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In Sudan la più grave catastrofe umanitaria ma a nessuno interessa

14 Ottobre 2024 10 min lettura

In Sudan la più grave catastrofe umanitaria ma a nessuno interessa

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Una crisi a strati o meglio stratificata. Alex de Waal, uno dei principali studiosi del Sudan e direttore esecutivo della World Peace Foundation, esprime così la complessità di un paese e di un conflitto che dal 15 aprile 2023 in pratica lo sta distruggendo dall’interno. Ci sono due generali che si contendono il potere. Uno è Abdel Fattah al-Burhan, a capo del Governo di Transizione formatosi dopo la caduta del dittatore Omar al-Bashir e delle forze armate sudanesi (SAF), una coalizione alquanto litigiosa con veterani del regime di al-Bashir; l’altro è Mohamed Hamdan Dagalo, noto come “Hemedti” a capo delle forze paramilitari di supporto rapido (RFS), un amalgama di membri dell’esercito e di forze mercenarie. Una guerra civile brutale che non accenna a finire e che sta portando all’inasprimento di quella che è già una catastrofe umanitaria. A un anno dall’inizio del conflitto avevamo già tirato le somme di quanto grave fosse la situazione. Nulla è cambiato, molto è peggiorato. Ma quali sono questi elementi che si sono stratificati nel tempo fino a formare una massa critica ormai così difficile da gestire? 

La carestia

Il primo elemento è la carestia. Problema non nuovo per questo paese. Risaliamo al 1989 quando circa 260.000 persone morirono di fame nel Sud Sudan, che allora faceva ancora parte di un unico Stato – diventerà indipendente nel 2011. Negli anni altre carestie, quelle del 1993, 1998, 2017 e migliaia di morti, hanno segnato la storia del Sudan. Però, attenzione. Solo in parte questi eventi sono stati determinati dalla siccità e da particolari condizioni climatiche. Le cause maggiori sono disordini, conflitti, abusi di potere, violazioni dei diritti umani. Ed è quanto sta accadendo oggi. La sostanziale parità delle forze in campo, le alleanze e la facilità di rifornimento di armi, rende difficile una vittoria sul campo e così la fame viene utilizzata dalle due parti come arma di guerra. 

Ad oggi le cifre sono impressionanti. Su circa 47 milioni di abitanti, 25,6 milioni stanno soffrendo la fame, 13 aree del paese sono a rischio carestia e 10,7 milioni di persone sono sfollate. Alcuni (2 milioni) sono riusciti a scappare all’estero nei primi mesi del conflitto, cosa che è diventata sempre più complessa, ma la maggior parte ha cercato rifugio in altri luoghi, presso parenti a amici ma all’interno del paese.

Fatto sta che diventa sempre più difficile trovare zone sicure poiché – ed è questa una delle caratteristiche di questa guerra contrariamente ad altri conflitti africani – tutto il Sudan è in emergenza e in realtà non c’è posto sicuro dove andare. Le agenzie umanitarie hanno spesso lamentato la difficoltà di fare arrivare aiuti alle popolazioni perché le strade di accesso dai paesi confinanti, ad esempio il Chad, sono state bloccate dai belligeranti. Oggi il Sudan ha la più grande popolazione mondiale di rifugiati interni e il maggior numero di persone a rischio di carestia ma ha anche la più bassa copertura mediatica rispetto ad esempio a Gaza o l’Ucraina.

Uno Stato disfunzionale

Secondo aspetto: il Sudan è un paese ormai disfunzionale che si fa fatica a definire Stato considerato che non garantisce servizi, protezione, strutture adeguate. A anno dalla guerra l’Economist parlava già del Sudan come di un failed State. A causa del conflitto, nel 2023 gran parte del Sudan, in particolare il Darfur, non ha generato quasi alcun raccolto. La produzione nazionale di cereali è crollata di quasi la metà e il prezzo dei prodotti alimentari di base è aumentato fino all’83%. Il crollo della produzione interna ha notevolmente aumentato la necessità delle importazioni di grano che già pesava fortemente sull’economia sudanese. Tonnellate e tonnellate per milioni di dollari, soprattutto dalla Russia. 

L’80% degli ospedali è inutilizzabile e la mancanza di acqua pulita, unita al deterioramento delle strutture, sta producendo quella che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito la “tempesta perfetta”. Inutile dire che la maggior parte delle scuole è chiusa e che il decesso di bambini, ogni giorno, dovrebbe fa tremare i polsi. 

I numeri? Difficile essere accurati. Si parla di 150mila morti in totale, ma nessuno in realtà riesce a contarli. Qualcuno lo sta facendo con quelle persone costrette a sotterrare sé stesse vive dalle forze di Hemedti? Qualcuno lo sta facendo con quelle donne violentate e poi spesso uccise? Solo nell’area compresa nello Stato di Khartoum e solo a un anno dalla guerra, si contavano oltre mille stupri. E qualcuno lo sta facendo con quegli attacchi su base etnica in cui individui di certe tribù anziché altre sono il target di gruppi rivali in un gioco al massacro che non lascia scampo? Un gioco a cui non si sottraggono gli uomini delle RSF, accusate di atrocità contro i civili, stupri e saccheggi, ma neanche quelli della SAF i cui aerei hanno bombardato obiettivi civili e infrastrutture.

Razzismo e divisioni tribali

Altra stratificazione: razzismo e divisioni tribali. Sì, seppure può non piacere dirlo e sentirlo dire, il Sudan è un paese dove la “questione razziale” è assai viva. Le ragioni sono storiche, lontane nel tempo. All’inizio del XIX secolo Khartoum era una base per la vendita di schiavi, richiesti da differenti luoghi dell’impero ottomano, soprattutto dalla penisola arabica, Istanbul, Egitto. A essere venduti erano i nilotici, i “neri”, i black africans contrapposti e considerati inferiori ai nubiani così come agli arabi. 

Ricordiamo che il Sudan è parte della Lega Araba dal 1956, anno in cui ha conquistato l’indipendenza da Regno Unito e Egitto. Quando gli arabi arrivarono nella zona nel VII secolo, la chiamarono bilad al-Sudan, che in arabo significa "terra dei neri”.

Oggi quella società rimane fortemente divisa all’interno tra un mondo arabo e musulmano e un mondo cristiano e africano. E se queste possono apparire generalizzazioni forzate allora basterebbe – per capire che non è così – leggere i report di Human Rights Watch che negli anni hanno evidenziato che la pratica della schiavitù è ancora in atto, o le testimonianze di chi ancora oggi viene messo in stato di schiavitù. Del resto, come tanti hanno raccontato, “schiavo” è l’epiteto usato soprattutto dagli uomini delle RSF durante gli attacchi e i raid nei villaggi. 

Una delle aree in cui è assai forte il conflitto tra la popolazione musulmana e quella “africana” è il Darfur, già tristemente noto per i massacri compiuti dai Janjaweed (diavoli a cavallo) durante la dittatura di Omar al-Bashir e che oggi è tornata una delle aree più calde della guerra in corso. Non a caso si era parlato di genocidio e va ricordato che le RSF non sono altro che la stessa milizia ribattezzata con nome diverso. 

La relazione con gli altri Stati

Infine, c’è la relazione con i vicini, da una parte, e con i paesi esteri, dall’altra. La guerra del Sudan – come ricorda Alex de Waal - è anche un vortice di conflitti transnazionali e rivalità globali che minacciano di infiammare una regione più ampia. 

Dal Mar Rosso al Sahel, dal Mediterraneo all’Africa centrale, i paesi vicini sono colpiti dal flusso di rifugiati, dal movimento di gruppi armati in misura diversa coinvolti nel conflitto e dall’interruzione del commercio. Il Sud Sudan, in particolare, dipende dai ricavi derivanti dalle esportazioni di petrolio attraverso un oleodotto che attraversa aree contese dalle due parti in campo. 

Le alleanze sono abbastanza complesse e ognuno ha in gioco in propri interessi. La RSF può contare e recluta i nomadi del Chad e del Niger, l’Egitto sostiene le SAF anche se pare voglia sopprimere gli elementi islamici al suo interno. L’Etiopia, nella sua ricerca dell’accesso al mare è ora alleata con la RSF, mentre l’Eritrea con la SAF. I colloqui tra Cairo e Addis Abeba sulla Grande Diga, la Grand Ethiopian Renaissance Dam, si sono interrotti, sollevando timori di un conflitto per procura. 

Ma sono le potenze emergenti del Medio Oriente che vedono nel conflitto in Sudan una opportunità per proiettare la propria influenza. Arabia Saudita, Iran, Qatar, Turchia, Emirati Arabi Uniti sono quelli più presenti, sostengono l’RSF a cui forniscono armi e denaro anche attraverso i canali che passano dal Chad e dall’Etiopia. E per quanto riguarda le armi la lista dei paesi coinvolti è lunga. Russia, Cina, Turchia, Emirati Arabi Uniti, ma anche Serbia, Yemen. Sostegno al gruppo paramilitare c’è stato anche dall’ex Wagner, ora Africa Corps. 

E ci sono due elementi chiave da tenere in considerazione in questo conflitto: una è l’area geo-strategica da sempre rappresentata dal Mar Rosso, l’altro è il flusso di denaro proveniente dal commercio dell’oro. Nell’ultimo decennio il paese è diventato il terzo maggiore produttore africano di questo minerale prezioso, ma nello stesso tempo questo successo si è trasformato in una maledizione. 

L’appoggio del Cremlino ha recentemente mutato direzione. La Russia, che un tempo considerava il leader della RSF un alleato prezioso per la creazione di un porto russo sul Mar Rosso a Port Sudan, ha riaperto le discussioni con la SAF allineando la sua politica a quella iraniana che alla SAF sta fornendo droni. Oltretutto il sostegno di Mosca al Governo di Transizione aiuta anche a recidere il rapporto che questo aveva precedentemente stretto con l’Ucraina. 

Il fallimento dei colloqui di pace e l’indifferenza della comunità internazionale

Finora nessun tentativo di far cessare le ostilità è andato a segno. Né i colloqui di Ginevra che avevano anche lo scopo di consentire l’accesso umanitario a tutte le aree del Paese, né gli appelli delle Nazioni Unite, Unione Africana, Lega Araba e dell’IGAD (Autorità intergovernativa per lo sviluppo dell’Africa orientale). Per alcuni è arrivato il momento che gli Stati Uniti siano più attivi e che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite agisca con maggiore efficacia e determinazione, soprattutto per attivare una risposta di emergenza su vasta scala. Ma anche imponendo sanzioni e controllandone l’applicazione, e agendo contro l’impunità dei crimini di guerra che sono in corso. 

Questa stratificazione di elementi che hanno cronicizzato la guerra in Sudan e sta provocando una catastrofe umanitaria si sta svolgendo sotto gli occhi di un mondo indifferente. Tutto è noto, per quanto si sia lontani, gli occhi dei testimoni sono presenti e c’è il modo di far sapere ciò che accade, al di là di numeri e report ufficiali. 

Le violenze, il terrore, la fame, la disumanità. Le giornaliste e i giornalisti sudanesi tentano di fare la loro parte, il loro lavoro, ma il numero di quelli arrestati e di cui non si sa più nulla continua disperatamente a crescere. E responsabili sono l’una e l’altra parte. Da quando è cominciata la guerra, il 90% dei media ha dovuto chiudere a causa degli attacchi e della distruzione delle sedi e delle infrastrutture ma anche per il blackout nelle comunicazioni e di Internet, per gli abusi e le minacce. 

Il 3 maggio scorso, data del World Press Freedom Day, Eman Fadul del Sudanese Journalists Network si era espressa sulle condizioni in cui i giornalisti sudanesi erano costretti a lavorare denunciando quanto le parti in conflitto stessero  monopolizzando l’informazione, diffondendo notizie inventate e discorsi dannosi fatti di razzismo e odio che finiscono per erodere il tessuto sociale. 

Ma se i giornalisti locali sono silenziati, perché questo accade anche in Occidente? Perché questa guerra sembra non riguardarci? Perché non crea empatia, interesse, solidarietà come da mesi accade per l’Ucraina o per il conflitto israelo-palestinese? Perché non scendiamo in piazza o non scriviamo ogni giorno post indignati chiedendo alla comunità internazionale che si faccia qualcosa? Tra i fattori probabilmente gioca la scarsa conoscenza del Continente africano, in particolar modo del Sudan, un paese assai complesso, nella sua storia, nelle sue componenti etniche, nella sua stessa posizione all’interno della geo-politica africana. 

D’altra parte queste stesse complessità e divisioni etniche sono presenti nella diaspora che finisce a volte per evitare un coinvolgimento attivo anche se solo sotto forma di opinioni. Il non capire cosa succede e perché, ovviamente non è una ragione sufficiente per adottare quel vecchio modo di pensare che sotto sotto ancora agisce nella nostra psiche e dunque selezione automatica di quello che ci interessa e di quello che invece può rimanere dov’è. 

Questo pensiero corrisponde al “se la vedano da soli” ed equivale a quell’antico concetto dell’Africa selvaggia, tribale. “Ė l’Africa, cosa ti aspetti?”. Accade lì, nel dark Continent” in cui le storie dopotutto sono diverse dalle nostre, dove le relazioni sono diverse e pure i conflitti sono più barbari che i nostri. Forse è questo il pensiero nascosto. Quello che la vita dei neri, contrariamente alla retorica del “black lives matter”, valga meno di quella degli altri

E invece no. La complessità dei conflitti in Africa è anche determinata da ragioni storiche lontane, che fanno capo al colonialismo, alle categorizzazioni tribali definite dagli europei, agli interessi commerciali e politici in gioco, ad alleanze decise altrove e poi applicate in paesi che diventato pedine. In ballo ci sono milioni di vite umane ma di quelle non ci occupiamo. 

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La società civile che nel 2019 aveva avuto un ruolo fondamentale per far cadere il regime di al-Bashir con una rivoluzione pacifica, ora è scomparsa, deve nascondersi, viene brutalizzata e nessuno si fa sentire in suo favore, in sua difesa. Potrebbe farlo l’Europa, che però ha continuato ad avere un rapporto contraddittorio con questo paese. Interessata, come sempre, a chiudere i confini e i flussi verso i paesi dell’UE invece che difendere i diritti umani – ricordiamo il “Processo di Khartoum, iniziativa per chiudere la rotta migratoria dal Corno d’Africa o la difficoltà a riconoscere come “genocidio” i massacri in Darfur. 

Il Sudan e la complessità di un conflitto che vede troppe forze in campo rende difficile schierarsi. È accaduto con l’Ucraina, Gaza, l’invasione di Israele in Libano, seguita con corrispondenze e dirette. Ma perché è così difficile ricordare che ci sono persone che stanno morendo? Di fame, di torture, di stupro. Di guerra. Perché è così difficile, ripetiamo, provare empatia e pietà in questo caso? Se continueremo così, se non solo la comunità internazionale lascerà solo il Sudan, solo nelle mani dei potenti e delle armi, ma anche noi lo faremo, la situazione non farà che aggravarsi. E un po’ di responsabilità ci toccherà sentirla. Se non altro per essere rimasti in silenzio. 

Immagine in anteprima: frame video BBC via YouTube

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