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La toppa peggio del buco: perché sul Superbonus Meloni ha peggiorato le cose

22 Febbraio 2023 7 min lettura

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La toppa peggio del buco: perché sul Superbonus Meloni ha peggiorato le cose

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Non c’è da sorprendersi: il Superbonus è tornato di nuovo al centro della scena negli ultimi giorni grazie alle dichiarazioni di Meloni e Giorgetti sulle ulteriori modifiche alla misura. Il problema però è che la misura, in sé problematica, è stata addirittura peggiorata dal governo in carica. 

La storia del superbonus

Per capire di cosa stiamo parlando è necessario fare un passo indietro e ripercorrere brevemente la storia e i cambiamenti apportati al Superbonus. Com’è noto, la misura nasce nel maggio del 2020 con il governo Conte II con l’intento di rilanciare il settore edilizio dopo la botta ricevuta dal lockdown e per risolvere il problema dell’efficientamento degli edifici che, come dimostrano le polemiche scaturite dalla direttiva europea sulle case, rappresenta un’istanza urgente per il nostro paese. Secondo i dati ENEA, infatti, il 56% delle abitazioni censite nel nostro paese sono nella fascia energetica E ed F. 

La misura consisteva in un credito d’imposta fino al 110% della spesa per ammodernamento di edifici esistenti. Al fine di poter accedere allo sconto erano necessari ovviamente necessari interventi di efficientamento energetico in grado di far salire lo stabile di due classi energetiche. 

Ovviamente una fascia consistente della popolazione non può permettersi di anticipare i capitali necessari per la ristrutturazione. Per questo motivo, ed è proprio questo il tema discusso in questi giorni, il governo aveva previsto due meccanismi: il primo era lo sconto in fattura, spostando quindi il costo iniziale da colui che utilizzava il Superbonus all’azienda che svolgeva i lavori; il secondo era la cessione del credito, ad esempio a istituti bancari. In questo modo chi possedeva l’immobile poteva usufruire del Superbonus per i lavori di efficientamento senza un esborso consistente. 

Successivamente era intervenuto il governo Draghi, che tra le altre cose con il decreto Sostegni Ter del novembre 2021 aveva messo mano proprio alla cessione del credito, in un primo momento limitato a una sola cessione poi a tre. Il governo Draghi sarebbe dovuto intervenire di nuovo sul superbonus, ma per via dell’uscita delle destre dall’aula nel luglio del 2022, la patata bollente è passata al governo Meloni. 

Come abbiamo già fatto notare, il governo si è trovato a fare i conti con una finanziaria da fare in poco tempo, essendo entrato in carica ad ottobre e dovendo passare la finanziaria entro la fine dell’anno, e con risorse limitate. Già a novembre il governo Meloni, con il decreto Aiuti Quater, aveva optato per una rimodulazione del Superbonus 110% che era passato per la maggior parte dei lavori al 90%, mentre per i condomini che avevano già deliberato i lavori possono restava al 110%. 

Nei giorni scorsi infine il governo è di nuovi intervenuto con un Decreto Legge che impedisce di fruire delle agevolazioni fiscali relative ai bonus - non solo il Superbonus 110%, ma anche tutti gli altri. attraverso i due meccanismi citati in precedenza quindi sconto in fattura e cessione crediti. La Presidente del Consiglio è poi tornata sulla questione nella sua rubrica Gli Appunti di Giorgia dichiarando che vi sono state truffe per 9 miliardi di euro e che il provvedimento è costato 2 mila euro a testa. 

Il vero problema del Superbonus è un altro

Le critiche di Giorgia Meloni e della maggioranza al Superbonus non sono nulla di nuovo: da anni infatti si assiste a una raffica di critiche rivolte alla misura. 

È però necessario distinguere quelle che vanno al cuore del problema e quelle che, invece, non sono centrate. Il problema è il Superbonus per com’è ora o lo strumento in sé? 

Se il problema fossero le truffe, infatti, il problema del Superbonus sarebbe appunto contingente, da risolvere con provvedimenti come quello voluto dal governo Draghi sulla cessione del credito. Una lunga catena di cessioni del credito porta infatti a maggior opacità, permettendo quindi a imprese truffaldine di avere un guadagno. A onor del vero, inoltre, i dati dimostrano che la maggior parte delle truffe sono concentrate su altri tipi di bonus. 

Si tratta d’altronde dello stesso problema riguardante il Reddito di Cittadinanza: le truffe possono essere arginate attraverso controlli e modifiche della legge, ma la misura in sé è condivisibile o no? Nel caso del Superbonus la risposta sembra essere no. Il problema principale della misura, che la presidente del Consiglio ha giustamente osservato, è la sua iniquità: a usufruire del Superbonus sono infatti i ceti più abbienti della popolazione. 

Già al tempo del governo Draghi, un articolo pubblicato su La Voce notava come i risparmi d’imposta calcolati nell’arco 2022-2026 della misura si concentrassero maggiormente tra i contribuenti più abbienti. Gli autori dell’articolo hanno poi calcolato il risparmio se si fosse limitata la misura a determinate fasce di reddito: prendendo il lordo, limitando la fruizione del Superbonus a contribuenti al di sotto dei 200 mila euro, in cinque anni il risparmio sarebbe stato di 1.1 miliardi di euro; limitarlo a 100 mila euro invece 3.5 miliardi, mentre per 50 mila si parla di un risparmio di 9.6 miliardi, ovvero quasi 2 miliardi all’anno. 

Anche i dati sugli edifici che hanno usufruito della misura sono eloquenti: al 31 gennaio 2022 infatti solo una frazione esigua degli interventi riguardavano i condomini dove vive circa il 60% della popolazione italiana, mostrando quindi come la maggior parte delle richieste andassero a beneficio di chi ristruttura case private. 

Le modifiche volute da Giorgia Meloni, però, non solo non migliorano la situazione: aiutano addirittura a peggiorarla. Se è vero che le cessioni del credito rischiano di acuire le truffe, la cancellazione delle stesse e dello sconto in fattura farà sì che solo coloro che detengono capitali iniziali per i lavori potranno permettersi di usufruire del Superbonus. 

A questo va ad aggiungersi un problema più tecnico: il credito d’imposta del Superbonus va spalmato in quattro anni. Che cosa vuol dire questo, nella pratica? Molto semplicemente i contribuenti che, visto il reddito, non pagano abbastanza imposte si troverebbero a “ricevere” meno soldi di quelli che hanno speso.  

C’è poi un risvolto a tratti ironico - o tragico - in tutta la faccenda. Tra le motivazioni addotte da Meloni e dal suo governo per gli interventi sul Superbonus un posto di primo piano è riservato all’impatto che questa misura sta avendo sui conti pubblici. Ovviamente Meloni e il suo governo hanno ragione a sottolineare l’impatto, soprattutto a fronte delle stime preventivate. 

Nell’ultima audizione della commissione finanze e bilancio il direttore generale delle finanze Giovanni Spalletta ha infatti illustrato la situazione: il fabbisogno per il Superbonus sarebbe di 61 miliardi, ben 25 miliardi più di quanto preventivato. E questo a fronte di un utilizzo limitato, visto che solo il 2% del patrimonio immobiliare è stato ristrutturato. 

Per avere un’idea di quanto andrebbe a costare una ristrutturazione di tutto il patrimonio edilizio che lo necessita, si parla di 2mila miliardi di euro per le detrazioni, secondo i calcoli di Giuseppe Pisauro. Tuttavia, per diminuire l’esborso del Superbonus, Meloni e il suo governo sembrano voler interdire l’utilizzo dell’agevolazione alle fasce meno abbienti, cioè quelle che statisticamente si ritrovano a vivere in abitazioni meno efficienti e quindi che ne avrebbero più bisogno.

C’è poi un aspetto ancora più politico, anche se nascosto da questioni squisitamente tecniche. ISTAT aveva chiesto infatti parere a Eurostat (l’equivalente europeo) come contabilizzare le spese per lo Stato relative al Superbonus. Secondo il nuovo manuale Eurostat i crediti fiscali andrebbero contabilizzati interamente nel primo anno di riferimento e non spalmati sui vari anni. 

Che cosa cambia dal punto di vista pratico per i contribuenti? Assolutamente nulla. Tuttavia, qualora i crediti fiscali del Superbonus del 2023 dovessero essere contabilizzati in un solo anno, per il governo si ridurrebbe lo spazio di manovra fiscale. Ciò impedirebbe, quindi, l’utilizzo del debito per misure che invece servono al governo Meloni per guadagnare consenso. 

Infine il problema dei crediti incagliati, ovvero di quei crediti, circa 19 miliardi come riferisce il Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti. Questi crediti sono in carico alle aziende che non riescono però a trovare istituti di credito in grado di dargli la liquidità necessaria per poter pagare fornitori e dipendenti. Secondo il Ministro dell’Economia le norme del decreto riuscirebbero in parte a sgonfiare questa bolla, in quanto le banche sarebbero rassicurate riguardo la validità dei crediti che stanno acquistando, non rischiando quindi di non vedersi rimborsate. In questo momento sono varie le opzioni sul tavolo, tra cui quella della compensazione attraverso gli F24, ma il governo non ha ancora deciso sul da farsi. 

E allora, che cosa si sarebbe potuto fare? 

Il Superbonus è uno strumento nato in un momento drammatico per l’economia italiana: dopo il lockdown, quando l’incertezza relativa alla situazione epidemiologica, non faceva ben sperare per il futuro del nostro paese - senza considerare l’emergenza climatica sempre in agguato. Il nostro paese, anche per via di salari stagnanti, crescita economica anemica e precarietà lavorativa, non poteva di certo permettersi un efficientamento degli edifici trainato dalla domanda privata. 

Ma la soluzione al problema, quella del Superbonus, ha più problemi che benefici. L’alternativa, però, avrebbe richiesto una discreta dose di coraggio politico. Come ha suggerito Emanuele Felice, che al tempo dell’approvazione era responsabile economico del Partito democratico,si poteva puntare a una riproposizione, in chiave moderna, del Piano INA Casa voluto fortemente dall’allora ministro e poi presidente del Consiglio Amintore Fanfani, esponente di punta della Democrazia Cristiana.

Un piano pubblico per la costruzione di alloggi per i lavoratori: d’altronde a quel tempo lo sviluppo del capitalismo industriale italiano richiedeva non solo case ma città per i lavoratori e le loro famiglie. A questo si aggiungeva l’aspetto puramente economico: l’intervento pubblico avrebbe lanciato l’occupazione nel campo dell’edilizia. 

Un piano di questo tipo oggi, per contrastare non solo l’emergenza climatica, ma anche quella lavorativa e abitativa (nel nostro paese il prezzo delle case e degli affitti è cresciuto di più rispetto al salario mediano) sarebbe stato un valido sostituto del Superbonus, soprattutto visto l’impatto che ha il settore immobiliare sulla crescita italiana. Si tratta ovviamente di un piano non scevro da perplessità: in Italia lo Stato è spesso inefficiente e non mancano certo casi di corruzione. Ma senza interventi strutturali è impensabile pensare di poter risolvere questo tipo di problemi. 

Immagine in anteprima via positanonews.it

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