Il Sudan senza pace. Un nuovo genocidio in Darfur 20 anni dopo?
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La crisi umanitaria in Sudan sta raggiungendo proporzioni catastrofiche dopo tre mesi di combattimenti tra le forze armate sudanesi e l’organizzazione paramilitare Rapid Support Forces (RSF) e di cessate il fuoco sistematicamente non rispettati.
I colloqui di pace sono in un vicolo cieco: le parti in conflitto non hanno interesse a raggiungere una tregua, il loro unico interesse è cercare di consolidare il proprio potere, avvertono le Nazioni Unite. E intanto la distruzione di insediamenti e infrastrutture, che si aggiunge alla devastazione generale causata dal conflitto, sta provocando ondate massicce di sfollamenti e violazioni dei diritti umani.
“I combattimenti più cruenti si stanno svolgendo intorno alla capitale Khartoum e nel Darfur”, spiega a DW Ahmed Soliman, ricercatore sul Corno d'Africa presso il think tank londinese Chatham House.
Secondo gli ultimi dati pubblicati dall'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), più di 3 milioni di persone sono state costrette a fuggire in questi tre mesi di conflitto. Tra questi, spiega ancora Soliman, due milioni sono sfollati interni, più della metà minori. Almeno 180.000 persone sono state costrette a cercare sicurezza nel vicino Ciad, soprattutto quelle in fuga dalle violenze nel Darfur, dove è stata rinvenuta una fossa comune contenente i resti di almeno 87 persone, anche della popolazione non araba dei Masalit, la comunità più popolosa della città, secondo quanto dichiarato dalle Nazioni Unite. Il che contribuisce a rendere questo conflitto ancora più esplosivo, aggiunge Soliman, poiché la violenza nel Darfur è di natura etnica e segue dei modelli ciclici. Nel 2003 più di 300.000 persone sono state uccise e 2,5 milioni sono state sfollate, quando il governo centrale diede il potere alle RSF di combattere le tribù non arabe in rivolta, in quello che è considerato il primo genocidio del XXI secolo.
Venti anni dopo la storia sembra tornare a ripetersi nelle medesime modalità. Prima gli aggressori hanno assediato la città, bruciando il mercato principale e impedendo l'ingresso di cibo e forniture mediche. Poi i miliziani hanno proceduto metodicamente a distruggere qualsiasi cosa - ospedali, scuole, elettricità e telecomunicazioni - di cui la popolazione di El-Geneina potesse avere bisogno per sopravvivere. “È stato un atto sistematico”, afferma a The Economist Nathaniel Raymond, osservatore del conflitto presso l'Università di Yale.
Il 14 giugno il governatore del Darfur occidentale aveva lanciato un appello per un intervento straniero per fermare quello che aveva definito “un genocidio”. Il giorno dopo è stato assassinato in quello che Raymond non ha esitato a definire un “omicidio totemico in stile Isis”, riferendosi ai jihadisti che scelgono i principali oppositori da assassinare in Medio Oriente e in Africa. Nelle 48 ore successive, migliaia di persone hanno tentato la fuga, altrettante – si parla di un bilancio che va dalle 1.100 alle 5.000 vittime – sono state uccise.
I rifugiati di El-Geneina raccontano di miliziani arabi armati che vanno di porta in porta e sparano a giovani uomini morti sul posto. Sulla strada verso il Ciad, altri miliziani armati ai posti di blocco improvvisati hanno derubato e sparato ai civili in fuga dalla morte.
Un'associazione di medici del Darfur, che monitora la situazione, ha paragonato l'intensità della violenza ai massacri del genocidio ruandese del 1994. Medici Senza Frontiere ha definito El-Geneina “uno dei posti peggiori della Terra”.
“Questa è la peggiore guerra che ho visto in 20 anni di lavoro come operatore umanitario”, dice Justine Muzik di Solidarités International, un'organizzazione umanitaria con sede in Francia, che si trovava a El-Geneina alla fine di giugno. I video diffusi sui social media mostrano combattenti che pronunciano insulti etnici e si vantano di aver trasformato l'area in una zona araba. Volker Perthes, rappresentante speciale delle Nazioni Unite in Sudan, ha descritto la guerra nel Darfur occidentale come una “pulizia etnica su larga scala”.
All’epoca, il governo di Omar al-Bashir armò mandriani arabi nomadi contro la ribellione di tribù di contadini africani, come i Masalit. Queste milizie di mandriani arabi, famose per gli stupri e il saccheggio dei villaggi, sono diventate note come Janjaweed: "Diavoli a cavallo, guidati da Dagalo, attuale leader delle RSF", scrive The Economist. Dagalo aveva trasformato i Janjaweed nelle attuali RSF e ora aspira a governare il Sudan.
I Janjaweed di oggi utilizzano tattiche, tecniche e procedure identiche a quelle degli anni Duemila. Hanno cambiato solo come si muovono: non vanno più a cavallo e poco armati, “si spostano molto velocemente, nascosti sul retro di camioncini e usano armi letali”, dice un operatore delle Nazioni Unite a The Economist.
Today's update [June 12] is an urgent message to all those following events in Sudan, particularly those of the intl community involved in efforts to "resolve" the situation -- from the US/KSA to IGAD to the AU/UN:
— Munchkin (@BSonblast) June 13, 2023
A genocide is taking place in West Darfur. #KeepEyesOnSudan
L’UNHCR ha affermato di essere in possesso di “informazioni credibili” che attribuiscono alle RSF la responsabilità delle uccisioni, risalenti allo scorso giugno. Tra le vittime anche sette donne e sette bambini, uccisi nella capitale del Darfur occidentale, El-Geneina, tra il 13 e il 21 giugno. Le RSF avrebbero costretto la popolazione a seppellire i corpi alla periferia della città, secondo l'ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani.
“Condanno con la massima fermezza l'uccisione di civili e sono ulteriormente sconcertato dal modo insensibile e irrispettoso in cui sono stati trattati i morti, le loro famiglie e le loro comunità”, ha dichiarato l'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk in un comunicato. Türk ha chiesto “un'indagine rapida, approfondita e indipendente sulle uccisioni” e ha affermato che i colpevoli saranno chiamati a risponderne.
Le RSF hanno negato ogni responsabilità rispetto “agli eventi nel Darfur occidentale, poiché non siamo parte in causa e non siamo stati coinvolti in un conflitto di natura tribale". Ma può essere difficile distinguere i suoi combattenti dagli attuali Janjaweed. Un'altra fonte delle RSF ha dichiarato alla Reuters che le accuse nei loro confronti sono di natura politica e provengono dai Masalit e di altri e che, in caso di accertamento di responsabilità, consegneranno tutti i combattenti che avranno violato la legge.
La Corte penale internazionale (CPI) ha avviato un’indagine dopo le segnalazioni di esecuzioni sommarie, incendi di case e mercati e saccheggi a El-Geneina, e l'uccisione e gli sfollamenti forzati di civili nel Darfur settentrionale e in altre località del Darfur. Inoltre, la CPI sta esaminando le accuse di crimini sessuali e di genere, tra cui stupri di massa e presunte segnalazioni di violenze contro minori.
Sebbene secondo una risoluzione del 2005 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la giurisdizione della CPI sia limitata alla regione del Darfur, la Corte intende procedere con l’inchiesta. La CPI ha quattro mandati di arresto in sospeso relativi ai precedenti combattimenti in Darfur dal 2003 al 2008, tra cui uno contro l'ex presidente sudanese Omar al-Bashir con l'accusa di genocidio.
Il conflitto in Sudan è scoppiato a metà aprile, dopo mesi di crescenti tensioni tra l'esercito, presieduto dal generale Abdel Fattah Burhan, e le RSF, guidate dal generale Mohammed Hamdan Dagalo. Gli scontri sono iniziati 18 mesi dopo che i due generali avevano guidato il colpo di Stato militare nell'ottobre 2021, rovesciando un governo civile di transizione sostenuto dall'Occidente. Gli osservatori temono che l'intera regione sia a rischio di destabilizzazione.
Tutti i tentativi di riportare la situazione alla calma sono falliti. I cessate il fuoco tra le parti in conflitto sono stati ripetutamente infranti e i tentativi di mediazione non hanno dato alcun risultato. Il 10 luglio, l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo dell'Africa orientale (IGAD) ha invitato le parti a partecipare a un vertice di pace nella capitale etiope, Addis Abeba. Ma né Burhan né Dagalo hanno partecipato all'incontro. La RSF ha inviato un rappresentante al vertice, mentre il governo sudanese ha rifiutato di partecipare all'evento.
Il Ministero degli Esteri sudanese ha accusato il Kenya di essersi schierato con le RSF nel conflitto, “dando rifugio ai suoi membri e offrendo varie forme di sostegno”, e ha affermato che che il governo non sarà disposto a partecipare ai colloqui di pace finché il Kenya non rinuncerà alla presidenza degli Stati mediatori regionali.
Anche i colloqui di pace di maggio a Gedda, in Arabia Saudita, non hanno prodotto risultati, riducendo ulteriormente le speranze di una ricomposizione del conflitto tra le due fazioni. I motivo è presto spiegato, commenta Soliman: la priorità di entrambe le parti è ottenere una cattura militare strategica dell'avversario piuttosto che deporre le armi.
In questi giorni era in corso un nuovo vertice, ospitato questa volta dall'Egitto. Il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, forte dei suoi legami storicamente stretti con l’esercito sudanese, ha presentato il suo piano per porre fine al conflitto: un cessate il fuoco di tre mesi, canali sicuri per gli aiuti umanitari e comunicazioni tra le fazioni in lotta. “Tutti i nostri fratelli in Sudan devono convergere verso l'interesse supremo che è tenere la politica e l'unità del Sudan lontane da interferenze esterne”, ha dichiarato el-Sisi. Al vertice hanno partecipato i leader di Repubblica Centrafricana, Ciad, Eritrea, Etiopia, Libia e Sud Sudan. Il gruppo ha anche discusso l'invio di truppe in Sudan per proteggere i civili.
Il piano egiziano è stato accolto con favore dalla maggior parte dei presenti, anche se il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, ha chiesto un allineamento alla proposta di mediazione presentata il 10 luglio dall’IGAD. Negli ultimi anni, Etiopia ed Egitto hanno avuto relazioni tese a causa di un conflitto per una diga costruita dall'Etiopia sul Nilo Azzurro.
L'Egitto è particolarmente interessato affinché i combattimenti in Sudan si tengano almeno il più lontano possibile dal proprio territorio. I leader egiziani temono per la sicurezza dei suoi confini, l'integrità territoriale, la sovranità e la salute della propria economia, e vorrebbero che il conflitto sudanese si concludesse senza una vittoria del capo delle RSF, Dagalo.
Immagine in anteprima: frame video Al Jazeera via YouTube