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Sudan: il colpo di Stato, le proteste, le vittime

10 Gennaio 2022 8 min lettura

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Sudan: il colpo di Stato, le proteste, le vittime

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È passata una settimana da quando Abdalla Hamdok ha annunciato le dimissioni da primo ministro con un discorso trasmesso in diretta televisiva. La decisione è arrivata sei settimane dopo che l'economista era tornato al suo posto. Il 25 ottobre dello scorso anno, infatti, era stato arrestato a seguito di un colpo di Stato voluto dal generale Abdel Fattah al-Buhran, a capo del Consiglio sovrano di transizione. I vertici militari avevano motivato la decisione definendola una “correzione” necessaria per stabilizzare il paese verso il governo civile, salvo poi tornare sui loro passi e, dopo un accordo in quattordici punti, restituire a Hamdok la carica di capo del governo per portare avanti il tentativo di raccogliere il consenso necessario intorno a un nuovo esecutivo di transizione che sarebbe stato comunque sottoposto al controllo militare.

Ma il movimento pro-democrazia ha rifiutato quell'accordo chiedendo la formazione di un esecutivo composto esclusivamente da civili e Hamdok non è riuscito nell'intento. Migliaia di persone in tutto il paese hanno protestato per giorni (e continuano a farlo) contro la presa del potere dei militari e il tradimento del primo ministro, colpevole di aver accettato un compromesso con al-Buhran.

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Secondo quanto riferito da Al Jazeera, fonti vicine a Hamdok, affermano invece che il politico si sia dimesso perché contrario alla decisione di al-Burhan di ripristinare il temuto servizio di intelligence e perché stanco del rifiuto del generale di permettergli di nominare liberamente i membri del suo gabinetto.

Nel discorso di dimissioni Hamdok ha evidenziato la necessità di un confronto che definisca una nuova “Carta nazionale” e che “tracci una tabella di marcia” per completare la transizione del Sudan verso la democrazia.

«Ho deciso di restituire il mandato e annunciare le mie dimissioni da primo ministro per dare la possibilità a un altro cittadino o cittadina di questo nobile paese di aiutarlo ad andare avanti in quel che resta del periodo di transizione verso un paese democratico civile», ha detto.

Nel suo intervento l'ex capo del governo ha avvertito che il Sudan – che sta vivendo una forte crisi economica – si trova a un “bivio pericoloso che minaccia la sua stessa sopravvivenza”.

Sono molti a chiedersi cosa accadrà adesso, all'indomani dell'uscita di scena di Hamdok grazie al quale il Fondo monetario internazionale (IFM) ha concesso al paese la riduzione di oltre 50 miliardi di dollari (il 90 per cento) di debito estero e l'accesso a nuovi fondi.

Le dimissioni hanno quindi gettato ancora più nell'incertezza il futuro del Sudan, a quasi tre anni dalle proteste che hanno provocato la caduta di Omar al-Bashir, al potere da oltre trent'anni.

Economista ed ex funzionario delle Nazioni Unite Hamdok era diventato primo ministro nel 2019 grazie a un accordo di condivisione del potere con i militari che avevano destituito al-Bashir. Col suo rientro a novembre aveva fissato la data delle prossime elezioni multipartitiche che si dovrebbero svolgere nel luglio del 2023.

La decisione del primo ministro è arrivata poche ore dopo che le forze di sicurezza sudanesi avevano disperso violentemente migliaia di manifestanti nelle ennesime proteste contro il colpo di Stato, uccidendo almeno tre persone, secondo quanto riferito dal Comitato centrale dei medici sudanesi (CCSD).

Il gruppo medico, che fa parte del movimento pro-democrazia, ha affermato che una delle vittime era stata colpita “violentemente” alla testa mentre partecipava a una marcia di protesta nella capitale sudanese, Khartoum. Una seconda persona era stata invece colpita al petto nella città gemella di Khartoum, Omdurman, mentre decine di manifestanti erano rimaste ferite.

Le proteste vanno avanti ormai da giorni nonostante l'aumento progressivo delle forze di sicurezza e il blocco di ponti e strade sia a Khartoum che a Omdurman. Secondo l'organizzazione di vigilanza che monitora la sicurezza informatica e la governance di Internet NetBlocks la connessione a Internet è stata interrotta prima delle manifestazioni di domenica 2 gennaio, come accade ripetutamente dal colpo di Stato di ottobre.

Giovedì scorso, tre giorni dopo le dimissioni di Hamdok, le forze di sicurezza sudanesi hanno ucciso almeno altri tre manifestanti anti-golpe. In migliaia si erano radunati ancora una volta in tutto il Sudan per opporsi al governo militare.

Due dimostranti hanno perso la vita a Omdurman, mentre nel distretto di Bahri della capitale sudanese un manifestante è stato ucciso a colpi di arma da fuoco, secondo quanto riferito da un attivista e dal CCSD.

Rivolte sono scoppiate anche a Port Sudan, nell'area orientale del paese, ad Atbara, a nord, e a Wad Madani, a sud.

Il giorno prima il segretario di Stato americano Antony Blinken si era appellato alle forze di sicurezza sudanesi affinché “cessassero l'uso letale della forza contro i manifestanti e portassero avanti un'indagine indipendente”.

Anche ieri migliaia di persone hanno preso parte a manifestazioni nella capitale e a Omdurman. Almeno un dimostrante è stato ucciso a Khartoum colpito al collo da un lacrimogeno lanciato dalle forze di sicurezza.

Tra i manifestanti anche medici in camice bianco che hanno protestato contro le irruzioni delle forze di sicurezza negli ospedali e nelle strutture mediche durante i cortei precedenti.

Dopo le manifestazioni di ieri sale a sessantadue il bilancio totale delle vittime dal 25 ottobre, come riferito dal CCSD. Per la maggior parte si tratta di dimostranti, nonostante l'esercito avesse detto che avrebbe consentito lo svolgimento di proteste pacifiche e tenuto conto dei responsabili della violenze.

«I nostri cortei continueranno fino a quando non ristabiliremo il corso della nostra rivoluzione e non avremo un governo civile», ha detto ad AFP Mojataba Hussein, un manifestante di 23 anni.

Un altro dimostrante, il 22enne Samar al-Tayeb, ha promesso: «Non ci fermeremo finché non ci riprenderemo il nostro paese».

“Continueremo ad occupare le strade, dirigendoci verso il palazzo del tiranno, rifiutando il governo militare e rispettando la pace, la nostra arma più forte”, si legge in una dichiarazione dei comitati di resistenza che organizzano proteste a Bahri.

Martedì scorso, Stati Uniti, Unione europea, Norvegia e Regno Unito hanno chiesto ai militari di non nominare unilateralmente il successore di Hamdok, avvertendo che “non sosterranno un primo ministro o un governo nominato senza il coinvolgimento di un'ampia schiera di parti coinvolte del mondo civile” e minacciando, in caso contrario, la sospensione degli aiuti economici.

Per Al Jazeera, secondo alcune informazioni non confermate, i leader militari avrebbero già interpellato Ibrahim Elbadawi, ex ministro delle finanze del governo Hamdok nel 2019.

«Credo che Elbadawi sia un uomo integro che non accetterebbe mai di diventare l'esponente di spicco di un'autorità che di fatto è controllata e diretta dai militari», ha affermato Suliman Baldo, esperto di Sudan per The Sentry, un'organizzazione che si occupa di corruzione in Africa.

«I militari possono continuare a uccidere i sudanesi nelle strade oppure agire in modo responsabile facendo un passo indietro e consentendo a un esecutivo di transizione guidato da civili di governare».

Kholood Khair, dirigente di Insight Strategy Partners, un think tank con sede a Khartoum, aveva previsto l'inasprimento della repressione dei militari per provocare la violenza di strada. In questo modo, ha affermato, i militari possono dipingere il movimento pro-democrazia come un gruppo di giovani uomini infuriati che rappresentano una minaccia per la sicurezza nazionale.

«I militari vogliono che le strade perdano credibilità, così da poter dire che stanno reprimendo un'insurrezione violenta. Potrebbero quindi definire la violenza [di strada] come vogliono. Potrebbero attaccarci l'etichetta di terrorismo», ha detto Khair.

Le forze di sicurezza, inoltre, stanno cercando di controllare la narrazione di quanto sta avvenendo nel paese controllando la stampa. Durante le proteste di massa del 30 dicembre, agenti hanno fatto irruzione negli studi delle emittenti televisive e aggredito i giornalisti. Ciò è avvenuto pochi giorni dopo che sono stati conferiti loro ampi poteri e immunità.

Tuttavia, le proteste non hanno mostrato segni di cedimento, suscitando timori che una situazione di stallo prolungata possa far precipitare del tutto il paese.

Lo scenario peggiore potrebbe vedere la frattura all'interno delle forze di sicurezza, ha avvertito Jihad Mashamoun, ricercatore e analista politico sudanese. Esiste un rischio concreto che i giovani ufficiali dell'esercito possano provare a rovesciare al-Burhan e la vecchia guardia militare. E di questo al-Burhan è consapevole.

Nonostante l'incertezza e la crescente violenza, gli analisti concordano sul fatto che i partiti politici sudanesi e le potenze occidentali dovrebbero mettere alle strette i militari unendosi dietro le richieste del movimento pro-democrazia.

Un modo per farlo è sostenere i “comitati di resistenza” del Sudan, una rete decentralizzata di gruppi di quartiere che sta guidando il movimento e che a breve illustrerà una roadmap politica allo scopo di spingere i partiti ad accogliere le istanze della volontà popolare.

Sabato scorso le Nazioni Unite hanno annunciato che prossimamente si svolgeranno, in Sudan, dei colloqui per cercare di proteggere la fragile transizione democratica.

Volker Perthes, l'inviato ONU per il Sudan, ha dichiarato che verrà cercato insieme un “percorso sostenibile verso la democrazia e la pace” nel paese.

“È ora di porre fine alla violenza ed entrare in un processo costruttivo. Questo processo sarà inclusivo”, ha detto Perthes che ha precisato che saranno coinvolti tutti: militari, gruppi ribelli, partiti politici, movimenti di protesta, gruppi di donne e società civile.

Il gruppo Quad, di cui fanno parte Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito e Stati Uniti, ha espresso sostegno alla proposta delle Nazioni Unite.

“Sosteniamo fermamente questa iniziativa di dialogo guidata dalle Nazioni Unite e dal Sudan”, si legge in una dichiarazione del gruppo. "Esortiamo tutti gli attori politici sudanesi a cogliere questa opportunità per ripristinare la transizione del paese verso la democrazia civile".

La principale coalizione di opposizione civile del Sudan, Forces of Freedom and Change (FFC), ha affermato di accogliere con favore “qualsiasi sforzo internazionale che contribuisca al raggiungimento degli obiettivi del popolo sudanese nella lotta al colpo di Stato e nella creazione di uno Stato civile e democratico” ma di non aver ricevuto alcun dettaglio sull'iniziativa.

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L'Associazione dei Professionisti sudanesi (SPA) – tra i promotori delle proteste contro il colpo di Stato – ha invece “respinto” la proposta.

“Il modo per risolvere la crisi sudanese inizia con il rovesciamento completo del consiglio militare golpista e la consegna dei suoi membri affinché si faccia giustizia per gli omicidi commessi contro l'indifeso e pacifico popolo sudanese”, ha scritto in una nota.

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