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La Svezia, l’ingresso nella NATO e le pressioni della Turchia per l’estradizione dei curdi

30 Gennaio 2023 16 min lettura

La Svezia, l’ingresso nella NATO e le pressioni della Turchia per l’estradizione dei curdi

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«Se parli di libertà e diritti, allora per prima cosa dovresti mostrare rispetto verso il credo religioso dei musulmani e del popolo turco. Se non mostri tale rispetto, allora non puoi vedere nessun tipo di supporto da noi sulla NATO». Lo ha dichiarato il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan lunedì 23 gennaio, dopo che sabato a Stoccolma è stato – tra le altre cose – bruciato un Corano di fronte all’ambasciata turca. Ma andiamo con ordine, perché il rogo del Corano è solo l’ultima battuta di un lungo crescendo rossiniano.

Nel 1946 uno dei più grandi scrittori del Novecento, Stig Dagerman (anarchico, terribilmente sensibile, perpetuamente dalla parte degli ultimi), commentava così un accordo commerciale stipulato dalla Svezia con la Spagna di Franco: Scaldiamoci intanto con i nostri urrà / per la democrazia che è tanto bella / e che svendiamo, ogni assassino lo saprà, / in cambio di un’arancia sanguinella. 

La poesia satirica si intitolava “Relazioni democratiche” (qui nella traduzione di Fulvio Ferrari per Iperborea, in “Breve è la vita di tutto quel che arde”) e, anche se sono passati quasi 80 anni da allora, ricorda anche a chi conosce poco la politica estera della Svezia che una delle democrazie più evolute del mondo, per necessità o interesse, nell’ultimo secolo è venuta a patti con regimi autoritari, come quello franchista. E chissà che se in questi mesi qualcuno, nei palazzi del potere di Stoccolma, non abbia riletto i versi di Dagerman mentre la Turchia alzava sempre più la voce e chiedeva non soltanto l’estradizione di quelli che definisce “terroristi” curdi, ma il licenziamento di un ministro del governo (a giugno), un’inchiesta sulle proteste nei pressi dell’ambasciata turca a Stoccolma (a novembre), e via dicendo. 

“Ulf Kristersson [a capo dell’attuale governo di centrodestra] deve smettere di farsi umiliare dalla Turchia”, si poteva leggere, sempre a novembre, su uno dei più influenti quotidiani della Svezia. Parole forti, che tradiscono lo stupore di una nazione che non riconosce se stessa. Fino a ieri, infatti, la Svezia si considerava una “superpotenza morale”. In effetti statsministrar come Olof Palme e diplomatici del calibro di Raoul Wallenberg, Dag Hammarskjöld e Folke Bernadotte, hanno dato un contributo enorme alla causa dei diritti umani, pagando con la vita per questo. Ancora nel 2003 Anna Lindh, ministra degli Esteri e paladina dell’ambiente e della cooperazione internazionale, aspra critica dell’invasione dell’Iraq, veniva uccisa a Stoccolma durante un breve momento di shopping. 

Ma negli ultimi 20 anni molte cose sono cambiate. Nel novembre del 2015, al culmine della “crisi europea dei rifugiati”, Stoccolma ripristinava i controlli alla frontiera con la Danimarca (era dagli anni Cinquanta che svedesi e danesi attraversavano il confine senza passaporto) e cancellava le parole pronunciate solo due mesi prima dall’allora statsminister Stefan Löfvén: «La mia Europa non costruisce muri». Incalzati dalla retorica apocalittica e anti-immigrati dei Democratici svedesi (Sverigedemokraterna), che alle legislative del 2014 avevano raccolto il 12,86% dei voti (oggi secondo partito del paese, e stampella del governo, di minoranza, di centrodestra), i Socialdemocratici chinavano la testa. La normativa sull’asilo veniva inasprita. Era la “caduta” del 2015, per citare lo storico Lars Trägårdh.

L’anno scorso la Svezia si è ritrovata ad affrontare un dilemma altrettanto lacerante: sicurezza o rispetto dello Stato di diritto? Proteggersi dalle armate del presidente russo Vladimir Putin o resistere ai diktat del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan? 

Il dilemma turco

Com’è noto la nuova aggressione russa all’Ucraina ha spinto Stoccolma (ed Helsinki) a ciò che solo un decennio fa sarebbe apparso quasi impossibile: l’entrata nella NATO. Far parte della più potente alleanza militare del mondo non è facile, però: i trenta Stati membri decidono ogni nuovo ingresso all’unanimità, serve l’assenso di democrazie solide come la Norvegia o il Portogallo, di democrature come l’Ungheria (che non ha ancora dato il suo benestare, forse in attesa di qualche contropartita), e di un regime profondamente autoritario qual è la Turchia di Erdoğan.

Ed è stata proprio Ankara a far precipitare Stoccolma nel dilemma di cui sopra. Per la Turchia, attore geopolitico molto attivo in Libia, Medio Oriente e Corno d’Africa, che ha fornito droni Bayraktar TB2 all’Ucraina, che mena vanto di essere una delle grandi potenze militari del mondo e vuol essere chiamata Türkiye dalle organizzazioni internazionali, la Svezia non si comporta tanto bene. Nella retorica di molti suoi politici, è un covo di criminali. Un ricettacolo di sostenitori del fallito golpe contro Erdoğan nel 2016, e soprattutto di terroristi curdi del PKK. 

«Pensioni per organizzazioni terroristiche»: così Erdoğan definiva a maggio la Svezia e la Finlandia. Dimenticando che il PKK, classificato come un’organizzazione terroristica dalla UE e dagli Stati Uniti, è fuori legge in Svezia dall’ormai lontano 1984. 

L’apertura a Stoccolma, nel 2016, di un ufficio dell’organizzazione politica curda del Rojava PYD (Partiya Yekîtiya Demokrat, Partito dell’Unione Democratica) ha molto irritato Ankara. Per non parlare della politica estera di Stoccolma tra l’autunno del 2019 e del 2022: l’allora ministra degli esteri Ann Linde ha sostenuto con forza la causa del PYD, con grave scorno dei turchi; idem il segretario dei socialdemocratici Tobias Baudin. Oggi in Svezia vivono alcuni tra i più noti oppositori del regime turco, ad esempio Bülent Keneş, ex direttore del quotidiano in lingua inglese Today’s Zaman (chiuso nel 2016 dalle autorità).

«La Turchia non può chiedere alla Svezia di estradare una persona solo perché non gli piace ciò che ha scritto o detto. Questo è inammissibile, va contro le nostre leggi e la nostra identità – dice a Valigia Blu un alto funzionario del governo svedese a condizione di rimanere anonimo –. Diverso è il caso di chi è accusato di crimini reali. Il PKK è un’organizzazione terroristica, non un giornale, e la Svezia anche in queste situazioni deve applicare il diritto, non quello che piacerebbe ai militanti dell’estrema sinistra».

Il funzionario si riferisce al caso del curdo Mahmut Tat. Autista di bus della città di Dêrsim (Tunceli), è stato estradato a dicembre in Turchia, dove era stato precedentemente condannato a sei anni e dieci mesi di carcere; a detta delle autorità turche avrebbe fatto parte del PKK. Tat aveva cercato rifugio in Svezia nel 2015, però dopo tre anni la sua richiesta di asilo era stata respinta. 

Tat ha dichiarato di non aver mai compiuto azioni terroristiche, ma di avere solo partecipato ad attività di protesta in Turchia. «Da normale cittadino mi sono schierato a favore degli oppressi e ho sostenuto la lotta democratica. Se ciò è terrorismo, allora sì, sono un terrorista» avrebbe dichiarato Tat secondo la testata indipendente Duvar.

In agosto la Svezia ha estradato in Turchia un curdo ricercato per una truffa con delle carte di credito, senza destare ad Ankara particolare entusiasmo. Ma sempre quest’estate i giudici svedesi hanno respinto quattro richieste di estradizione, facendo irritare Ankara.

Anche con il già citato Keneş le cose non sono andate come speravano i turchi. A dicembre la Corte Suprema della Svezia (Högsta domstolen) ha bloccato l’estradizione del giornalista. Per le autori turche Keneş è coinvolto nel fallito colpo di Stato contro Erdoğan del 2016. «C’è il rischio di una persecuzione basata sulle opinioni politiche di questa persona. L’estradizione perciò non è possibile», ha spiegato il giudice Petter Asp. La decisione della Suprema Corte non è piaciuta ad Ankara; il ministro degli esteri Mevlüt Çavuşoğlu, pur riconoscendo che Stoccolma ha attuato «misure positive», ha definito la sentenza uno sviluppo «molto negativo». Per il ministro della Giustizia svedese, Gunnar Strömmer, «la Svezia è uno Stato di diritto, e abbiamo un sistema che si occupa di questo tipo di cose».

Sverige är en rättsstat, la Svezia è uno Stato di diritto. È una frase in cui ci si imbatte spesso, quando si affronta il tema delle estradizioni in Turchia. Ankara si appella al Memorandum Trilaterale che il 28 giugno del 2022 aveva firmato con Stoccolma ed Helsinki sotto gli auspici del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, e che impegna i due paesi nordici a occuparsi «delle richieste di espulsione ed estradizione di sospetti terroristi da parte della Turchia in modo rapido e approfondito». Ma come spiegava a luglio a chi scrive Martti Koskenniemi, professore emerito di diritto internazionale presso l’Università di Helsinki, «il Memorandum non cambierà il processo delle estradizioni, che ha natura giudiziaria, non politica».

Per Svezia e Finlandia la NATO è la sola garanzia contro l’imperialismo russo. Ma cosa dice davvero il Memorandum dei due paesi con la Turchia

A inizio gennaio l’attuale statsminister, il liberalconservatore Ulf Kristersson, ha perso un po’ della sua caratteristica pazienza. E dire che ha fatto davvero di tutto per compiacere Erdoğan (persino recarsi ad Ankara a neanche un mese dalla sua nomina, per sorbirsi il paternalismo del presidente turco). «La Turchia conferma che abbiamo fatto ciò che avevamo detto che avremmo fatto, ma [i turchi] dicono anche di volere cose che non possiamo o non vogliamo dargli – ha dichiarato –. Siamo convinti che la Turchia prenderà una decisione [sull’entrata della Svezia nella NATO], è che non sappiamo quando».

«Forse la dichiarazione di Kristersson segnala un piccolo cambio nel tono, e nella tattica – nota Jacob Westberg, professore associato di studi di guerra presso la Försvarshögskolan, l’Università svedese della Difesa a Stoccolma –. In ogni caso questa è stata la posizione del governo svedese per tutta la durata del processo [di entrata nella NATO]. È probabile che Erdoğan continuerà a bloccare il processo per altro tempo, non è possibile sapere per quanto».

A parere di Enna Gerin, vice-direttrice dell’istituto per lo sviluppo di idee sindacali Katalys, «finalmente Kristersson e il suo Governo stanno elaborando un qualche tipo di linea rossa da parte svedese. Questo è un bene perché ultimamente stavamo concedendo davvero troppo alle tattiche umilianti di Erdoğan. La dichiarazione svela anche una certa dinamica: il ministro degli Esteri, Tobias Billström, fa il “lavoro sporco” tranquillizzando Erdoğan e il governo turco, mentre Kristersson cerca di rassicurare il pubblico svedese che non ci piegheremo troppo per Erdoğan».

Ole Elgström, professore emerito al dipartimento di scienza politica dell’Università di Lund, osserva: «Kristersson ha fatto varie concessioni alla Turchia, ma non può cedere quando si tratta di consegnare i cosiddetti terroristi (se essi non appartengono al PKK). La Svezia è, a differenza della Turchia, un paese con una netta separazione tra l’azione politica e giudiziaria. Le condizioni attuali del diritto svedese non consentono di consegnare cittadini turchi soltanto perché sono nemici di Erdoğan… Nessun governo svedese potrebbe farlo».

Non bisogna dimenticare che in Svezia ci sono circa 100mila persone curde o di origine curda: un numero di rilievo, in un paese di dieci milioni di abitanti. Il paese nordico è sempre più multietnico (lo svedese più famoso al mondo ha origini balcaniche: Zlatan Ibrahimović), e la comunità curdo-svedese è seconda soltanto a quella iraniano-svedese per successo nel mondo degli affari, dell’accademia e della cultura. Svedesi di origine curda vengono regolarmente eletti al riksdag, il parlamento monocamerale di Stoccolma: è il caso del socialdemocratico Kadir Kasirga, o della liberale Gulan Avci. 

Gennaio 2023: i rapporti si inaspriscono

Se il 2022 si è chiuso male per Ankara, a causa della decisione della Corte Suprema svedese, il 2023 si è aperto peggio: l’11 gennaio le immagini, condivise inizialmente su Twitter, di un fantoccio con le fattezze di Erdoğan impiccato a testa in giù, e a pochi passi dal municipio di Stoccolma, hanno fatto infuriare i turchi. 

Responsabili del gesto clamoroso, di cui ha parlato mezzo mondo, sono i membri di un gruppo pro-curdo denominato Comitato svedese di solidarietà per il Rojava. Chiaro il riferimento alla fine di Benito Mussolini; il gruppo ha invitato il presidente turco a dimettersi, così da non finire «sottosopra in Piazza Taksim [a Istanbul]».

Ankara ha immediatamente convocato l’ambasciatore svedese, incolpato il PKK e la milizia YPG (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di Protezione Popolare), chiesto un intervento deciso contro i gruppi terroristici. Non è tutto: ha annunciato l’apertura di un’inchiesta da parte della magistratura turca, nonché la cancellazione della visita in Turchia del talman (presidente) del riksdag Andreas Norlén.

Norlén ha definito «disgustoso» il gesto, e ha ricordato che non c’è spazio per le minacce di violenza nel dibattito democratico, ma ormai i turchi avevano deciso. Grande lo sdegno nel governo svedese (Kristersson ha ammesso che questo potrebbe avere un serio impatto sul processo di entrata della Svezia nella NATO), mentre il Comitato svedese di solidarietà per il Rojava ha risposto allo statsminister affermando che si starebbe battendo per la democrazia svedese sabotata proprio da lui. 

E non è senz’altro una coincidenza se il 14 gennaio un portavoce di Erdoğan ha ricordato che si sta esaurendo il tempo per il sì della Turchia all’entrata di Svezia e Finlandia nella NATO prima delle elezioni presidenziali e parlamentari, probabilmente tra maggio e giugno; il paese nordico, dunque, deve muoversi ad adottare le misure anti-terrorismo concordate nel già citato Memorandum Trilaterale. 

Il 21 gennaio, tuttavia, si è verificato un episodio ancora più drammatico. Tanto da spingere Erdoğan a pronunciare le parole citate sopra: «Se non mostri tale rispetto, allora non puoi vedere nessun tipo di supporto da noi sulla NATO». Estremisti di destra hanno dato fuoco a un Corano e hanno intonato cori islamofobi fuori dall’ambasciata turca a Stoccolma. Le foto dello svedese-danese Rasmus Paludan, avvocato, politico e fondatore del partito di estrema destra Stram Kurs, con in mano il libro sacro dell’Islam in fiamme, hanno mandato su tutte le furie milioni di musulmani in ogni parte del mondo. Non è la prima volta che Paludan compie un gesto simile. Ma per Ankara si è passato davvero il segno. «Il governo svedese ha preso parte a questo crimine consentendo tale vile atto» ha dichiarato il ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu.

Nonostante le parole di aspra condanna da parte del governo svedese, la Turchia ha annullato la visita del ministro della difesa Pål Jonson. Ed è stato anche rimandato il vertice sulla NATO tra Turchia, Finlandia e Svezia che si doveva tenere a febbraio. Ad Ankara, intanto, si sono verificati cortei di protesta contro la Svezia, e nei pressi dell’ambasciata del paese nordico è stata bruciata, come ritorsione, la bandiera svedese.

Al governo turco sembra interessare ben poco che il permesso per la dimostrazione di estrema destra sia stato pagato da Chang Frick, giornalista e direttore del quotidiano populista Nyheter Idag. Frick ha detto di aver provveduto al versamento (320 corone, poco meno di una trentina di euro) perché se Paludan avesse dovuto pagare dalla Danimarca c’era il rischio che il denaro arrivasse troppo tardi, mettendo a rischio la manifestazione; lo avrebbe fatto, dunque, in nome della libertà di parola. «Dovremmo limitare la nostra libertà di manifestazione ed espressione a causa di una potenza straniera?», ha dichiarato. 

In passato il giornalista è stato ospite dei programmi di Riks, canale televisivo dei Democratici svedesi dove Erdoğan e la Turchia sono oggetto di critiche serrate. Si tratta di un personaggio che non sfigurerebbe in un talk-show italiano: i media non hanno tardato a pubblicare, per esempio, una sua vecchia foto dove indossava una maglietta con la foto del presidente russo. 

Mosca ha ovviamente condannato il gesto di Paludan, e stigmatizzato il comportamento delle autorità svedesi che hanno consentito il tutto nascondendosi dietro la “libertà di parola”. In Ucraina e nei paesi baltici sono stati però sollevati seri dubbi su chi possa aver tratto beneficio dal rogo del Corano. 

E dire che proprio l'1 gennaio è entrato in vigore in Svezia un emendamento costituzionale che «renderà possibile limitare la libertà di associazione per gruppi coinvolti nel terrorismo. Questo significa che la Svezia sarà in grado di combattere il terrorismo in più e nuovi modi», come ha spiegato un comunicato stampa del ministero della giustizia svedese; occorreranno altri mesi prima che l’emendamento abbia conseguenze normative, ma in Svezia non è passato inosservato che l’ambasciata ad Ankara ha dato notizia della cosa su Twitter, in turco, e con grande celerità. Per Ankara non è un risultato da poco costringere un paese europeo ricco e avanzato a modificare la propria legge fondamentale per soddisfare le richieste della Turchia: nel paese i sentimenti anti-occidentali sono ancora diffusi, e il ricordo delle umiliazioni patite per mano degli europei non è mai svanito.

Secondo vari esperti e dissidenti turchi, il negoziato tra Stoccolma e Ankara diventerà sempre più sfiancante, anche perché per Erdoğan umiliare due paesi europei è molto utile da un punto di vista elettorale. È improbabile che la Turchia dia il suo benestare prima delle elezioni, e in ogni caso occorrerà probabilmente un intervento degli Stati Uniti per calmarla. Senza dubbio le diplomazie di Svezia e Finlandia si stanno spendendo molto a Washington, e forse è pure grazie a tali sforzi che il presidente statunitense Joe Biden si è deciso ad appoggiare la vendita alla Turchia di quaranta caccia F-16, chiedendo al Congresso di dare il via libera all’accordo (anche se è assai improbabile che l’accordo venga approvato se i turchi non danno prima il via libera a Svezia e Finlandia). Ankara vuole fortemente gli aerei, e come è stato ricordato qui su Valigia Blu, l’intero tema degli armamenti è centrale, nel negoziato.

Chi scrive ha chiesto a varie fonti diplomatiche nei paesi nordici se ritengono probabile un’entrata della Svezia nella NATO prima dell’importante vertice dei capi di Stato e governo in quel di Vilnius, a luglio, ma nessuno ha risposto. 

Ecco perché Washington, per adesso, resta per la Svezia (come per la Finlandia) la miglior garanzia contro l’imperialismo russo. Al pari di Helsinki, impegnata in complessi negoziati per un accordo di cooperazione nella difesa con gli Stati Uniti (si dovrebbe arrivare alla firma in primavera, secondo il quotidiano finlandese Iltalehti), anche la Svezia ha avviato i negoziati per un accordo analogo. Al momento è il miglior piano B che i due paesi possano permettersi. 

Un governo debole che dovrà strappare un sì a Erdogan

Intanto l’ansia tra i comuni cittadini cresce. È iniziato da poco il processo a due fratelli svedesi accusati di lavorare per i russi: un terribile smacco per l’intelligence di Stoccolma, perché il maggiore dei due fratelli aveva accesso a una grande quantità di informazioni strategiche della SÄPO, il controspionaggio svedese. E a dicembre le autorità hanno arrestato, in un ricco e placido sobborgo di Stoccolma, una coppia russa (ma con cittadinanza svedese) accusata di lavorare per il GRU (l’intelligence delle forze armate russe), ai danni di Stati Uniti e Svezia.  

Sia chiaro: non è solo la Russia a preoccupare gli svedesi. I media continuano a parlare dei rincari dell’energia (un problema reale, specie per chi vive nella parte più settentrionale, e fredda, del paese), e secondo un rapporto della Danske Bank la Svezia dovrebbe entrare in recessione, nel 2023. Inoltre, dopo tanti anni all’opposizione, il centrodestra sta riscoprendo la difficoltà del governare.

La Svezia tra sicurezza energetica, rischio recessione e fragilità politica

Per Elgström «il governo Kristersson è stato (giustamente, a mio parere) accusato nei media di non attuare le sue grandi promesse elettorali. I sondaggi segnalano anche un chiaro declino nel sostegno da parte del pubblico. Molti osservatori, incluso il sottoscritto, sono preoccupati in merito agli interventi (o all’assenza di interventi) di questo nuovo governo per quanto riguarda il cambiamento climatico. Ci sono poche speranze che gli impegni della Svezia sulla riduzione delle emissioni verranno rispettati. E questa è una delle aree dove l’influenza dei Democratici svedesi è assai visibile. Inoltre, da accademico che studia la politica estera della Svezia, noto la mancanza di interesse del governo per il multilateralismo, ci si focalizza sulla regione nordica, su “prima la Svezia”. E poi i drastici tagli all’assistenza internazionale e una brusca fine alla politica estera femminista del paese. Questo avrà un impatto su molte attività di cooperazione informale con i cosiddetti “paesi che la pensano uguale”, con i membri UE progressisti nell’ambito dei diritti umani, e sull’azione climatica. Probabilmente anche sulla reputazione internazionale della Svezia».

Non aiuta il fatto che l’attuale governo sia un Minoritetsregering, un governo di minoranza. Che ha bisogno dei Democratici svedesi, per reggere. Per Markus Johansson, ricercatore sia dell’Università di Göteborg che del Sieps, «è un po’ presto per giudicare, ma penso sia chiaro che abbiamo una nuovo tipo di governo, in una posizione molto debole, e dipendente da un partito, i Democratici svedesi, che è più grande di qualsiasi partito della coalizione di governo, e che non ha alcuna esperienza nell’essere un partner di governo. Questa nuova formula rende un po’ difficile prevedere come andrà nel lungo periodo, e che livello di tensione si verificherà in particolare tra i Democratici svedesi e i Liberali (Liberalerna)».

Il punto, nota Johansson, è che «la coalizione di governo è molto dipendente dai Democratici svedesi, il che significa che deve tenerli felici per non rischiare un voto di censura. Inoltre, la coalizione di governo e i Democratici svedesi hanno solo un’esile maggioranza nel riksdag, quindi se dei singoli parlamentari dei Democratici svedesi (o dei Liberali) diventano troppo insoddisfatti per quello che fa il governo, la maggioranza potrebbe sfumare. I Liberali al loro interno sono divisi sull’approccio con i Democratici svedesi, e questo è un fattore di rischio».

Come se non bastasse, sino al 30 giugno 2023 la Svezia avrà la presidenza del Consiglio dell’Unione Europea. Le priorità sono la sicurezza, la competitività, la transizione ecologica e quella energetica, i valori democratici e la supremazia del diritto. Un programma ambizioso e vasto per un governo di minoranza, che deve fare affidamento su un partito di estrema destra visceralmente anti-UE. 

Il giudizio di Enna Gerin è duro. «Ci sono troppe priorità, non c’è una priorità se praticamente tutto è prioritario. Penso che questa mancanza di risolutezza sia un sintomo del fatto che il governo è molto debole. I tre partiti di governo hanno meno seggi dei Socialdemocratici da soli. A ogni voto il governo è totalmente dipendente dal sostegno dei Democratici svedesi. Non hanno, semplicemente, un mandato forte, così seppelliscono la loro debolezza in tutte queste priorità, ma purtroppo non saranno in grado di fare nulla con tutto il cuore».

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Probabilmente era dal 1940 che la Svezia non si trovava in una situazione così complicata. Il suo è un governo debole, ma dovrà strappare a un sì a Erdoğan, uomo forte per eccellenza. E intanto l’economia arranca, la Russia continua la sua guerra di aggressione in Ucraina, il paese sembra pieno di spie, e curdi e turchi rifugiati nel paese assistono con il fiato sospeso al procedere degli eventi. 

La Svezia non si è “svenduta al sultano”, come dicono taluni in modo un po’ troppo sommario (la società civile e il giudiziario reggono, per ora), ma ogni giorno che passa il paese nordico sembra sempre più lontano dalla Svezia che i dissidenti e gli oppressi di tutto il mondo hanno sognato e amato nella seconda metà del ‘900. Senz’altro non è più una “superpotenza umanitaria”. È un piccolo paese europeo, in un mondo con nuove potenze (non-europee) in rapida ascesa. 

Immagine in anteprima via ISPI

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