Sudan, tregua di sette giorni. Intanto gli scontri continuano: oltre 500 le vittime, decine di migliaia di persone in fuga, in milioni intrappolati a Khartoum
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Un accordo di “principio” per una tregua di sette giorni in Sudan, dal 4 all’11 maggio, dopo uno scambio telefonico tra le due parti in conflitto e il presidente sud sudanese, Salva Kiir. È quanto ha annunciato il 2 maggio il ministero degli Esteri del Sud Sudan, mentre in Sudan infuriavano i combattimenti tra militari e paramilitari in lotta per il potere.
Staremo a vedere se sarà rispettata. È durata pochissimo, infatti, la tregua annunciata appena lo scorso fine settimana dalle Forze Armate Sudanesi (SAF) e dalle Rapid Support Forces (RSF) in Sudan. Le due parti in conflitto si erano accordate per un ulteriore cessate il fuoco di tre giorni per consentire la fuga dei civili. Attacchi aerei hanno bombardato la capitale Khartoum nel tentativo dell’esercito di colpire altre postazioni delle RSF.
Gli scontri si sono estesi anche al Darfur, in un’area già segnata dalla guerra negli anni 2000, con l'uso di armi pesanti e attacchi ai civili e alle infrastrutture sanitarie essenziali, riporta il Guardian. “Il sistema sanitario è completamente al collasso ad El-Geneina”, nello Stato del Darfur occidentale, spiega preoccupato il sindacato dei medici. Il saccheggio degli ospedali e dei campi di sfollati ha provocato “evacuazioni di emergenza” delle squadre umanitarie. Da metà aprile, quando sono iniziati gli scontri, più di 330mila persone sono fuggite all'interno del paese, oltre il 70% delle quali nel Darfur occidentale e nel Darfur meridionale, secondo l'Organizzazione internazionale per le migrazioni.
L'Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati “è estremamente preoccupata che se i combattimenti non cesseranno immediatamente, potrebbero nascere a catena conflitti comunitari con effetti devastanti sul fragilissimo tessuto sociale del Darfur e il rischio concreto di ripetere la sanguinosa guerra degli anni scorsi”, ha commentato Toby Harward dell'UNHCR in Darfur.
Le violenze e i saccheggi non hanno risparmiato né gli ospedali né le organizzazioni umanitarie, molte delle quali hanno dovuto sospendere gran parte delle loro attività. Anche l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) teme una “catastrofe” per il sistema sanitario, già molto fragile prima della guerra in Sudan, uno dei paesi più poveri del mondo e sotto embargo internazionale da due decenni. Solo il 16% delle strutture sanitarie funziona davvero a Khartoum, ma anche lì scarseggiano attrezzature e personale stremato. Tuttavia, le organizzazioni umanitarie hanno ripreso le loro attività: sono arrivati sei container di forniture mediche dell'OMS, principalmente per curare pazienti gravemente feriti e gravemente malnutriti. È stato distribuito del carburante ad alcuni ospedali che fanno affidamento sui generatori. E anche il Programma Alimentare Mondiale ha ripreso le sue attività, dopo una sospensione temporanea giustificata dalla morte di tre dipendenti.
Il conflitto sta trasformando il dramma umanitario già esistente in un “vero disastro”, ha affermato Abdou Dieng, coordinatore degli aiuti umanitari in Sudan, durante un incontro lo scorso 1 maggio alle Nazioni Unite. La crisi del Sudan potrebbe avere conseguenze per i civili addirittura “peggiori della guerra in Ucraina”, ha aggiunto Amina Mohammed, vice segretaria generale delle Nazioni Unite.
Finora, sono oltre 500 i morti accertati anche se si ritiene che il numero reale delle vittime sia molto più alto. Gli abitanti di Khartoum si nascondono nelle case senza rifugi aerei mentre l'aviazione bombarda parti della città mentre ci sono notizie di soldati appartenenti alle RSF che occupano le abitazioni, trasformando di fatto i civili in scudi umani. E a questo si aggiunge la carenza di acqua, elettricità e cibo, considerato che le temperature a Khartoum superano i 40°C.
Decine di migliaia di persone stanno abbandonando il paese dirigendosi verso gli Stati vicini, come Egitto, il Ciad, il Sud Sudan e Gibuti. In molti, scrive la BBC in un reportage, si sono recati verso Port Sudan sperando di fuggire verso l’Arabia Saudita. In particolare si tratta di persone con passaporti “meno fortunati”, yemeniti, siriani e sudanesi. Circa 3.000 yemeniti, soprattutto studenti, sono bloccati da settimane a Port Sudan. “I sauditi stanno salvando alcuni yemeniti, ma non sono propensi ad accettare un gran numero di persone”, ha ammesso un consulente per la sicurezza che sta cercando di aiutarli a trovare un modo per tornare nel loro paese, a sua volta, devastato dalla guerra.
Al momento, oltre 5.000 persone hanno compiuto la traversata del Mar Rosso su navi da guerra saudite o su imbarcazioni private noleggiate dall'esercito saudita. La più grande operazione singola di evacuazione il 29 aprile: circa 2.000 persone, tra cui anche iraniani, hanno raggiunto l’Arabia Saudita. Un segnale del riavvicinamento tra i due Stati rivali, con la riapertura di ambasciate e consolati. “È la nostra fortuna. Speriamo che ci sia pace tra i nostri paesi”, ha commentato Nazli, 32 anni, ingegnere civile, sbarcando a Gedda con il marito ingegnere che ha lavorato per anni in Sudan.
Ma non tutti riescono ad abbandonare il paese. Milioni di civili sono rimasti bloccati a Khartoum dopo che i diplomatici occidentali sono fuggiti in fretta e furia senza restituire i loro passaporti e senza trovare una soluzione alternativa, riporta Al Jazeera. Alcuni cittadini sudanesi, i cui passaporti sono rimasti nelle ambasciate occidentali evacuate a Khartoum, hanno riferito che alcuni funzionari occidentali hanno detto loro di richiederne uno nuovo alle autorità locali. Anche i sudanesi con doppia cittadinanza che vivono all'estero si stanno battendo per convincere i loro governi a trovare una soluzione per i loro cari.
Secondo Emma DiNapoli, esperta di diritto internazionale che si occupa di Sudan, i governi occidentali potrebbero essere responsabili di limitazione della libertà di movimento dei cittadini sudanesi, non restituendo i passaporti ai richiedenti il visto dopo lo scoppio dei combattimenti e contravvenendo all’articolo 12 del Patto internazionale dei diritti civili e politici (ICCPR). “Tutti gli Stati che hanno lasciato le persone indietro o bloccate hanno firmato l'ICCPR, quindi ritengo che abbiano l'obbligo di fornire una documentazione alternativa”, ha dichiarato DiNapoli ad Al Jazeera. “Nessuna di queste persone può esercitare pienamente il proprio diritto alla libertà di movimento, un fatto particolarmente critico in un momento come questo”.
Immagine in anteprima via Council for International Development