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Sudan, non chiamatela guerra civile: i civili sono vittime o sopravvissuti di una lotta fra due individui accecati di potere

6 Maggio 2023 7 min lettura

Sudan, non chiamatela guerra civile: i civili sono vittime o sopravvissuti di una lotta fra due individui accecati di potere

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[…] Esistere, in questo preciso momento è così duro… che la notte scorsa… solo la notte scorsa, ero lì e facevo parte di qualcosa… e pioveva… e ridevamo e cantavamo e ci tenevamo per mano e intonavamo slogan contro la fottuta autorità impegnata a pianificare la nostra morte.
(Rajaa Bushara, giovane poetessa sudanese)

Sperare è diventato un lusso che in Sudan nessuno può più permettersi. A cominciare dai giovani. Quelli che hanno visto i loro amici, compagni, fratelli e sorelle morire sotto i loro occhi solo per aver creduto che una rivoluzione pacifica avrebbe potuto garantire pace, libertà, giustizia. Ci credevano, quando nel 2019 sono scesi in piazza per ribaltare tre decenni di dittatura, quella di Omar al-Bashir. E di fatto ci erano riusciti. Solo che – come dimostra quanto sta accadendo dal 15 aprile scorso, data in cui sono cominciate le ostilità tra le Forze Armate Sudanesi (SAF) guidate da Abdel Fattah al-Burhan e le Rapid Support Forces (RSF) con a capo Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemeti – la loro lotta e il loro entusiasmo sono stati usati da chi oggi li bombarda letteralmente nelle loro case.

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È stato chiaro da subito che le cose non sarebbero andate per il verso giusto. Perché, già a pochi mesi dalla rivoluzione, il nuovo governo di transizione formato dalla giunta militare (sopraggiunta alla ribellione della popolazione e alla deposizione di al-Bashir) reagiva con un massacro – ricordato come il massacro di Khartoum - alle proteste dei giovani sudanesi che chiedevano (sempre in modo pacifico) che si rispettasse la promessa di un governo civile e non militare. Era il 3 giugno 2019. Vi trovarono la morte circa 130 persone, giovani. Oltre 650 feriti.

Rajaa Bushara era lì. Oggi è barricata in casa alla periferia di Khartoum. Con la sua famiglia e alcuni vicini. Si sentono più sicuri insieme, anche se di sicurezza non si può affatto parlare. “Sentiamo i combattimenti, gli aerei che passano sopra le nostre teste e che potrebbero colpirci in ogni momento”, ci racconta. Lei e la sua famiglia non sono riusciti a scappare: “Non sappiamo cosa accadrà, la situazione è caotica. È difficile trovare cibo, medicine, molti amici hanno lasciato il paese. Viviamo in un costante stato di stress, di paura. Le scuole sono chiuse e i bambini terrorizzati”.

“Avevamo fiducia che le cose potessero andare diversamente, ma ora tutto è diverso. Non sappiamo cosa ci porterà il futuro e la maggioranza di noi non crede che la comunità internazionale possa fare qualcosa. I leader di questa guerra non ascolteranno nessuno. Solo loro possono decidere di finirla o continuare a massacrarsi e a massacrarci”. Rajaa non ha tempo per la poesia ora, tutti i sensi sono tesi a percepire il pericolo. Ma la paura rimane ancorata dentro. Anche in chi è riuscito a lasciare il paese. R.Y. ci ha chiesto di non scrivere il suo nome. Le chiediamo il motivo. “Non lo so – risponde – non mi sento sicura. Forse è paranoia e comunque non sono abituata alla libertà di espressione”.

R. giovane donna che in passato aveva creduto nella forza del popolo e aveva preso parte alle manifestazioni pacifiche per cambiare le sorti del suo paese, ora si trova negli Emirati Arabi. Il viaggio è stato lungo, pericoloso, “e non sapevamo come sarebbe andata a finire”. Il negozio di elettronica di suo padre è stato saccheggiato e così hanno tentato la fuga attraverso il confine etiope. “Le attese sono lunghe ed estenuanti, la gente dorme per terra ed è impossibile lavarsi, andare al bagno e molti rimangono senza cibo per giorni – dice – ma ho sentito amici che al confine con l’Egitto hanno avuto più problemi di noi. Abbiamo membri della famiglia che lavorano all’estero ed è su di loro che oggi contiamo per sopravvivere. Ma la gente che è rimasta è terrificata. Come lo ero io e lo sono ancora. Sono andata a dormire pensando che il giorno dopo sarei andata a sistemarmi i capelli, mi sono svegliata con il rumore spaventoso delle armi”.

“La cosa più assurda – sottolinea – è che tutto questo era prevedibile. Era solo questione di tempo”. È quanto afferma anche Khalid Albaih, corrispondente per varie testate estere. Consentire ad Hemeti di far parte del governo di transizione, “anteponendo, queste le intenzioni, la stabilità alla democrazia”, ha in realtà procrastinato - ci dice - quello che oggi sta accadendo. E di questo, sottolinea il giornalista, è pienamente responsabile la comunità internazionale e lo stesso Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Con il risultato, oggi, di dover sperare che prevalga il “male minore”, vale a dire l’esercito, le Forze Armate Sudanesi. Il contrario sarebbe il caos totale – ancor più di quello attuale – con un paese nelle mani delle milizie di Hemeti, eredi dei janjaweed di cui la popolazione è terrorizzata e che sono diventati tristemente noti per il genocidio in Darfur. “Questa non è la nostra guerra – afferma dal canto suo, Zuelkefl Shakir, giovane attivista – e fin dall’inizio siamo stati contrari alle negoziazioni e ai compromessi”. Shakir ricorda appunto il ruolo della Resistance Committee, inascoltata allora come oggi nella richieste di pace e di un governo formato da civili dopo la caduta di al-Bashir. “Nessuno ci ha ascoltato, incluso Volker  Perthes, rappresentante speciale dell’ONU per il Sudan, che in diverse dichiarazioni, anzi, ha accusato la Resistance Commettee di non essere collaborativa. Oggi noi continuiamo a chiedere un governo democratico e lo smantellamento totale della Rapid Support Militia. Fino a quando questo obiettivo non sarà raggiunto il Sudan rimarrà nel caos”.

A pagare le conseguenze di questo caos, come dicevamo, è la popolazione sudanese. Perlopiù barricata in casa. Case che però non rappresentano un rifugio, ma un target sia da una parte che dall’altra. Le violenze, soprattutto - ci dicono - da parte delle RSF, sono brutali. Saccheggi, uccisioni indiscriminate, stupri – nei confronti di donne ma anche di uomini. “Non chiamatela guerra civile - ha esortato fin dai primi giorni Deema Saeed, conosciuta sui social come @queenasadoya. “In questa storia i civili sono vittime o sopravvissuti. Quello a cui stiamo assistendo è una lotta tra due persone accecate dal potere”. Deema ritorna al ruolo dei giovani: “Traditi più volte – afferma – anche dalla comunità internazionale che dopo lo sforzo per rovesciare il regime di Bashir ha preteso che ci accontentassimo. Che ci accontentassimo di un governo con potere condiviso e in mano a uomini sbagliati. Non lo meritavamo”. Inoltre, continua, “in tutto questo tempo la stampa internazionale si è molto concentrata sul ruolo che gli altri paesi o realtà come Wagner, hanno giocato e stanno giocando in Sudan, tralasciando la voce e le richieste dei cittadini, ma in particolare dei giovani. Ed è ai giovani di tutto il mondo che chiediamo di farsi sentire”.

In Sudan, la fascia di età tra i 15 e i 30 anni costituisce il 68% della popolazione – che è pari a circa 46 milioni di abitanti. Analisti e commentatori hanno sempre sottolineato il ruolo delle giovani generazioni nella ricostruzione politica e morale del Sudan post-Bashir, ma sta accadendo esattamente il contrario. Il loro futuro è nelle mani di due uomini, potenti e violenti, sostenuti per interessi vari da forze straniere, che non hanno intenzione di cedere e le cui ambizioni potrebbero risolversi nell’allargamento del conflitto – finora concentrato soprattutto nella capitale Khartoum per il controllo di sedi strategiche, come il palazzo presidenziale – non solo al resto del paese ma anche in altri Stati. Tra questi Sud Sudan, Egitto, Etiopia, Ciad. Senza contare i ruoli giocati dalla Russia (con il gruppo paramilitare Wagner a sostegno di Hemeti), dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi e dagli USA che non vogliono perdere l’occasione di estendere la propria influenza nell’area. Mentre ben presto potrebbe esplodere una vera e propria crisi umanitaria nei paesi confinanti che stanno accogliendo i rifugiati e che non si sa per quanto continueranno ad accogliere e a sostenere l’emergenza.

In realtà – così come non è chiaro il numero delle vittime degli scontri dei giorni scorsi, (si parla di un numero compreso tra 500 e 700 individui) non lo è neanche quello delle persone che sono riuscite finora a lasciare il paese. Le cifre ufficiali fornite dall’UNHCR parlano (al 2 maggio) di 100.000 persone con una previsione di oltre 800.000 che lasceranno il paese nelle prossime settimane. Ma va sottolineato che molti di loro pur volendo non potranno farlo. Non potranno scappare. In questi giorni tantissimi cittadini hanno denunciato il fatto che i loro passaporti sono stati trattenuti nelle Ambasciate da cui erano in attesa di ricevere visti. “Alcune di quelle stesse Ambasciate che hanno in fretta e furia messo in salvo il proprio staff e i propri cittadini che si trovavano nel paese, hanno trattenuto o addirittura tagliato i passaporti – dice Deema Saeed. Hanno detto che faceva parte del protocollo e di rivolgersi alle autorità locali. Quali autorità, visto che non ce n’è alcuna in questo momento. Tutto questo non solo è irresponsabile ma inumano. Sarebbe stata una cosa semplice garantire alle persone di mettersi in salvo. Ma hanno pensato solo a salvare sé stessi”.

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Intanto - a dimostrazione di quanto le parti sul campo differiscano riguardo agli intenti, le promesse e gli “accordi” con  la comunità internazionale – i combattimenti a Karthoum continuano, nonostante il cessate il fuoco richiesto e accettato dalle parti e che sarebbe dovuto durare una settimana per consentire interventi umanitari. Un brutto segnale. Che va ad aggiungersi a tutto il resto.

Immagine in anteprima via analisidifesa.it

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