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Cosa cambia con il taglio dei parlamentari: questa riforma renderà il Parlamento più efficiente? E quali le ricadute sul sistema democratico?

13 Agosto 2019 12 min lettura

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Cosa cambia con il taglio dei parlamentari: questa riforma renderà il Parlamento più efficiente? E quali le ricadute sul sistema democratico?

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Aggiornamenti

Aggiornamento 18 agosto 2020: Domenica 20 e lunedì 21 settembre si voterà per il referendum (senza quorum) sul taglio dei parlamentari, inizialmente previsto per lo scorso 29 marzo ma poi rimandato per l’emergenza sanitaria di COVID-19. Negli stessi giorni, gli elettori saranno chiamati per il rinnovo di sette Consigli Regionali (Veneto, Liguria, Marche, Puglia, Toscana, Campania e Valle d’Aosta) e alcune amministrazioni comunali. Il 12 agosto, la Corte Costituzionale ha dichiarato infatti inammissibili i quattro conflitti di attribuzione sollevati sull’abbinamento del referendum alle elezioni regionali, sollevati dal Comitato promotore per il No, dalla Regione Basilicata, dal senatore (ex Movimento 5 stelle, ora gruppo misto) Gregorio De Falco e da +Europa.

La richiesta di sottoporre a referendum la riforma, tra le proteste del M5s, è sta promossa dai senatori Tommaso Nannicini del Partito Democratico e Andrea Cangini e Nazario Pagano di Forza Italia, che hanno raccolto e depositato lo scorso gennaio le firme di altri 71 senatori di diverse forze politiche, compresa la Lega.

Chi vota 'sì' al quesito del referendum approva l’entrata in vigore della legge che prevede il taglio dei parlamentari, mentre chi vota 'no' chiede l’abrogazione di quest’ultima.

La riforma del taglio dei parlamentari è stata sostenuta e portata avanti dal Movimento 5 stelle, che l’aveva inserita nel contratto dell’esecutivo “giallo-verde”. La Lega, nonostante abbia partecipato alla raccolta delle firme per la richiesta del referendum, ha annunciato che voterà sì al quesito, così come Fratelli d’Italia.

Caduto il primo governo Conte, nell’accordo della nuova maggioranza formatasi nel 2019 era previsto l’appoggio del Partito Democratico, ma vincolato all’avvio di un percorso di riforma del sistema elettorale. Recentemente, il segretario del PD Nicola Zingaretti ha ribadito la richiesta che prima del referendum venga approvata una nuova legge elettorale almeno da uno dei due rami del Parlamento. Alcuni esponenti del partito hanno dichiarato che senza riforma voteranno no.
All’interno di Forza Italia ci sono forti divisioni tra chi sostiene il sì e chi fa campagna per il no.

Aggiornamento 8 ottobre 2019: La Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva la riforma del taglio dei parlamentari.

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Manca un ultimo voto, alla Camera, e poi un eventuale referendum per rendere effettivo il disegno di legge costituzionale sostenuto dal Movimento 5 Stelle che punta a ridurre 345 seggi tra Camera e Senato. Lo scorso 11 luglio a Palazzo Madama la riforma era stata approvata, in terza lettura, dalla maggioranza di governo (M5s e Lega), più l’adesione di Fratelli d’Italia. Il Partito democratico e gli altri partiti di centro sinistra avevano invece votato contro, mentre Forza Italia non aveva partecipato al voto.

Questo disegno di legge era finito al centro del dibattito politico dopo la crisi di maggioranza voluta dalla Lega e la caduta del primo governo Conte. Quando il leader del Carroccio, Matteo Salvini, lo scorso 8 agosto aveva dato l’annuncio della rottura dell’alleanza e dell’esperienza di governo con i Cinque stelle, il capo politico del M5S, Luigi Di Maio, aveva proposto di votare anticipatamente questa riforma e poi di ridare «la parola agli italiani»: «Il mio è un appello a tutte le forze politiche in Parlamento (...)». A questa possibilità, Salvini aveva però risposto negativamente perché se «se passa questa legge non si va più a votare» in breve tempo.

Pochi giorni dopo, però, lo stesso Salvini aveva cambiato idea, annunciando che la Lega era pronta a votare il “il taglio di 345 parlamentari” e poi andare “subito alle elezioni”

Il voto favorevole a questa riforma coincideva anche con uno dei tre elementi della proposta avanzata alle forze politiche, in un’intervista al Corriere della Sera, dal senatore del Partito democratico, Matteo Renzi, poi passato al nuovo gruppo parlamentare "Italia Viva": non andare subito al voto, ma creare «un governo istituzionale che eviti l’aumento dell’Iva, che gestisca le elezioni senza strumentalizzazioni» e che appunto «permetta agli italiani di votare il referendum sulla riduzione dei parlamentari», dopo la sua definitiva approvazione in Parlamento. Per Renzi, la riforma era «incompleta e demagogica» ma, affermava, «hanno ragione loro (ndr il M5s) quando dicono che sarebbe un assurdo fermarsi adesso, a un passo dal traguardo. Si voti in Aula in quarta lettura e si vada al referendum: siano gli italiani a decidere».

La proposta di Renzi aveva però creato una crisi all’interno dello stesso Pd. Il segretario nazionale, Nicola Zingaretti, in un post sull’Huffington Post dal titolo “Con franchezza dico no”, ricordava prima di tutto che “il Partito Democratico in questi lunghi mesi ha escluso con toni diversi qualsiasi ipotesi di accordo con il Movimento 5 stelle”, e poi respingeva l’ipotesi di un “governo istituzionale”.

Alla fine, però, a inizio settembre, il Partito democratico e il Movimento 5 stelle, insieme ad altre formazioni politiche, hanno raggiunto un compromesso, deciso un programma composto da 29 punti, dato vita a una nuova maggioranza parlamentare e fatto partire un nuovo governo, guidato sempre da Giuseppe Conte.

Al punto 10 di questo programma si legge così che la nuova maggioranza avrebbe inserito "nel primo calendario utile della Camera dei deputati, la riduzione del numero dei parlamentari", ma che, contestualmente, sarebbe stato avviato "un percorso per incrementare le opportune garanzie costituzionali e di rappresentanza democratica, assicurando il pluralismo politico e territoriale. In particolare, occorre avviare un percorso di riforma, quanto più possibile condiviso in sede parlamentare, del sistema elettorale". Viene anche previsto di "procedere alla riforma dei requisiti di elettorato attivo e passivo per l’elezione del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, nonché avviare una revisione costituzionale volta a introdurre istituti che assicurino più equilibrio al sistema e che contribuiscano a riavvicinare i cittadini alle Istituzioni". Questo 'pacchetto' di riforme da accompagnare al taglio dei parlamentari è stato il risultato del compromesso raggiunto tra Pd e M5s per l'approvazione definitiva del disegno di legge costituzionale sostenuto dai cinque stelle.

Abbiamo così ricostruito cosa prevede nel dettaglio questa riforma di riduzione dei seggi parlamentari e quali sono i suoi possibili effetti, con un breve confronto anche con altri simili progetti di legge di governi passati.

La riforma di legge costituzionale, cosa prevede

Come spiega un dossier del Centro Studi della Camera dei deputati, il testo del disegno di legge –"risultante dall’unificazione di alcuni disegni di legge costituzionale d'iniziativa parlamentare" – prevede la riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e quella del numero dei senatori da 315 a 200 (qui è possibile vedere come a livello territoriale cambierà il numero dei parlamentari eletti). Quindi in totale si passerebbe da 945 parlamentari – una previsione introdotta dalla legge costituzionale n. 2 del 1963 – a 600.

Per modificare il numero dei seggi del Parlamento bisogna intervenire sulla Costituzione perché "in Italia, il numero dei parlamentari, dopo la revisione costituzionale del 1963", è determinato dagli articoli 56, 57 e 59 in numero fisso, "mentre in precedenza era determinato in rapporto alla popolazione" per far in modo "che il numero dei parlamentari potesse mutare con il variare della popolazione".

Il Ddl è composto da quattro articoli:

L'articolo 1 interviene sull’articolo 56 della Costituzione in cui si stabilisce che il numero dei deputati è 630, 12 dei quali eletti nella circoscrizione Estero. La modifica invece abbassa il numero complessivo a 400, con 8 deputati (anziché 12) eletti nella circoscrizione Estero.

L'articolo 2 modifica invece l'articolo 57, riducendo i seggi in Senato da 315 a 200. I senatori da eleggere nella circoscrizione Estero al Senato passano da 6 a 4.

L'articolo 3 si concentra sull’articolo 59 della Costituzione, stabilendo che "il numero complessivo dei senatori in carica nominati dal Presidente della Repubblica non può in alcun caso essere superiore a cinque". Questa modifica, si legge nel dossier del Centro Studi della Camera, "è finalizzata a sciogliere il nodo interpretativo postosi per i senatori a vita riguardo al vigente articolo 59 della Costituzione, cioè se il numero di cinque senatori di nomina presidenziale sia un 'numero chiuso' (quindi non possano esservi nel complesso più di 5 senatori di nomina presidenziale) oppure se ciascun Presidente della Repubblica possa nominarne cinque".

L'articolo 4, infine, prevede che la riduzione di deputati e senatori parta "dalla data del primo scioglimento o della prima cessazione delle Camere successiva alla data di entrata in vigore della legge costituzionale e, comunque, non prima che siano decorsi da essa sessanta giorni" (termine stabilito per consentire l’adozione del decreto legislativo in materia di determinazione dei collegi elettorali).

via Servizio Studi Parlamento

 

via Servizio Studi Parlamento

È necessario ricordare però che l'articolo 138 della Carta stabilisce che "le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione". Queste riforme, poi, "sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali". Se nel referendum, la legge ottiene il voto favorevole della maggioranza dei votanti (non esiste un quorum da raggiungere), allora viene promulgata. Non può essere richiesto un referendum, invece, se la legge "è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti", cioè a maggioranza qualificata. Ma non è questo il caso, perché la riforma nell'ultima votazione Senato non ha ottenuto i due terzi dei voti parlamentari.

Quanto si risparmia dal taglio dei seggi in Parlamento?

Secondo il Movimento 5 stelle la riforma, una volta approvata in via definitiva, porterebbe a un "risparmio" di 500 milioni di euro a legislatura (quindi ogni cinque anni). In base però ai calcoli effettuati dal sito di fact-checking Pagella politica sui bilanci di previsione dei due rami del Parlamento per il triennio 2018-2020, le risorse risparmiate (esclusi i risparmi indiretti su lungo termine che attualmente risultano difficili da stimare) sarebbero inferiori: "(...) Complessivamente, Camera e Senato, con 345 parlamentari in meno, risparmierebbero ogni anno circa 82 milioni di euro per un totale di circa 408 milioni di euro ogni cinque anni di legislatura".

Il Parlamento sarà davvero più efficiente?

Sempre secondo i Cinque stelle la riduzione del numero dei parlamentari porterà maggiore efficienza e velocità al Parlamento.

Nel corso dell'iter parlamentare del progetto di riforma sono stati ascoltati diversi esperti. Durante le audizioni sono emerse differenti aspetti di valutazione degli obiettivi e delle finalità del progetto di legge.

Carlo Fusaro, professore di Diritto Elettorale e Parlamentare presso l’Università di Firenze, ad esempio, ha dichiarato che si tratta di una riforma limitata alla riduzione del numero dei parlamentari, "con mantenimento – per il resto – di tutte le caratteristiche del bicameralismo indifferenziato instauratosi con la Costituzione del ’48, in particolare dopo la revisione costituzionale del 1963". Per quanto riguarda una possibile maggiore efficenza, il professore esprime un parere positivo: "La drastica riduzione del numero dei componenti è destinata a produrre non solo risparmi ma – a mio avviso, e diversamente da preoccupazioni avanzate da altri, (...) una generale maggiore efficienza e dunque, potenzialmente, maggiore prestigio dei due rami del Parlamento e un ruolo rafforzato di quest’ultimo". "Naturalmente – continua il professore – si porrebbe la questione di come eventualmente adeguare i due regolamenti (per esempio riducendo il numero attuale delle Commissioni, specie al Senato; valutando se ridurre ulteriormente il numero minimo dei componenti per la formazione di un Gruppo). Ma nel complesso la funzionalità delle due Camere e del Parlamento nel suo complesso ne dovrebbe comunque guadagnare". Sul punto è di parere opposto il costituzionalista Massimo Luciani che in un'intervista al Corriere della Sera afferma: «L' annunciata maggiore efficienza delle Camere non poggia su alcun elemento probatorio».

Per Fusaro, invece, un aspetto da non sottovalutare è il rapporto fra deputati e popolazione e fra senatori e popolazione che si "modificherebbe drasticamente": "Quanto alla rappresentatività, in media ogni deputato rappresenterebbe oltre 150.000 abitanti e ogni senatore oltre 300.000: accanto alla crescita indiretta di responsabilità e di prestigio, vanno però anche valutate le conseguenze sulla capacità effettiva di presenza sul territorio (cioè di esercizio reale della funzione rappresentativa), nonché gli effetti sulle campagne elettorali (a partire dai costi); quanto alla rappresentanza, va considerato che – anche al di là delle ricadute sulla vigente formula elettorale (caratterizzata da seggi uninominali e seggi proporzionali: i primi, in particolare, – ove proporzionalmente ridotti sarebbero espressi da un numero ancor più alto di elettori in collegi ben più grandi di quelli, già grandi, attuali) – vi potrebbe essere indirettamente una ricaduta in termini di implicito sbarramento alla rappresentanza (ciò può non essere un male e dipenderebbe dalla formula: ma si tratta di esserne avvertiti)".

Inoltre, in base a quanto riferito da Gianluca Passarelli, docente di Scienza Politica e Politica Comparata alla Sapienza di Roma, intervenire sul numero di deputati e senatori, lasciando invariato il sistema elettorale "genererebbe una grande distorsione nel rapporto elettori-eletti, una probabile crescita del costo delle campagne elettorali nonché una selezione di candidature ed eletti da queste derivanti".

Per il professore Paolo Carrozza della Scuola superiore Sant'Anna, poi, la riduzione dei parlamentari avrebbe come possibile conseguenza una semplificazione del sistema politico, "ma non anche una maggiore governabilità o chiarezza nella determinazione della maggioranza, poiché la natura bipolare o frammentata del sistema non è governata solo dal numero dei parlamentari, ma anche da altri meccanismi affidati alla legislazione elettorale (...) o addirittura ai regolamenti parlamentari". Il risultato, invece, sarebbe quello di "rafforzare le segreterie (o organismi dirigenti) centrali dei partiti, a scapito del peso delle rispettive rappresentanze territoriali" questo perché "aumentare il rapporto tra numero di eletti ed elettori significa anche aumentare la loro 'reciproca' distanza, allontanare sempre di più dal territorio, dalla 'base', gli eletti". Un esito che non sarebbe "né un bene né un male in sé", ma che "andrebbe valutato e commisurato in relazione alla situazione generale del paese".

Come abbiamo visto, il nuovo governo a maggioranza Pd-M5s ha deciso di accompagnare il taglio dei parlamentari e bilanciare i suoi possibili effetti o distorsioni con una serie di riforme, tra cui anche una nuova legge elettorale. Per il costituzionalista Luciani, però, questa modalità di lavoro presenta dei rischi: «Se, come conseguenza di questa riforma, occorre mettere mano alla Costituzione, alla legge elettorale e ai regolamenti parlamentari, io mi domando: perché correre con il taglio dei seggi? Non ho ragione di augurarmi il fallimento di questa maggioranza, ma, se per caso il governo dovesse cadere, esiste il rischio concreto di rimanere appesi a una riforma che, per ammissione dei suoi stessi sostenitori, sarebbe malfunzionante senza i correttivi. Per evitare sorprese, il "pacchetto" di riforme andrebbe varato in un' unica soluzione».

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I tentativi precedenti di riforma del numero dei parlamentari

Il Centro Studi della Camera ripercorre anche le varie proposte di modifica del numero di deputati e senatori pensate e avanzate nel corso del tempo. Negli anni '80, "emerge che una riduzione del numero dei parlamentari fu discussa già entro la Commissione parlamentare bicamerale istituita ad hoc nella IX legislatura". Il dibattito però non portò alla formulazione di una proposta. Nel decennio successivo, la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali (conosciuta anche come "Commissione D'Alema") esaminò un progetto di legge che prevedeva tra 400 e 500 deputati e 200 senatori elettivi. Nel 2006, dopo che il Parlamento aveva approvato in via definitiva un disegno di legge costituzionale in cui era prevista una Camera di 518 deputati (elettivi) e un Senato di 252 senatori, un referendum, svoltosi il 25-26 giugno, non approvò la riforma. Altri simili progetti di legge furono analizzati anche negli anni successivi.

Tre anni fa, infine, fu approvato dal Parlamento, durante il governo guidato da Matteo Renzi, il testo di riforma costituzionale che tra le altre cose, prevedeva una Camera inalterata nella sua composizione di 630 deputati e un Senato di 95 senatori, rappresentativi delle istituzioni territoriali (Regioni e Comuni), eletti con un'elezione di secondo grado: dovevano cioè essere eletti dai Consigli regionali e da quelli delle province autonome di Trento e di Bolzano, con metodo proporzionale, tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori. Questo progetto di riforma, però, non ottenne la maggioranza nel referendum del 4 dicembre 2016 e fu respinto. Un risultato che portò alle dimissioni di Renzi e alla fine del suo governo.

Foto in anteprima via Ansa

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