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Perché la sentenza del Tar del Lazio contro Report è inquietante

23 Giugno 2021 9 min lettura

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Perché la sentenza del Tar del Lazio contro Report è inquietante

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di Vitalba Azzollini

La sentenza del Tar del Lazio riguardante Report, il programma giornalistico di Raitre, e l’avvocato Andrea Mascetti sta facendo molto discutere. Alcuni commenti tendono ad esaminare solo taluni profili della pronuncia – per lo più attinenti alla segretezza delle “fonti” del giornalista – che invece merita di essere considerata nel suo complesso. Ciò anche al fine di valutare le basi della pronuncia stessa e l’impatto che una sua eventuale conferma da parte del Consiglio di Stato potrebbe avere sull’attività giornalistica svolta per la RAI.

I fatti

Nell’ottobre 2020, Report ha realizzato e trasmesso un servizio giornalistico sugli appalti pubblici in Lombardia, dal quale emergeva il ruolo chiave dell’avvocato Andrea Mascetti e il suo coinvolgimento in «un intreccio di rapporti quantomeno opachi» con la politica. Mascetti, reputando che nel servizio fossero state «riportate notizie false e fuorvianti», tali da determinare la conseguente «grave lesione dell’immagine e della reputazione sua e del suo studio legale», aveva proposto istanza di accesso alla RAI: sia accesso documentale, ai sensi della legge n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, sia accesso civico generalizzato, ai sensi del decreto legislativo n. 33/2013, come modificato dal decreto legislativo n. 97/2016 (cosiddetto decreto Foia). La sua richiesta riguardava l’ostensione del «materiale informativo necessario per poter promuovere iniziative a tutela del suo buon nome dinanzi alle competenti Autorità giudiziarie e amministrative». Tale materiale era stato così individuato dall’interessato: «(a) tutte le richieste rivolte dai giornalisti e/o dalla redazione di “Report”, tramite e-mail o con qualsiasi mezzo scritto o orale, a persone fisiche ed enti pubblici (Comuni, Province, ecc.) o privati (fondazioni, società, ecc.), per ottenere informazioni e/o documenti riguardanti la persona dell’avv. Andrea Mascetti e la sua attività professionale e culturale; (b) tutti i documenti e/o le informazioni fornite ai giornalisti e/o alla redazione di “Report” a seguito delle richieste sub a), e in particolare la corrispondenza personale intercorsa tra lo scrivente e soggetti terzi illustrata nella parte finale del servizio». Comunque, per il richiedente restava ferma «la possibilità per l’Ente di adottare i necessari accorgimenti nell’assicurare l’ostensione della documentazione richiesta (eventualmente oscurando i dati identificativi delle c.d. “fonti”)».

La RAI ha opposto un «diniego integrale all’istanza di accesso avanzata», e l’avvocato l’ha impugnato. Il Tar ha accolto parzialmente il ricorso e ordinato l’ostensione dei documenti e degli atti, ma solo di quelli «effettivamente formati e detenuti dalla RAI, essendo ontologicamente impossibile che esso sia effettuato rispetto ad atti non documentati».

Gli elementi essenziali della sentenza

Il Tar ha esaminato entrambe le tipologie di accesso avanzate dal ricorrente. Ha quindi escluso la possibilità di accesso civico generalizzato, ricorrendo per la RAI un’ipotesi di «sottrazione» al decreto Foia, data l’emissione di strumenti finanziari quotati da parte dell’azienda. Invece, l’emittente – hanno affermato i giudici - può essere destinataria dell’altro tipo di accesso, quello ai sensi della L. n. 241/1990 (artt. 22 e ss.), in quanto rientrante fra i “gestori di pubblici servizi”. L’ente, infatti, «pur nella sua veste formalmente privatistica di S.p.a. e pur agendo mediante atti di diritto privato, conserva indubbiamente significativi elementi di natura pubblicistica, ravvisabili in particolare: a) nella prevista nomina di numerosi componenti del C.d.A. non già da parte del socio pubblico, ma da un organo ad essa esterno quale la Commissione parlamentare di vigilanza; b) nell’indisponibilità dello scopo da perseguire (il servizio pubblico radiotelevisivo), prefissato a livello normativo; c) nella destinazione di un canone, avente natura di imposta, alla copertura dei costi del servizio da essa gestito. L’azienda, inoltre, è di proprietà pubblica e rappresenta la concessionaria in esclusiva del servizio pubblico radiotelevisivo», sicché non c’è alcun dubbio sull’applicazione della normativa sul diritto di accesso ex l. n. 241.

Secondo il TAR, nel caso in esame ricorre anche l’ulteriore presupposto per avanzare una richiesta ai sensi della legge n. 241: Mascetti sarebbe titolare di un interesse “diretto” (il materiale sul servizio televisivo riguarda specificamente il richiedente l’accesso), “concreto” (in quanto funzionale a promuovere iniziative a tutela del suo buon nome) e “attuale” (il servizio giornalistico “lesivo” sarebbe tuttora visionabile sul sito della RAI) all’ostensione degli atti che richiede.

I dubbi sulla sentenza

1) Attività del giornalista come “incaricato di un pubblico servizio”

Appurato che nei riguardi della RAI si applichi la legge n. 241 sull’accesso documentale, per i giudici può esserne oggetto sia l’attività «preparatoria, volta all’acquisizione, alla raccolta e all’elaborazione delle notizie poi oggetto di rappresentazione» sia «la rappresentazione di notizie operata all’interno di un servizio trasmesso nel corso di un programma di inchiesta giornalistica in onda su una rete RAI», trattandosi di “informazione pubblica” riconducibile al servizio pubblico radiotelevisivo, affidato in gestione alla RAI.

Serve soffermarsi specificamente su questo punto: se è indiscutibile la sottoposizione della RAI, in quanto gestore di un servizio pubblico, alla legge citata, è altrettanto vero che il suo ruolo quale concessionario pubblico ed editore va tenuto distinto da quello dei giornalisti che vi lavorano. È corretto che la RAI sia destinataria di richieste di accesso per le attività che svolge nell’organizzazione e nella gestione del servizio pubblico che rende: dai concorsi che bandisce, ai contratti che stipula con sponsor pubblicitari, artisti ecc., ai criteri di commisurazione dei corrispettivi che riconosce a coloro i quali prestano a vario titolo la propria opera per l’emittente. Si tratta di attività delle quali la RAI deve rendere conto in modo trasparente, come soggetto finanziato dai contribuenti. Ma una volta che l’azienda abbia affidato un programma a giornalisti, affinché essi conducano inchieste, svolgano approfondimenti e mandino in onda servizi, i pervasivi poteri di verifica e controllo consentiti dalla legge n. 241 con l’istituto dell’accesso vengono meno. L’attività dei giornalisti, infatti, non è definibile come “amministrativa”.

Sostenere che l’attività del giornalista, in quanto svolta nell’ambito del servizio pubblico, sia sottoposta alla legge sul procedimento amministrativo e al relativo accesso - finalizzato ad «assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa» (Cons. Stato n. 4346/2017) – significherebbe qualificare il giornalismo come attività amministrativa, e pertanto reputarlo sottoposto alle regole che disciplinano tale attività. Più specificamente, ritenere i giornalisti sottoposti alla legge n. 241 sull’accesso, in quanto “incaricati di pubblico servizio” radiotelevisivo, vorrebbe dire che essi svolgono un servizio disciplinato nelle stesse forme della pubblica funzione, regolato «da norme di diritto pubblico e da atti autoritativi pur non essendo connotato da poteri autoritativi o certificativi» (Cassazione n. 4952/2020). Appare palese, anche solo intuitivamente, che l’attività del giornalista è tutt’altro: non è equiparabile a quella di altri incaricati di pubblico servizio, come gli addetti alla riscossione delle tasse automobilistiche (Cassazione n. 28424/2013), i portalettere e gli impiegati postali addetti alla regolarizzazione dei bollettini dei pacchi (Cassazione n. 46245/2012) ecc.. L’attività dei giornalisti non si svolge, e non potrebbe svolgersi, in regime amministrativistico (cui è soggetto, invece, l’editore RAI, come detto). Essa viene effettuata da parte di soggetti iscritti all’albo di un ordine professionale, che può anche valutarne la condotta e sottoporli a sanzioni; nonché nell’ambito di un regime speciale di tutela, dall’art. 21 della Costituzione, all’art. 10 della Carta europea dei diritti dell’uomo, ad altre disposizioni, quali ad esempio l’art. 200 del codice di procedura penale (segreto professionale).

Per altro verso, come accennato, ricondurre l’attività giornalistica nell’alveo di quella amministrativa, se svolta per il servizio pubblico radiotelevisivo, comporterebbe effetti di non poco conto: il giornalista subirebbe trattamenti differenziati a seconda che l'editore sia un soggetto pubblico o privato. Nel primo caso, gli atti da lui utilizzati sarebbero da considerare ostensibili, mentre non lo sarebbero nel secondo, non essendo la legge n. 241 applicabile al settore privato. In altri termini, si creerebbe una disparità tra i giornalisti della RAI e quelli di altre testate, depotenziando e, addirittura, pregiudicando l’attività dei primi. Chi fa un’inchiesta per un programma del servizio pubblico rischia di vedere “scoperchiato” il proprio lavoro ex post, mediante richieste di accesso agli atti che ha utilizzato per predisporlo, ciò al di là della tutela della “segretezza delle fonti”. Questo rischio disincentiverebbe i giornalisti dal lavorare per la RAI. E sarebbero disincentivati anche i loro informatori, cioè coloro i quali forniscono l’input per la realizzazione di inchieste, i quali potrebbero non sentirsi tutelati nella propria riservatezza.

Quindi, in conclusione, la RAI è sottoposta alla legge n. 241/90 quando svolge attività amministrativa. L’attività del giornalista è altro.

2) L’oggetto dell’accesso e le “fonti”

Merita un approfondimento l’oggetto dell’accesso, ossia ciò che i giudici ritengono che la RAI debba rendere “visibile” al ricorrente. Secondo il TAR, «va ritenuta suscettibile di ostensione nel caso in esame la documentazione connessa all’attività preparatoria di acquisizione e di raccolta di informazioni riguardanti le prestazioni di carattere professionale svolte dal ricorrente in favore di soggetti pubblici, confluite nell’elaborazione del contenuto del servizio di inchiesta giornalistica mandato in onda, nello specifico avente ad oggetto la rete di rapporti di consulenza professionale instaurati su incarico di enti territoriali e locali. La suddetta documentazione risulta costituita, in particolare, dalle richieste informative rivolte in via scritta dalla redazione del programma ad enti di natura pubblica in merito all’eventuale conferimento di incarichi ovvero di consulenze in favore di parte ricorrente, unitamente ai riscontri forniti dai suddetti enti, in quanto rientranti nel novero dei documenti e degli atti formati ovvero detenuti da una pubblica amministrazione o da un privato gestore di un pubblico servizio». Questo passaggio della sentenza risulta particolarmente critico. Da un lato, il riferimento agli “enti di natura pubblica” sembrerebbe limitare l’accesso ad atti pubblici veri e propri, resi cioè nelle formalità che caratterizzano l’attività tipica delle pubbliche amministrazioni. Ma l’oggetto dell’accesso consentito dai giudici sembra andare oltre gli atti “formali”, configurandosi come potenzialmente molto ampio. Infatti, nell’ambito della documentazione che la RAI dovrebbe rendere nota al richiedente, secondo il TAR, ci sono tutti i documenti e gli atti - rientranti nella «interlocuzione intercorsa con soggetti di natura pubblica» - non solo “formati”, ma anche “detenuti”, quindi teoricamente anche mail e altro. Peraltro, il fatto che il TAR utilizzi la locuzione «in particolare», relativamente agli atti da ostendere, anziché «limitatamente a», depone per un’interpretazione estensiva dell’oggetto dell’accesso.

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Sulla base di quanto esposto, risulta discutibile e non sufficientemente approfondita l’affermazione dei giudici per cui non c’è rischio per le “fonti” giornalistiche, intendendosi come tali quelle di cui alla legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista. Ai sensi di detta legge, giornalisti ed editori «sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse (…)». In altre parole – secondo i giudici - siccome gli interlocutori dei giornalisti di Report nel caso in esame hanno natura pubblica, e gli atti prodotti nell’ambito dell’interlocuzione hanno di riflesso la medesima natura pubblicistica, ne è automaticamente escluso il carattere fiduciario, confidenziale. Ma se, come spiegato, nell’ostensione rientra qualunque atto, anche informale (e non necessariamente illecito), scambiato tra enti pubblici e giornalisti, non può escludersi che, sia pure con eventuali omissis, dalla documentazione oggetto di accesso possano trarsi indicazioni circa eventuali “fonti” riservate. L’identità di queste ultime potrebbe essere desunta dagli elementi a disposizione, sia pure indirettamente, e ciò potrebbe menomare pro futuro quella fiducia che è presupposto indispensabile per la partecipazione a qualunque inchiesta, specie se svolta da un soggetto qualificato come la RAI.

Conclusioni

Quanto sopra affermato non lascia privo di tutela il cittadino di fronte al giornalista RAI. Infatti, se il primo ritiene di essere stato danneggiato da un servizio realizzato dal secondo, può inviare diffide e rettifiche, ricorrere in via penale o civile, dimostrando la non veridicità di quanto affermato dal servizio. E se nei giudizi penali e civili il giudice ritenesse necessario ottenere come prova gli atti, i documenti o le “fonti” del giornalista, ben potrebbe chiederne l’acquisizione al processo.

Insomma, il giornalista è sottoposto alla legge, per cui se qualcuno si ritiene leso ha gli strumenti per tutelarsi. Si tratta di rimedi che l'ordinamento prevede nei riguardi di chi svolge attività giornalistica per ogni editore, pubblico o privato, e non si vede la ragione per la quale la tutela apprestata in via generale non sia sufficiente a garantire anche nei riguardi della RAI. Far passare il principio che la giustizia amministrativa possa entrare nel merito dell’attività giornalistica è una prospettiva inquietante.

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