È una notizia positiva, necessaria e attesa da tempo.
La guerra tra le Forze di Supporto Rapido e le Forze Armate Sudanesi (SAF) sta devastando il Sudan dall'aprile dello scorso anno. Sebbene non abbia ricevuto l'attenzione dei media internazionali che merita, ne abbiamo parlato spesso, in particolare di ciò che sta accadendo nella regione del Darfur.
Abbiamo evidenziato le atrocità commesse da entrambe le parti, come la tortura e l'esecuzione sommaria delle persone in custodia.
Le Forze di Supporto Rapido e le milizie alleate hanno massacrato e terrorizzato intere comunità nel Darfur occidentale. Saccheggi e incendi dolosi vanno di pari passo con uccisioni e stupri. Hanno attaccato infrastrutture civili critiche, come ospedali e mercati. Hanno raso al suolo interi quartieri.
Gli attacchi delle RSF non sono casuali. Sono mirati su base etnica e si concentrano prevalentemente sulle comunità non arabe, in particolare sull'etnia masalit.
Le Forze di Supporto Rapido sono in gran parte reclutato dai vecchi janjāwīd, le milizie note per i loro terribili crimini contro i gruppi non arabi, compresi i masalit, nel 2003-2004. Le milizie alleate delle Forze di Supporto Rapido sono principalmente arabe.
In breve, le Forze di Supporto Rapido si sono rese responsabili di crimini di guerra, crimini contro l'umanità e pulizia etnica.
Per più di un anno e mezzo, la comunità internazionale ha fatto poco per affrontare la situazione in Sudan. Le nuove sanzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sono un primo passo positivo.
Il Consiglio di Sicurezza ha imposto un divieto di viaggio internazionale e il congelamento dei beni a due persone: Osman Mohamed Hamid Mohamed, capo delle operazioni della RSF, e Abdel Rahman Joma'a Barakallah, comandante della RSF nel Darfur occidentale.
È una buona notizia, anche se, data la portata del massacro in Sudan, non è sufficiente. Questo conflitto ha costretto più di mezzo milione di persone a fuggire oltre il confine con il Ciad. Ha sfollato 11 milioni di persone all'interno del Sudan, la più grande crisi di sfollamento interno del mondo. Alcune zone del Darfur rischiano la carestia.
Si spera che queste nuove sanzioni dell'ONU siano solo l'inizio e che altri abusatori si aggiungano alla lista.
Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve anche estendere l'embargo sulle armi al Darfur per coprire l'intero Sudan. Dall'inizio del conflitto, nuove armi provenienti da aziende registrate in Cina, Iran, Russia, Serbia ed Emirati Arabi Uniti hanno continuato ad arrivare nelle mani delle Forze di Supporto Rapido e delle Forze Armate Sudanesi e probabilmente saranno utilizzate per altri crimini.
La comunità internazionale ha ancora molto da fare per contribuire a fermare il massacro in Sudan.
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]]>In poco più di un mese si è abbondantemente superato il numero delle vittime – 15.550 - calcolato a un anno esatto dall’inizio del conflitto (15 aprile 2023). E tuttavia, secondo l’Armed Conflict Location & Event Data Project (ACLED) e altri esperti questi numeri sono notevolmente sottostimati, a causa della difficoltà nel raccogliere dati accurati e in tempo reale. Il numero degli sfollati è pari quasi a 11 milioni di persone, quelli interni ha raggiunto l’impressionate cifra di 8,8 milioni, vale a dire dall’inizio del conflitto solo poco più di 2 milioni di persone sono riuscite a trovare rifugio in paesi confinanti. E questo ne fa la più grande crisi umanitaria al mondo con il serio rischio di carestia, più volte sottolineato dalle agenzie umanitarie. L'economia ha subìto una contrazione del 40% nel 2023 e la previsione è di un ulteriore calo del 28% nell’anno in corso.
Infine, molte sono le influenze esterne in questo conflitto, alcune più chiare ed evidenti, altre più occulte e contorte. Influenze che si evidenziano prevalentemente sotto forma di aiuti militari alle due parti che si contendono il potere: le Forze Armate sudanesi (SAF) con a capo il generale Abdel Fattah al-Burhan e le Forze paramilitari di supporto rapido (RSF) guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemeti. Egitto e Iran forniscono armi alle SAF, gli Emirati Arabi Uniti alle RSF. L’Eritrea garantisce campi di addestramento a gruppi armati associati alle SAF. Mentre forze speciali ucraine stanno combattendo contro le RSF e i mercenari russi a Khartoum, allo scopo di creare problemi a Mosca ma anche in cambio della fornitura di armi da parte delle SAF all'Ucraina. E questo mentre il governo di transizione sudanese firma accordi economici e militari con la Russia, incluso un supporto logistico navale nel mar Rosso. Quindi, nonostante il sostegno dei mercenari russi alle forze opposte.
E l’Unione Europea? Qualche mese fa il Consiglio dell’UE ha sanzionato sei entità "responsabili del sostegno ad attività che minano la stabilità e la transizione politica del Sudan", alcune sono società che producono armi e veicoli impegnati nel conflitto. Assai poca cosa rispetto al giro di armi a cui possono accedere i belligeranti. Ma la cosa più seria è una certa dose di responsabilità delle politiche europee nell’aver supportato il rafforzamento delle RSF – attraverso programmi di respingimento dei migranti e di controlli delle frontiere, in particolare dal Sudan verso l’Egitto e la Libia, firmati con l’allora presidente del Sudan, il dittatore Oman al-Bashir, come ricorda l’SWP, Istituto tedesco per gli affari internazionali e la sicurezza.
L’accordo aveva garantito il necessario sostegno economico e quella sorta di “autorizzazione politica” a usare ogni mezzo per combattere le migrazioni verso l’Europa. Ma quel ogni mezzo si è trasformato in superpoteri per le milizie guidate da Hemeti, poi denominate Forze di Supporto Rapido ma che derivano dai famigerati Janjaweed, milizie arabe note per le atrocità compiute in Darfur. Questa provincia della parte occidentale del Sudan nel 2003 aveva cominciato azioni di ribellione contro il governo centrale accusato di “disattenzione politica ed economica” nei confronti della parte non araba del paese.
Negli anni si è parlato di genocidio nei confronti degli abitanti del Darfur, termine che oggi ritorna prepotentemente, poiché la parte peggiore del conflitto in corso in Sudan si è spostato proprio in quella regione. E tutto questo nella evidente impotenza del resto del mondo. ACLED lo ricordava poco tempo fa che “la violenza mirata in Darfur aveva il doppio delle probabilità di essere mortale per i civili rispetto agli stati del Sudan”.
Così è. Nella regione sarebbero in corso veri e propri attacchi di pulizia etnica con l’assedio in corso della capitale El Fasher. Un “inferno sulla terra”, secondo le parole di alcuni funzionari delle Nazioni Unite. Nei dati aggiornati dell’OCHA (Ufficio Affari Umanitari delle Nazioni Unite) si parla di 800.000 civili sotto assedio e di centinaia di famiglie sfollate. E all'El Fasher South Hospital, l'unico ospedale funzionante, sono rimaste scorte solo per circa dieci giorni.
Secondo notizie fornite da Sudan Tribune il bombardamento del campo per sfollati interni di Abu Shouk da parte delle RSF, ha costretto circa il 60% dei suoi 400.000 residenti ad abbandonare le proprie dimore. Inoltre, più di una dozzina di camion che trasportano aiuti per più di 121.000 persone stanno cercando di raggiungere El Fasher da più di un mese, ma il perdurare delle azioni armate non consente i movimenti interni.
La violenza si sta abbattendo soprattutto nei confronti della popolazione Massalit (altre popolazioni non arabe sono i Fur e i Zaghawa), come evidenziato dal recente report di Human Rights Watch che non esita a parlare di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Allontanamenti forzati, torture, stupri sono all’ordine del giorno ed è assai difficile avere numeri accurati. Sempre Sudan Tribune riporta di una campagna dedicata alla lotta allo stupro e alla violenza sessuale in Sudan che ha documentato 377 casi di stupro dall’inizio del conflitto, inclusi 131 casi che coinvolgono giovanissime. E la maggior parte di tali azioni criminose è avvenuta nel Darfur.
Il rapporto sottolinea però – ancora una volta - che tali crimini sono sottostimati sia a causa delle difficoltà di comunicare all’interno del paese sia a causa della natura conservatrice della società sudanese e dello stigma associato alla violenza sessuale. Ci si prova a raccontare quello che succede con le testimonianze delle persone coinvolte ma non certo facili da raggiungere, con i report e le analisi delle ONG e con le immagini satellitari. Un lavoro investigativo condiviso in open source sui social che mostra la gravità della situazione: i villaggi distrutti, i civili sfollati, i paramilitari armati fino ai denti. Evidenze che rendono ancora più drammatica l’incapacità di intervento – e in certo senso l’impossibilità viste le tante forze direttamente o indirettamente coinvolte nel conflitto - della comunità internazionale.
Attraverso la geolocalizzazione lavora anche Sudan Witness che sta in questi ultimi giorni registrando un incremento di intercettazioni di immagini (centinaia) di incendi, villaggi, città e aree devastate che corrispondono all’intensificarsi dell’offensiva sulla capitale del Darfur.
E così mentre l’attenzione dell’occidente – e della stampa occidentale - è rivolta ai conflitti in corso in Ucraina e Gaza, una milizia genocidaria sta guadagnando terreno nel paese e ora sta raggiungendo tutto il Nord del Darfur. La regione confina con il Chad, uno dei paesi che – insieme all’Egitto, dove si sono riversati soprattutto profughi provenienti dalla capitale, Khartoum – accoglie il numero più alto di rifugiati che risultano, però, praticamente abbandonati a se stessi nei campi allestiti in tutta fretta per dar loro riparo. È attraverso il Chad, tra l’altro, che gli Emirati inviano armi e assicurano trattamenti medici alle RSF.
Non sono così fortunati i civili. Già da gennaio scorso Medici senza Frontiere parlava di un sistema sanitario sull’orlo del collasso a Khartoum mentre man mano che prosegue l’avanzata delle milizie ci si trova costretti a lasciare i presidi medici. La cosa peggiore è che gli ospedali sono presi di mira da entrambe le forze sul campo – così come sono presi di mira gli operatori sanitari. Finora - ma anche in questo caso sono cifre sottostimate – nel paese sono stati segnalati circa 60 attacchi contro strutture sanitarie, molte occupate dall’una o dall’altra parte del conflitto, e il resto presenta carenze di farmaci e problemi di sicurezza; sono state inoltre registrate più di 200 violazioni contro il personale medico e 38 operatori sanitari sono rimasti uccisi.
La conseguenza di uccisioni, rapimenti e aggressioni a danno dei medici – si denuncia in questo paper a firma di due docenti e ricercatori dell’università di Khartoum – è oggi un’enorme carenza di personale nelle poche strutture a malapena funzionanti. E man mano che il conflitto diventa più feroce e senza regole anche la stampa ne subisce le conseguenze. Non solo in termini di azioni violente – uccisioni, rapimenti, detenzioni – ma creando condizioni in cui è impossibile lavorare. Blackout, interruzione di canali o trasmissioni televisive e controllo di alcune stazioni hanno creato una sorta di nebulosa sugli accadimenti in Sudan. La tecnologia – come dicevamo facendo riferimento alle ricostruzioni possibili grazie alle immagini satellitari - supplisce alla carenza di reportage in diretta. Immagini sufficienti comunque a non lasciare dubbi su una tragedia che sembra non vedere una via d’uscita.
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]]>Per gli attivisti che da un anno gestiscono la mensa di El Fasher, capitale regionale del Sudan, l'ultimo allarme delle Nazioni Unite sulla "fame catastrofica" è stato come se qualcuno avesse finalmente trovato le parole giuste per descrivere la brutalità della situazione.
Per mesi gli attivisti non sono stati in grado di raccogliere fondi o reperire il cibo. Hanno solo potuto restare a guardare mentre le scorte diminuivano.
"Alla fine, il 15 febbraio abbiamo finito il cibo e da allora non siamo più riusciti a sfamare nessuno", ha dichiarato a Deutsche Welle uno degli attivisti. Hanno chiesto di non rendere noto il loro nome per timore di ritorsioni; la regione che circonda la città è attualmente teatro di scontri molto violenti.
La chiusura della mensa significa che molte famiglie sudanesi della zona sono rimaste senza nemmeno un pasto al giorno, ha detto l'attivista a DW.
Dall'inizio del conflitto in Sudan, un anno fa, mense e altre iniziative a livello nazionale gestite dalle comunità, conosciute anche come sale di risposta alle emergenze (ERR), sono state un'ancora di salvezza fondamentale per la popolazione.
Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, le ERR hanno raggiunto più di quattro milioni di civili con assistenza rapida di tutti i tipi, tra cui scorte d'acqua, cibo, pasti cucinati e assistenza medica; hanno aiutato a riparare le linee elettriche danneggiate e hanno garantito percorsi di evacuazione sicuri.
"Alcune forme di assistenza umanitaria sono state fornite dai soccorritori locali, come queste sale di emergenza", ha dichiarato a DW Michelle D'Arcy, direttore per il Sudan dell'organizzazione umanitaria Norwegian People's Aid.
Questi volontari stanno servendo la loro comunità in uno spirito di aiuto reciproco e nell'ambito di tradizioni culturali sudanesi come il "Nafeer", che invita a unirsi e ad aiutare i vicini; tuttavia, per quanto nobili siano questi sforzi, non sono sufficienti per affrontare le enormi necessità sul campo".
Il brutale conflitto tra le Forze armate sudanesi, o SAF, guidate dal generale Abdel-Fattah Burhan, e le Forze paramilitari di supporto rapido, o RSF, guidate dal vice di Burhan, il generale Mohammed Dagalo, meglio conosciuto come Hemeti, si è inasprito nell'aprile 2023 per l'integrazione delle RSF nell'esercito del paese.
Da allora, i due generali sono in lotta per il controllo del paese - un conflitto il cui prezzo è l'ultima e più grande crisi umanitaria del mondo.
Secondo il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite circa 18 milioni di persone in Sudan, ovvero più di un terzo della popolazione, si trovano ora ad affrontare una grave insicurezza alimentare.
Tra le persone colpite ci sono 14 milioni di bambini che hanno bisogno di aiuti umanitari, ha dichiarato a marzo Mandeep O'Brien, rappresentante dell'UNICEF in Sudan.
11 months, brutal war #Sudan
— Mandeep O’Brien (@MandeepOBrien) March 15, 2024
14 million children need humanitarian aid. 4 million displaced. Millions hungry & acute malnourished
Small window left to prevent mass loss of children lives & future
We need a ceasefire, unhindered access & more resources NOW #ForEveryChild pic.twitter.com/cfl5usczcy
Il Cluster per la nutrizione in Sudan, una partnership di organizzazioni internazionali e ministeri, ha reso noto che più di 2,9 milioni di bambini sono gravemente malnutriti - la forma più pericolosa e mortale di fame estrema. Ha inoltre previsto che circa 222 mila bambini gravemente malnutriti e più di 7 mila neo mamme rischiano di morire nei prossimi mesi se i loro bisogni nutrizionali e sanitari non saranno soddisfatti.
Il Sudan affronta anche la peggiore crisi di sfollamento al mondo: secondo l'Organizzazione internazionale per le migrazioni, circa 8 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case. Migliaia di persone sono state uccise.
Nonostante questa grave situazione umanitaria, nessuna delle due parti in lotta è disposta a consentire l'accesso completo e senza ostacoli alle organizzazioni umanitarie e alle merci.
UN Security Council will hear a briefing on the increasing food insecurity in #Sudan today. Despite recent announcements by SAF to re-open some border crossings, this has not happened yet. RSF forces loot warehouses meanwhile. https://t.co/6Oo8l047QJ
— Gerrit Kurtz (@GerritKurtz) March 20, 2024
"Mi dispiace comunicare che non ci sono stati grandi progressi sul campo", ha dichiarato questa settimana il direttore delle operazioni umanitarie dell'ONU, Edem Wosornu, al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
"Diversi aspetti complicano la creazione di corridoi per gli aiuti umanitari e la creazione di zone demilitarizzate", ha dichiarato a DW Hager Ali, ricercatore presso il think tank tedesco GIGA Institute for Global and Area Studies.
"Per sabotare le Forze armate sudanesi, le Forze di supporto rapido occupano strade specifiche o punti di strozzatura per bloccare il flusso di rifornimenti alle truppe e questo coincide anche con le linee di rifornimento non militari", ha detto Ali.
"Le RSF saccheggiano regolarmente tutto ciò su cui riescono a mettere le mani e lo vendono invece di distribuirlo alle comunità", ha detto a DW.
Le SAF controllano e bloccano anche l'accesso degli aiuti umanitari nei territori controllati dalle RSF, ha aggiunto Ali. Se nulla cambierà, la situazione peggiorerà ulteriormente nel prossimo futuro, ha avvertito Ali.
Gli agricoltori sono stati costretti ad abbandonare i campi per fuggire dalla guerra e ora non sono in grado di lavorare in vista della stagione di magra a maggio - che è il periodo che precede il primo raccolto - a causa dei combattimenti in corso.
"Una delle tattiche insidiose della guerra della Rsf è la fame, e questo è ciò che sta accadendo nello Stato di Jazeera", ha detto Ali a DW, riferendosi allo Stato federale del Sudan sudorientale, dove si produce quasi la metà della produzione totale di grano del Sudan.
"Quando la Rsf ha preso il controllo, ha bruciato i raccolti e saccheggiato i magazzini, ha rubato i macchinari per l'agricoltura e persino le sementi per la semina", ha detto Ali, aggiungendo che "hanno anche ricattato gli agricoltori, imponendo loro di scegliere se farsi reclutare o essere giustiziati".
Hamid Khalafallah, analista politico sudanese, teme che la situazione in alcune aree, come nello Stato di Gezira, nel Darfur settentrionale - dove si trova Al-Fāshir- e nella capitale Khartum, sia ancora più disperata di quanto le agenzie internazionali ritengano.
"I cittadini delle aree più colpite non sono in grado di riferire o fornire prove a causa dei rischi per la sicurezza e del blackout di Internet", ha dichiarato Khalafallah a DW. Da febbraio, l'accesso a Internet in tutto il Sudan è stato limitato o completamente interrotto. "Questo significa anche che la popolazione non è in grado di ricevere denaro dalle proprie famiglie o dall'estero tramite trasferimenti di denaro mobile", ha dichiarato a DW.
A causa della guerra, tutte le transazioni economiche in Sudan sono diventate prive di contanti. "Nessuno paga in contanti; tutti si affidano alle transazioni online per acquistare o vendere beni", ha detto Khalafallah.
Per chi lavora per alleviare la crisi umanitaria del Sudan, il prossimo barlume di speranza è la conferenza dei donatori che si terrà a metà aprile a Parigi. Il bisogno del paese rimane grande: Il piano di risposta umanitaria delle Nazioni Unite di quest'anno, pari a 2,7 miliardi di dollari, è stato finanziato solo per il 4%, con 131 milioni di dollari ricevuti.
Eppure, nonostante le sfide, gli attivisti della mensa di El Fasher non si sono arresi. "Il nostro comitato continuerà a scrivere proposte alle organizzazioni umanitarie e non governative, e speriamo che prima o poi i finanziamenti riprendano", hanno detto a DW.
Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube
]]>I colloqui di pace sono in un vicolo cieco: le parti in conflitto non hanno interesse a raggiungere una tregua, il loro unico interesse è cercare di consolidare il proprio potere, avvertono le Nazioni Unite. E intanto la distruzione di insediamenti e infrastrutture, che si aggiunge alla devastazione generale causata dal conflitto, sta provocando ondate massicce di sfollamenti e violazioni dei diritti umani.
“I combattimenti più cruenti si stanno svolgendo intorno alla capitale Khartoum e nel Darfur”, spiega a DW Ahmed Soliman, ricercatore sul Corno d'Africa presso il think tank londinese Chatham House.
Secondo gli ultimi dati pubblicati dall'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), più di 3 milioni di persone sono state costrette a fuggire in questi tre mesi di conflitto. Tra questi, spiega ancora Soliman, due milioni sono sfollati interni, più della metà minori. Almeno 180.000 persone sono state costrette a cercare sicurezza nel vicino Ciad, soprattutto quelle in fuga dalle violenze nel Darfur, dove è stata rinvenuta una fossa comune contenente i resti di almeno 87 persone, anche della popolazione non araba dei Masalit, la comunità più popolosa della città, secondo quanto dichiarato dalle Nazioni Unite. Il che contribuisce a rendere questo conflitto ancora più esplosivo, aggiunge Soliman, poiché la violenza nel Darfur è di natura etnica e segue dei modelli ciclici. Nel 2003 più di 300.000 persone sono state uccise e 2,5 milioni sono state sfollate, quando il governo centrale diede il potere alle RSF di combattere le tribù non arabe in rivolta, in quello che è considerato il primo genocidio del XXI secolo.
Venti anni dopo la storia sembra tornare a ripetersi nelle medesime modalità. Prima gli aggressori hanno assediato la città, bruciando il mercato principale e impedendo l'ingresso di cibo e forniture mediche. Poi i miliziani hanno proceduto metodicamente a distruggere qualsiasi cosa - ospedali, scuole, elettricità e telecomunicazioni - di cui la popolazione di El-Geneina potesse avere bisogno per sopravvivere. “È stato un atto sistematico”, afferma a The Economist Nathaniel Raymond, osservatore del conflitto presso l'Università di Yale.
Il 14 giugno il governatore del Darfur occidentale aveva lanciato un appello per un intervento straniero per fermare quello che aveva definito “un genocidio”. Il giorno dopo è stato assassinato in quello che Raymond non ha esitato a definire un “omicidio totemico in stile Isis”, riferendosi ai jihadisti che scelgono i principali oppositori da assassinare in Medio Oriente e in Africa. Nelle 48 ore successive, migliaia di persone hanno tentato la fuga, altrettante – si parla di un bilancio che va dalle 1.100 alle 5.000 vittime – sono state uccise.
I rifugiati di El-Geneina raccontano di miliziani arabi armati che vanno di porta in porta e sparano a giovani uomini morti sul posto. Sulla strada verso il Ciad, altri miliziani armati ai posti di blocco improvvisati hanno derubato e sparato ai civili in fuga dalla morte.
Un'associazione di medici del Darfur, che monitora la situazione, ha paragonato l'intensità della violenza ai massacri del genocidio ruandese del 1994. Medici Senza Frontiere ha definito El-Geneina “uno dei posti peggiori della Terra”.
“Questa è la peggiore guerra che ho visto in 20 anni di lavoro come operatore umanitario”, dice Justine Muzik di Solidarités International, un'organizzazione umanitaria con sede in Francia, che si trovava a El-Geneina alla fine di giugno. I video diffusi sui social media mostrano combattenti che pronunciano insulti etnici e si vantano di aver trasformato l'area in una zona araba. Volker Perthes, rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Sudan, ha descritto la guerra nel Darfur occidentale come una “pulizia etnica su larga scala”.
All’epoca, il governo di Omar al-Bashir armò mandriani arabi nomadi contro la ribellione di tribù di contadini africani, come i Masalit. Queste milizie di mandriani arabi, famose per gli stupri e il saccheggio dei villaggi, sono diventate note come Janjaweed: "Diavoli a cavallo, guidati da Dagalo, attuale leader delle RSF", scrive The Economist. Dagalo aveva trasformato i Janjaweed nelle attuali RSF e ora aspira a governare il Sudan.
I Janjaweed di oggi utilizzano tattiche, tecniche e procedure identiche a quelle degli anni Duemila. Hanno cambiato solo come si muovono: non vanno più a cavallo e poco armati, “si spostano molto velocemente, nascosti sul retro di camioncini e usano armi letali”, dice un operatore delle Nazioni Unite a The Economist.
Today's update [June 12] is an urgent message to all those following events in Sudan, particularly those of the intl community involved in efforts to "resolve" the situation -- from the US/KSA to IGAD to the AU/UN:
— Munchkin (@BSonblast) June 13, 2023
A genocide is taking place in West Darfur. #KeepEyesOnSudan
L’UNHCR ha affermato di essere in possesso di “informazioni credibili” che attribuiscono alle RSF la responsabilità delle uccisioni, risalenti allo scorso giugno. Tra le vittime anche sette donne e sette bambini, uccisi nella capitale del Darfur occidentale, El-Geneina, tra il 13 e il 21 giugno. Le RSF avrebbero costretto la popolazione a seppellire i corpi alla periferia della città, secondo l'ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani.
“Condanno con la massima fermezza l'uccisione di civili e sono ulteriormente sconcertato dal modo insensibile e irrispettoso in cui sono stati trattati i morti, le loro famiglie e le loro comunità”, ha dichiarato l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk in un comunicato. Türk ha chiesto “un'indagine rapida, approfondita e indipendente sulle uccisioni” e ha affermato che i colpevoli saranno chiamati a risponderne.
Le RSF hanno negato ogni responsabilità rispetto “agli eventi nel Darfur occidentale, poiché non siamo parte in causa e non siamo stati coinvolti in un conflitto di natura tribale". Ma può essere difficile distinguere i suoi combattenti dagli attuali Janjaweed. Un'altra fonte delle RSF ha dichiarato alla Reuters che le accuse nei loro confronti sono di natura politica e provengono dai Masalit e di altri e che, in caso di accertamento di responsabilità, consegneranno tutti i combattenti che avranno violato la legge.
La Corte penale internazionale (CPI) ha avviato un’indagine dopo le segnalazioni di esecuzioni sommarie, incendi di case e mercati e saccheggi a El-Geneina, e l'uccisione e gli sfollamenti forzati di civili nel Darfur settentrionale e in altre località del Darfur. Inoltre, la CPI sta esaminando le accuse di crimini sessuali e di genere, tra cui stupri di massa e presunte segnalazioni di violenze contro minori.
Sebbene secondo una risoluzione del 2005 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la giurisdizione della CPI sia limitata alla regione del Darfur, la Corte intende procedere con l’inchiesta. La CPI ha quattro mandati di arresto in sospeso relativi ai precedenti combattimenti in Darfur dal 2003 al 2008, tra cui uno contro l'ex presidente sudanese Omar al-Bashir con l'accusa di genocidio.
Il conflitto in Sudan è scoppiato a metà aprile, dopo mesi di crescenti tensioni tra l'esercito, presieduto dal generale Abdel Fattah Burhan, e le RSF, guidate dal generale Mohammed Hamdan Dagalo. Gli scontri sono iniziati 18 mesi dopo che i due generali avevano guidato il colpo di Stato militare nell'ottobre 2021, rovesciando un governo civile di transizione sostenuto dall'Occidente. Gli osservatori temono che l'intera regione sia a rischio di destabilizzazione.
Tutti i tentativi di riportare la situazione alla calma sono falliti. I cessate il fuoco tra le parti in conflitto sono stati ripetutamente infranti e i tentativi di mediazione non hanno dato alcun risultato. Il 10 luglio, l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo dell'Africa orientale (IGAD) ha invitato le parti a partecipare a un vertice di pace nella capitale etiope, Addis Abeba. Ma né Burhan né Dagalo hanno partecipato all'incontro. La RSF ha inviato un rappresentante al vertice, mentre il governo sudanese ha rifiutato di partecipare all'evento.
Il Ministero degli Esteri sudanese ha accusato il Kenya di essersi schierato con le RSF nel conflitto, “dando rifugio ai suoi membri e offrendo varie forme di sostegno”, e ha affermato che che il governo non sarà disposto a partecipare ai colloqui di pace finché il Kenya non rinuncerà alla presidenza degli Stati mediatori regionali.
Anche i colloqui di pace di maggio a Gedda, in Arabia Saudita, non hanno prodotto risultati, riducendo ulteriormente le speranze di una ricomposizione del conflitto tra le due fazioni. I motivo è presto spiegato, commenta Soliman: la priorità di entrambe le parti è ottenere una cattura militare strategica dell'avversario piuttosto che deporre le armi.
In questi giorni era in corso un nuovo vertice, ospitato questa volta dall'Egitto. Il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, forte dei suoi legami storicamente stretti con l’esercito sudanese, ha presentato il suo piano per porre fine al conflitto: un cessate il fuoco di tre mesi, canali sicuri per gli aiuti umanitari e comunicazioni tra le fazioni in lotta. “Tutti i nostri fratelli in Sudan devono convergere verso l'interesse supremo che è tenere la politica e l'unità del Sudan lontane da interferenze esterne”, ha dichiarato el-Sisi. Al vertice hanno partecipato i leader di Repubblica Centrafricana, Ciad, Eritrea, Etiopia, Libia e Sud Sudan. Il gruppo ha anche discusso l'invio di truppe in Sudan per proteggere i civili.
Il piano egiziano è stato accolto con favore dalla maggior parte dei presenti, anche se il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, ha chiesto un allineamento alla proposta di mediazione presentata il 10 luglio dall’IGAD. Negli ultimi anni, Etiopia ed Egitto hanno avuto relazioni tese a causa di un conflitto per una diga costruita dall'Etiopia sul Nilo Azzurro.
L'Egitto è particolarmente interessato affinché i combattimenti in Sudan si tengano almeno il più lontano possibile dal proprio territorio. I leader egiziani temono per la sicurezza dei suoi confini, l'integrità territoriale, la sovranità e la salute della propria economia, e vorrebbero che il conflitto sudanese si concludesse senza una vittoria del capo delle RSF, Dagalo.
Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube
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