioni. Diritto di Sapere ha proposto “una riforma della legge per il diritto all’accesso e la nascita di un ente supervisore che educhi i funzionari e promuova il diritto all’accesso alle informazioni tra i cittadini”.

Immigrazione e accoglienza

Il tema dell’accoglienza e della gestione dei flussi migratori è uno dei terreni di scontro tra cittadini e istituzioni e una delle fonti principali di malessere e risentimento. Secondo il parere di diverse associazioni ed esperti del settore, il nostro è un sistema in grado di accogliere ma incapace di integrare a causa, soprattutto, di uno sviluppo sproporzionato di centri che dovrebbero essere di accoglienza temporanea ma che finiscono per diventare quasi permanenti senza, però, fornire i servizi (come l'insegnamento dell'italiano o altri progetti di integrazione) dell'accoglienza diffusa. A questo si aggiunge il dialogo difficoltoso tra i diversi soggetti coinvolti che favorisce a volte la nascita di contrasti sui territori. L’Italia deve costruire un vero sistema unico di accoglienza, che sappia accogliere i migranti che arrivano nel nostro paese e pensare per loro un vero processo di integrazione. Per farlo, bisognerebbe eliminare ogni sovrapposizione tra prima e seconda accoglienza, aumentare il numero di centri SPRAR e ridurre i Centri di accoglienza straordinaria, pensare le strutture che dovranno ospitare i richiedenti asilo in luoghi meno isolati dai centri urbani.

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