Tasse più giuste a multinazionali e ricchi: la pandemia è un’opportunità da non sprecare
10 min letturaLa pandemia sta accelerando sempre di più il dibattito, intensificatosi negli ultimi anni, sulla necessità di rendere più equo il sistema fiscale a livello internazionale. Da un lato, si sta discutendo molto della tassa minima globale per le multinazionali che spostano i profitti in paesi con un fisco più vantaggioso. Dall’altro, c’è una crescente richiesta in parecchi Stati di aumentare le imposte sui cittadini più ricchi, con l’introduzione di un contributo di solidarietà legato solo al periodo dell’emergenza o di una vera e propria tassa patrimoniale sulla ricchezza complessiva.
Sul primo punto un’importante novità è di recente arrivata dal presidente degli Stati Uniti Joe Biden e dalla segretaria al Tesoro Janet Yellen, che a fine marzo hanno presentato l’American Jobs Plan, un programma di rilancio dell’economia da circa 2 mila miliardi di euro (per intenderci, una cifra superiore al PIL annuale dell’Italia). Per finanziare questo progetto, Yellen e Biden hanno proposto l’aumento di alcune tasse, andando nella direzione opposta intrapresa dal suo predecessore Donald Trump. Il presidente degli Stati Uniti è pronto anche ad annunciare nuove risorse per l’assistenza all’infanzia e l’istruzione, aumentando le tasse ai più ricchi, nello specifico sul cosiddetto capital gain, che riguarda per esempio i guadagni sui titoli azionari.
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In generale la necessità di trovare nuove risorse e di contrastare le disparità sociali ha fatto crescere l’attenzione di parecchi paesi proprio sullo strumento delle tasse. E diverse istituzioni economiche, tra cui il Fondo monetario internazionale (FMI) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), hanno preso una posizione in merito.
Ma quali sono i dettagli delle proposte degli ultimi giorni per rendere più giusto il sistema fiscale internazionale, alzando le imposte alle multinazionali e ai ricchi? Hanno possibilità concrete di diventare realtà oppure rischiano di rimanere scritte nel vento? Abbiamo cercato di fare un po’ di chiarezza.
Che cos’è l’aliquota minima globale per le multinazionali
Per finanziare gli investimenti infrastrutturali dell’American Rescue Plan – ora all’esame del Congresso americano – Yellen e Biden hanno proposto di alzare l’aliquota con cui sono tassati i redditi delle società (corporate tax rate) negli Stati Uniti dal 21% al 28%. Nel 2017 Trump aveva abbassato questa aliquota dal 35% all’attuale 21%, con l’obiettivo di rendere il paese più competitivo dal punto di vista fiscale, ma ottenendo scarsi risultati. In generale, come hanno spiegato gli economisti Francesco Saraceno e Tommaso Faccio, le evidenze empiriche raccolte negli ultimi decenni hanno messo in dubbio la validità della cosiddetta “teoria dello sgocciolamento” (trickle-down economics), secondo cui l’abbassamento delle imposte alle società si traduce automaticamente in maggiore crescita e in maggiori benefici per le fasce più povere della popolazione.
Il calo della corporate tax rate non è stata però una peculiarità soltanto statunitense. Secondo una recente analisi pubblicata dal think tank americano Tax Foundation, tra il 1980 e il 2020 l’aliquota media a livello mondiale si è quasi dimezzata (Grafico 1). Oggi la percentuale media, pesata sul PIL, è del 25,9%; nel G20 – che riunisce le principali economie del mondo – è del 26,5%, tra i membri OCSE del 26,3% e nell’UE del 26,5%. Sono percentuali abbastanza in linea tra di loro, ma diversi paesi, per lo più piccoli, hanno percentuali parecchio più basse, creando grossi squilibri.
L’American Rescue Plan di Yellen-Biden avanza dunque un’altra novità, ancora più importante a livello internazionale: la cosiddetta “aliquota minima globale sulle multinazionali”. Una potenziale «rivoluzione», come l’ha definita Bloomberg, tra gli altri.
«Le imprese multinazionali sfruttano le lacune e le asimmetrie delle regole fiscali internazionali per trasferire artificiosamente gli utili in paesi con regimi fiscali più vantaggiosi ed evitare di pagare la loro giusta aliquota fiscale», spiega l’OCSE. Detta altrimenti, la digitalizzazione dell’economia e le politiche di alcuni Stati hanno permesso alle multinazionali – avvantaggiate rispetto ad aziende radicate sul territorio – di eludere il fisco, senza necessariamente violare la legge. Queste strategie privano i governi di risorse significative, impiegabili in settori come l’istruzione e la sanità, con stime di perdite di gettito che vanno dagli oltre 80 miliardi di euro ai 200 miliardi.
Questo problema non è una novità, anzi. Viene identificato con la sigla BEPS, dall’inglese Base erosion and profit shifting (ossia erosione della base imponibile e trasferimento dei profitti) e dal 2013 è al centro di un progetto dell’OCSE che, in collaborazione con il G20, ha messo insieme oltre 135 Stati nel mondo per trovare soluzioni concrete alle strategie di elusione fiscale. Insomma, le trattative vanno avanti da tempo.
«La proposta di Yellen e di Biden arriva dopo una campagna elettorale per le presidenziali di novembre 2020 in cui i democratici hanno spinto molto sulla necessità di tassare di più le multinazionali» ha spiegato a Valigia Blu Tommaso Faccio, Head of Secretariat all’ICRICT e docente di Diritto tributario alla Nottingham University Business School, nel Regno Unito. «Già da anni a livello internazionale si dibatte sulla necessità di introdurre un’aliquota minima globale, ma solo oggi sembrano finalmente esserci le condizioni politiche per provare a trasformarla in realtà. La crisi economica causata dalla pandemia ha sicuramente contribuito ad accelerare questo percorso».
Il piano presentato da Biden segue in parte la strada tracciata dall’OCSE, che negli scorsi mesi ha presentato due pilastri nel contrasto all’elusione fiscale delle multinazionali.
Semplificando i dettagli tecnici, abbastanza complicati, il primo pilastro riguarda in particolar modo i colossi del web – come Amazon, Facebook e Google – e propone di tassarli dove vendono i loro servizi e non solo dove li producono. Fino ad oggi alcuni paesi europei hanno provato a intervenire in autonomia sul tema, seppur timidamente, con l’introduzione di singole web tax, come ha fatto anche l’Italia, dove questa imposta ha però subito diversi rinvii. Secondo alcune stime, questa nuova forma di tassazione negli Stati Uniti dovrebbe riguardare soltanto le 100 multinazionali americane più grandi e con maggiori profitti.
Il secondo pilastro, fortemente connesso con il primo, riguarda invece la già citata aliquota minima globale. Anche qui entrare nei dettagli tecnici è complicato, ma il punto centrale è il seguente. L’idea è quella di fissare a livello internazionale un livello minimo di tassazione per le multinazionali, fissata dal piano di Biden intorno al 21%. Ogni paese sarebbe libero di mettere un’aliquota più bassa, ma in questo caso interverrebbe una sorta di meccanismo compensativo.
«Facciamo l’esempio di una multinazionale italiana che opera in Irlanda, dove l’imposta è al 12,5%», ha spiegato Faccio a Valigia Blu. «L’Italia esigerebbe da quell’impresa imposte pari all’8,5% dei profitti dichiarati in Irlanda, vale a dire la differenza tra l’aliquota minima globale del 21% e il 12,5%». È evidente che in questo modo si ridurrebbe di parecchio la convenienza nello spostare i profitti all’estero, in paesi con sistemi fiscali più vantaggiosi, contrastando efficacemente l’elusione fiscale.
Riepilogando con una metafora, l’obiettivo è quello di aumentare a livello globale la torta dei ricavi dalle imposte sulle multinazionali e parallelamente di cambiare anche il modo in cui vengono tagliate le fette di questa torta.
A prima vista sembra tutto molto condivisibile, ma quali sono i limiti e le obiezioni a questo progetto? Vediamoli brevemente.
Quali sono le obiezioni alla proposta di Biden
La prima obiezione è molto concreta: per rendere efficace l’aliquota minima globale per le società è necessario un ampio accordo internazionale tra i vari paesi che da anni stanno trattando sul tema.
In un articolo uscito su Foreign Policy lo scorso 12 aprile, l’economista Joseph Sullivan – uno dei consiglieri economici quando Trump era alla Casa Bianca – ha scritto che l’aliquota minima globale ha «zero possibilità di successo» perché molto difficilmente potrebbe trovare l’appoggio di paesi come l’Irlanda, che sulle basse imposte alle multinazionali hanno costruito gran parte della loro competitività.
Il 21 aprile il ministro irlandese delle Finanze Paschal Donohoe ha espresso forti dubbi sul progetto, ma ha comunque ribadito la sua disponibilità a trattare. La proposta degli Stati Uniti è per ora quella di un’aliquota minima del 21%, mentre l’OCSE ha per lo più parlato in passato di un’aliquota del 12,5%. Secondo alcuni osservatori, è probabile che le trattative si concentreranno sul livello dell’imposta, piuttosto che sulla sua introduzione o meno. «Paesi come Irlanda e Paesi Bassi, nonostante l’approvazione di un’aliquota minima, potranno ancora rimanere concorrenziali e più appetibili di altri, per esempio grazie al valore delle loro infrastrutture o dei servizi», ha sottolineato Faccio a Valigia Blu.
La proposta americana è finora stata accolta con favore da grandi paesi come Francia e Germania e l’obiettivo dei ministri delle Finanze del G20 è di raggiungere già un primo traguardo nelle trattative a giugno 2021.
Un seconda obiezione è quella secondo cui un aumento delle tasse, di qualsiasi dimensione essa sia, ricadrà sui consumatori, soprattutto in settori dove alcune società hanno di fatto il monopolio (si pensi ad Amazon). «Questa obiezione viene sempre sollevata quando si parla di un aumento delle imposte, ma in questo caso non c’è nessun automatismo», ha spiegato Faccio. «Prendiamo l’esempio delle web tax. Alcune società hanno esplicitamente detto che non avrebbero trasferito i costi sui consumatori, scelta dettata dal fatto che un aumento dei costi dei servizi e prodotti offerti potrebbe renderli meno competitivi sul mercato».
Inoltre, secondo i critici alla proposta di un’aliquota minima globale, un terzo limite riguarderebbe la possibilità per le multinazionali del “fatta la legge, trovato l’inganno”, ossia di escogitare meccanismi di elusione fiscale più sofisticati. «Non esiste la tassa perfetta, è vero, ma la proposta di Biden e Yellen è un primo grande passo verso una soluzione concreta allo spostamento dei profitti delle multinazionali», ha aggiunto Faccio. «Esistono le stime di quanto gettito viene perso per il fenomeno dell’elusione. Se dopo l’introduzione di un’aliquota minima ci si accorgesse che le cifre recuperate sono in linea con quelle previste, vorrebbe dire che la misura funziona. Altrimenti servirà prendere ulteriori accorgimenti».
Vedremo nei prossimi mesi quali saranno gli sviluppi nella tassazione delle multinazionali. Ma come abbiamo anticipato nell’introduzione, di recente la pandemia di COVID-19 ha portato alla ribalta un altro tema in ambito fiscale: la possibilità di alzare, momentaneamente o in maniera duratura, le imposte sulla ricchezza dei cittadini più facoltosi.
Perché si parla tanto dei “contributi di solidarietà”
Su questo fronte si è espresso il Fondo monetario internazionale (FMI), un’istituzione formata da 188 paesi che ha lo scopo di promuovere la stabilità economica e finanziaria nel mondo.
«Per aiutare a raggiungere i bisogni finanziari legati alla pandemia, i politici potrebbero prendere in considerazione un contributo temporaneo per la ripresa post-COVID, da applicare a chi ha un reddito o una ricchezza elevata», ha scritto (pag. xii) l'FMI nel suo Fiscal monitor di aprile 2021. «Per accumulare le risorse necessarie a migliorare l’accesso a servizi di prima necessità e potenziare le reti di sicurezza, sono necessarie riforme fiscali nazionali e internazionali, soprattutto ora per sfruttare la ripresa economica».
Anche qui il principio è semplice: un’imposta temporanea ai più ricchi potrebbe aiutare a ridurre o a limitare l’aumento delle disuguaglianze economiche e sociali, che sono state esacerbate dall’emergenza sanitaria. L’introduzione di un contributo di solidarietà manderebbe anche un messaggio alle fasce della popolazione più colpite, come ha sottolineato il Financial Times il 7 aprile 2021, riportando le parole dell’economista Vitor Gaspar, capo del Dipartimento degli Affari fiscali all'FMI. In concreto, un aumento anche simbolico delle tasse per chi si è arricchito durante l’ultimo anno potrebbe rafforzare la coesione sociale, anche in quei paesi in cui non c’è un’urgente necessità di rafforzare le finanze pubbliche. Discorso analogo vale per le imposte sulle società.
Ad aprile 2020, nel pieno del primo lockdown, i due esponenti del Partito democratico Graziano Delrio e Fabio Melilli avevano proposto l’introduzione in Italia di un contributo di solidarietà, da far pagare solo per il 2021 e per il 2022 ai cittadini con redditi superiori agli 80 mila euro. La proposta fu subito bocciata dall’allora governo Conte II e dallo stesso Pd, e una sorte simile è toccata lo scorso autunno a una proposta avanzata dall’ex segretario del Pd Pier Luigi Bersani e da alcuni colleghi parlamentari. L’idea in questo caso era quella di far pagare solo per il 2021 un’aliquota dell’1% ai cittadini con una ricchezza netta (senza contare i debiti dunque) superiore a 1,5 milioni di euro.
In Italia il problema è che quando si parla di questi temi, la maggior parte dei politici e molti quotidiani chiamano subito in causa l’introduzione di una tassa patrimoniale, denunciata come l’ennesimo aumento delle tasse o il “mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Questa però è una generalizzazione scorretta, con la memoria corta.
Già in passato il nostro paese ha introdotto un contributo di solidarietà in un periodo di grande difficoltà. È avvenuto ad agosto 2011, con un decreto-legge dell’allora governo Berlusconi, che aveva introdotto un’aliquota del 3% (chiamata proprio «contributo di solidarietà» per la crisi economica in corso) sui redditi eccedenti i 300 mila euro.
Come abbiamo spiegato in passato, un’imposta patrimoniale vera e propria è comunque diversa dal contributo di solidarietà: non bisogna fare confusione. Mentre il contributo di solidarietà è concepito per essere temporaneo e legato a una situazione di emergenza, un’imposta patrimoniale generale è pensata come un’imposta ricorrente sul patrimonio, per consentire una ridistribuzione più equa della ricchezza. Anche in questo caso, ad autunno scorso era stata avanzata in Parlamento la proposta di introdurre in Italia una patrimoniale al posto dell’Imu e di altre imposte, riscontrando la contrarietà di quasi tutto l’arco parlamentare.
Nel Fiscal monitor di aprile 2021 l'FMI ha sottolineato (pag. xiii) che i governi devono prendere in considerazione la possibilità di introdurre imposte sulla ricchezza (wealth taxes), se misure come i contributi di solidarietà non ottengano i risultati sperati.
Come abbiamo visto, è molto improbabile ad oggi che l’Italia segua questa direzione (anzi, il governo Draghi ha approvato un condono fiscale, che però riguarda i redditi sotto i 30 mila euro).
Discorso diverso vale per altri paesi, seppure pochi, in giro per il mondo. Di recente il governo neozelandese della prima ministra Jacinda Ardern ha per esempio deciso di alzare le tasse a chi guadagna più di 180 mila dollari in un anno, ossia circa il 2% di tutti i cittadini della Nuova Zelanda. Una strada simile è stata percorsa anche dalla Spagna.
«La pandemia è una prova di solidarietà e coesione sociale, e di efficacia di governo. I cittadini che sono stati colpiti di più dalla pandemia molto probabilmente chiederanno politiche più redistributive. Se le loro richieste rimarranno inascoltate, questi cittadini potrebbero rimanere delusi e perdere fiducia nei governi», hanno scritto il 16 aprile Gaspar e colleghi del Dipartimento degli Affari fiscali sul sito dell'FMI. «Allo stesso modo, quando la crisi sarà calata, ci saranno rischi di contraccolpi politici o di disordini sociali se ci sarà la percezione che sono stati sostenuti meno generosamente chi si è sacrificato di più. La posta in gioco è davvero alta. I politici devono fornire risultati non solo sul fronte della salute, ma anche sulle politiche che promuovono una distribuzione più equa dei redditi e l’accesso ai servizi».
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