La guerra in Sudan è sempre più feroce e sempre meno raccontata
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In Sudan da aprile va avanti una sanguinosa guerra tra l’esercito e i paramilitari che il 26 ottobre hanno annunciato di aver preso il controllo di Nyala, la seconda città più grande del paese. Non è che l’ultimo capitolo di un conflitto che ha già fatto più di 10mila vittime, tra cui centinaia di civili: ci sono 4,8 milioni di persone sfollate all’interno del paese, e altre 1,2 milioni che sono fuggite negli Stati vicini. Le violenze si concentrano soprattutto nella regione del Darfur, dove già negli anni Duemila c’era stata una sanguinosa guerra durata quasi vent’anni, che aveva provocato centinaia di migliaia di morti. Nel Darfur, afferma Human Rights Watch, sono in atto nuovi omicidi etnici di massa che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non può ignorare.
A scontrarsi da un lato c’è l’esercito ufficiale, comandato dal presidente del paese, il generale Abdel Fattah al Burhan, dall’altro ci sono i paramilitari delle Rapid Support Forces (RSF), sotto il comando del generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto anche come Hemedti. In questi mesi ci sono stati diversi tentativi di tregua, ma è sempre stata violata, da una parte o dall’altra. Nelle ultime settimane quella che sembrava una fase di stallo si è trasformata in un’avanzata delle RSF: secondo alcuni funzionari a pesare sarebbe stato l’invio di armi da parte degli Emirati Arabi Uniti, attraverso il Gruppo Wagner – anche se gli Emirati affermano di non sostenere nessuna delle due parti – e il supporto dell’Egitto.
A inizio novembre più di mille persone della comunità Masalit sarebbero state uccise ad Ardamta, nel Darfur occidentale, dalla RSF e dalle milizie arabe alleate. La coordinatrice dell’ONU per l’emergenza umanitaria in Sudan, Clementine Nkweta-Salami, ha parlato di “orrende violenze” e ha detto che “si va verso il male assoluto”. Questa situazione ha portato l’Unione Europea a lanciare un appello: il mondo non può permettere che si ripeta il genocidio dei primi anni 2000. Nonostante le dichiarazioni, però, i paesi occidentali non stanno intervenendo per cercare una soluzione al conflitto, e la popolazione si sente abbandonata: ai rifugiati manca cibo e beni di prima necessità, e le Nazioni Unite hanno dichiarato che tra poche settimane finirà il cibo inviato per 500mila persone sfollate in Ciad, senza che ci siano ulteriori finanziamenti.
I media, nel frattempo, si stanno concentrando su quanto sta accadendo a Gaza e in Ucraina, si occupano sempre meno della guerra in Sudan, percepita come remota e destinata a durare ancora a lungo, tanto che il generale Attilio Claudio Borreca nei quaderni del ministero della Difesa italiano parla di un “conflitto dimenticato”.
Il Sudan è un paese strategico per varie ragioni, sia politiche sia militari: si estende in una regione instabile e geopoliticamente cruciale, ha un affaccio sul Mar Rosso – una delle rotte marittime più trafficate e contese del mondo – e il suo sottosuolo è ricco di risorse naturali, in primis l’oro. Non ultimo, è uno dei principali punti di partenza per i migranti che dall’Africa subsahariana vanno in Libia, per poi imbarcarsi nel Mediterraneo e arrivare in Italia.
Ma, per capire cosa sta succedendo, facciamo un passo indietro. Come siamo arrivati fin qui? La storia recente del Sudan, il terzo paese più grande dell’Africa, è particolarmente travagliata: negli ultimi quattro anni la popolazione è passata da una lunga dittatura alla promessa di democrazia, fino ad arrivare oggi al “rischio di un vero e proprio genocidio”, come ha dichiarato pochi giorni fa l’esperta delle Nazioni Unite sui genocidi, Alice Wairimu Nderitu.
Nell’aprile 2019 una rivoluzione ha portato alla caduta del regime di Omar al-Bashir, che era rimasto al potere per trent’anni. Dopo una breve parentesi democratica, nell’ottobre del 2021 i due generali Burhan e Dagalo (quest’ultimo già leader delle RSF) avevano unito le forze per rovesciare il governo civile con un colpo di stato: da allora il paese è governato da una giunta militare, di cui Burhan era il capo e Dagalo il vice.
L’alleanza tra i due però è durata poco. Dopo aver ricevuto forti pressioni internazionali, a dicembre del 2022 il governo militare aveva acconsentito a riprendere il percorso di democratizzazione e restituire il potere a un’amministrazione civile. Una delle condizioni dell’accordo era che le RSF si sciogliessero e si integrassero nell’esercito regolare: Dagalo allora si è opposto, e ha iniziato a scambiarsi accuse durissime con Burhan. Le tensioni sono aumentate fino a questa primavera, quando è scoppiata la guerra.
Gli analisti oggi si chiedono: come potrebbe risolversi questo conflitto? Non esistono soluzioni semplici. Una prospettiva è che il Sudan possa essere diviso in due zone, come è accaduto in Libia. Le RSF però non hanno alcuna esperienza di governo, mentre la coalizione guidata dal generale Burhan oggi scricchiola sempre di più. Entrambe le parti hanno accettato di riprendere i negoziati di pace a Gedda, in Arabia Saudita, ma ancora non è chiaro quando inizieranno e le prospettive non sono le migliori: attualmente, con le RSF che avanzano, Dagalo non ha motivo di fare concessioni, mentre Burhan nega la necessità di scendere a patti con i paramilitari. In tutto questo, la popolazione continua a vivere nell’incubo della guerra e l'aspirazione a un governo democratico sembra una prospettiva sempre più lontana.
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