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I giovani non si arrendono al governo militare in Sudan: “Ci hanno rubato la rivoluzione”

30 Maggio 2022 8 min lettura

I giovani non si arrendono al governo militare in Sudan: “Ci hanno rubato la rivoluzione”

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Un paese che rischia di collassare. Dal punto di vista della sicurezza e della tenuta economica. L’avvertimento lanciato a marzo dall’inviato delle Nazioni Unite per il Sudan, Volker Perthes, non ha perso energia. Anzi. È stato rilanciato, pochi giorni fa, nel corso dell’ennesimo incontro della “triade” che sta cercando da mesi di facilitare il dialogo tra le parti: Nazioni Unite, appunto, Unione Africana e l’organismo regionale, Autorità intergovernativa per lo Sviluppo (IGAD). Questa volta il messaggio è ancora più diretto: La crisi che sta affrontando il Sudan è interamente locale e può essere risolta solo dai sudanesi. Ma la violenza - vera protagonista delle proteste di piazza che si succedono con sempre maggiore frequenza – allontana ogni volta un po’ di più la volontà (e la possibilità) di uscire da una impasse che al momento nessuno riesce a scalfire. 

Il motivo è quasi banale: chi prende il potere non vuole lasciarlo. Vuole decidere per tutti, anche per quelle migliaia e migliaia di persone – soprattutto giovani – che da mesi cercano di far capire che no, non sono d’accordo, un governo militare in Sudan era l’ultima cosa che volevano (e si aspettavano) all’indomani della cacciata di un dittatore, Omar al-Bashir, che per trent’anni ha tenuto il paese in una morsa di autoritarismo dove l’opposizione, la voce fuori dal coro, lo scalpitare dei giovani erano solo minacce da silenziare. Con ogni mezzo. Era la fine del 2018 e il mondo (e l’Africa tutta) aveva guardato con ammirazione quella folla – tra loro Alaa Salah, la studentessa che divenne simbolo della rivolta – che era stata così coraggiosa e compatta da segnare la fine di quella dittatura e delle conseguenze nefaste che aveva provocato. Non per niente è dal 2009 che il dittatore è “inseguito” da un mandato di cattura della Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità, soprattutto in relazione al conflitto in Darfur. 

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Un sogno svanito dunque, quello dei sudanesi, quando, come spesso accade in questi casi, è stato chiaro che il Consiglio militare di transizione che avrebbe dovuto traghettare il Sudan verso un governo democratico ha di fatto stretto la morsa e – ancora una volta – creato una distanza enorme tra la popolazione e i vertici di quello che non si può propriamente chiamare Stato. Prima di continuare è il caso di ricordare che il motivo per il quale i sudanesi erano coraggiosamente scesi in piazza – oltre l’insostenibile stato di abusi e politiche liberticide – era stato l’aumento incontrollato dei prezzi, soprattutto quello della benzina e del pane. È la fame – causata a volte da crisi internazionali - che spesso dà forza ed energia alle ribellioni, soprattutto se il malcontento cova da troppo tempo. 

Ma torniamo agli esiti di quella rivolta che non sarebbe stata l’ultima. La sollevazione popolare, civile e pacifica – e nonostante questo più volte frenata dall’intervento massiccio delle autorità (al-Bashir impose anche un lungo periodo di coprifuoco) – aveva di fatto spianato la strada per quel colpo di Stato militare (era l’aprile 2019) ritenuto necessario, un male minore, per garantire la fine del regime dittatoriale e l’inizio di una nuova storia. Alla testa del Consiglio militare di transizione c'era il generale Abdel Fattah al-Burhan (comandante in capo dell'esercito) e il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come "Hemetti", il suo vice. Ma già due mesi dopo l’atmosfera si era già surriscaldata. 

La prova che le cose non erano poi tanto cambiate, è ancora una volta un massacro. Il massacro del 3 giugno 2019, quando 100 persone – ma secondo alcune fonti interne molte di più – rimasero vittime di un attacco militare mentre manifestavano chiedendo semplicemente il rispetto di una promessa: la democrazia. Oltre 700 furono i feriti, e una ferita aperta in un popolo traumatizzato. Il massacro di Khartoum… Chi erano i responsabili? Una combinazione di membri della Rapid Support Forces (RSF) - temuto gruppo paramilitare nato dalle milizie sostenute da al-Bashir che hanno combattuto i gruppi ribelli nel Darfur ed è diventato famoso per le atrocità commesse durante questo conflitto - dei servizi di sicurezza e della polizia. Gente abituata allora, come adesso, a non andare tanto per il sottile. Figuriamoci con una popolazione che chiedeva il rispetto degli accordi. Dopotutto parliamo di un Consiglio militare di transizione nato con il coinvolgimento di alti ufficiali dell’ex regime. 

La reazione internazionale a un attacco così estremo su civili inermi portò ad una piccola, piccolissima vittoria: il trasferimento del potere a un organismo congiunto civile-militare, il Consiglio sovrano del Sudan, 11 membri guidati da un primo ministro civile, il politico ed economista Abdalla Hamdok. Una mossa negoziata con le Forze per la Libertà e il Cambiamento (FFC), libera coalizione di esponenti della società civile ed ex gruppi ribelli del Darfur. L’obiettivo, il solito: arrivare ad elezioni legislative entro il 2024. Ma anche in questo caso, non c’è stato niente da fare. Il 25 ottobre 2021, il generale al-Burhan - lo ricordate? quello che aveva assunto la guida del Consiglio militare di transizione subito dopo il colpo di Stato del 2019 - e altri alti ufficiali (tra cui il generale Dagalo) hanno estromesso il governo civile e arrestato il primo ministro Hamdok (poi rilasciato grazie alle pressioni internazionali) e diversi membri del suo gabinetto. 

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Per aver ancora più chiaro chi ha sostituito al-Bashir ricordiamo che il generale Dagalo è a capo delle temute Rapid Support Forces (RSF). Nel frattempo, era stata fissata una nuova scadenza per la consegna del potere ai civili prima delle elezioni, luglio 2022. Altra cosa necessaria in questa narrazione è cercare di tenere uniti tutti i fili di questa ingarbugliata matassa dove sono in ballo anche interessi economici - ad esempio lo sfruttamento delle miniere d’oro e il coinvolgimento diretto di personaggi come Dagalo nelle transazioni commerciali con i paesi acquirenti - e dove la propaganda e la disinformazione guidata da oligarchi russi amici dei personaggi citati rende tutto più confuso. A proposito - e non è un semplice inciso, ma un punto fondamentale – i membri di questo governo di transizione sono anche amici dei vertici del Cremlino e stanno da tempo tessendo strette relazioni politiche e commerciali. 

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Una ricostruzione degli avvenimenti degli ultimi anni era importante per capire la piega che stanno prendendo gli eventi nel terzo paese più esteso del Continente, con una popolazione che sta per toccare i 46 milioni di abitanti e dove l’età media è pari a 18,9 anni. Giovani, giovanissimi, strozzati tra giochi di potere e violenze. Sono proprio loro i maggiori protagonisti - e le vittime - di un copione che continua a ripetersi. 

Nella May 19  Marches of Millions, come è stata definita dai suoi organizzatori, almeno 125 persone sono rimaste ferite e una è rimasta uccisa negli scontri nella capitale e a Omdurman. Ad affermarlo sono i medici aderenti alla Central Committee of Sudan Doctors, testimoni diretti di attacchi inauditi sulla folla, con gas lacrimogeni lanciati dalle forze di sicurezza. Secondo i testimoni le proteste sono state l’occasione per avviare una nuova campagna di arresti. A portare via i giovani attivisti, alcuni addirittura minorenni – è stato raccontato – sono stati uomini mascherati e in abiti civili che si muovevano su “auto Thatcher” prive di targa. Si tratta di pick-up Toyota Land Cruiser da sempre utilizzati dai famigerati National Intelligence and Security Services (NISS) e dalle Rapid Support Forces (RSF). Insomma, niente spazio ai dubbi. 

Dall’ottobre dello scorso anno 96 persone (tenendo conto solo delle cifre ufficiali) sono state uccise e più di 1.500 sono detenute. E sembra una beffa il rilascio di 17 prigionieri politici – assicurato al tavolo delle trattative con i mediatori internazionali – quando moltissimi altri rimangono dentro a subire abusi e anche torture. E molti di loro, ripetiamo, sono minorenni. Resistono, ognuno a suo modo, perché non c’è un’alternativa.

Così nascono gli eroi, a spingere gli altri e dare forza. È il caso di un giovane che alterna l’insegnamento informale a ragazzi che vivono in strada alle proteste in piazza indossando un costume da spider-man. È il suo modo di resistere a chi – dice – “ci ha rubato la rivoluzione”. Ma a dare speranza che quella rivoluzione non è stata inutile sono anche vere e proprie guerriere come l’attivista Amira Osman Hamed, un ventennio di lotte dedicate ai diritti delle donne, più volte presa di mira e arrestata, l’ultima a gennaio scorso (è stata rilasciata a febbraio) quando è stata prelevata dalla sua casa da uomini incappucciati, è che oggi è stata insignita del Front Line Defenders Awards, assegnato a chi protegge i diritti umani spesso a rischio della propria vita. A livello di organizzazione le proteste vedono due gruppi, la Neighborhood Resistance Committees (NRCs) formata da una società civile che proviene dai quartieri più poveri della capitale e la Forces for Freedom and Change (FFC) che in questi giorni sta tentando di portare avanti consultazioni con le forze della rivoluzione per formare un fronte più compatto e organizzato. 

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Intanto il caos economico è alle porte. Da ottobre 2021 la Banca Mondiale ha bloccato il sostegno economico al paese per uscire dall’emergenza (due miliardi di dollari) e lo stesso hanno fatto gli Stati Uniti che, all’indomani del golpe del 25 ottobre, hanno congelato i 700 milioni di dollari promessi. Dopo anni di isolamento del paese e sanzioni, sarebbero stati davvero una boccata di ossigeno. Ora le previsioni sono oscure. Ad aprile i prezzi sono aumentati del 15% rispetto a marzo e del 250% rispetto al 2021. Entro settembre 18 milioni di sudanesi soffriranno di fame acuta e a questo si aggiunge la scarsità di raccolti e il rischio di nuove esplosioni di violenza in Darfur. 

È rimasto poco tempo per trovare una soluzione alla crisi politica, se non si agirà con urgenza le conseguenze supereranno i confini nazionali e impatteranno un’intera generazione”. Un appello quasi disperato quello lanciato nel corso dell’ultimo tavolo dell’United Nations Integrated Transition Assistance Mission in Sudan (UNITAMS). Fatto sta che il Sudan è sempre più spostato verso la Russia e – di conseguenza – l’Occidente è sempre più lontano. E le sue parole cadono nel vuoto. La guerra in corso in Ucraina non sta facendo che rafforzare il legame tra il Cremlino e i militari sudanesi. Del resto, già qualche anno fa, si faceva notare quanto l’evolversi della situazione in Sudan ricordi quanto accaduto in Siria. Lì, il governo di Bashar al-Assad per placare i disordini interni si è avvalso del sostegno militare russo, non disdegnando anche quello dei mercenari del gruppo Wagner. 

Immagine in anteprima: frame video Africa News

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