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Lo studio sul nuovo coronavirus che circolava in Italia dall’estate 2019 per ora non presenta evidenze solide

17 Novembre 2020 6 min lettura

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Lo studio sul nuovo coronavirus che circolava in Italia dall’estate 2019 per ora non presenta evidenze solide

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Sabato scorso Scienza in Rete ha pubblicato un articolo su uno studio dell’Istituto Tumori di Milano che avrebbe rivelato che il nuovo coronavirus circolava in Italia dall’estate 2019, ben prima dell’esplosione della pandemia e di quanto stimato finora dalle ricerche, che datano l'emergenza del virus SARS-CoV-2 a ottobre-novembre 2019.

Lo studio è stato pubblicato su Tumori Journal, la rivista dell’Istituto di Tumori di Milano, a prima firma del direttore dello stesso istituto, Giovanni Apolone e riporta che su 959 volontari sani convocati tra settembre 2019 e marzo 2020 per uno screening per il tumore al polmone e ai quali è stato fatto il test sierologico dei campioni di sangue prelevati, 111 avrebbero rilevato la presenza di anticorpi contro il nuovo coronavirus: 97 casi di positività alle IgM e 16 alle IgG. Di questi 111 casi (risalenti in un arco di tempo che va da settembre a febbraio), sei sono risultati positivi, secondo gli autori, anche agli anticorpi neutralizzanti il virus e questo – si legge nell’articolo di Scienza in Rete – rappresenterebbe il dato più significativo della ricerca, più che la percentuale dei positivi riscontrata (111 su 959 volontari è poco più del 10%). Come spiega Giovanni Apolone nell’articolo: «La prevalenza si riduce quando si guarda ai casi validati del test di neutralizzazione, pari a 6 positivi, di cui 4 in ottobre. Il dato rilevante è questo, non la proporzione di positivi, comunque suggestiva data la corrispondenza con le note prevalenze regionali». 

Quanto rilevato – riporta lo studio – costituirebbe un’ulteriore conferma di quanto segnalato da «molti medici di medicina generale da novembre 2019»: «la comparsa di gravi sintomi respiratori in persone anziane e fragili con bronchite bilaterale atipica, attribuita, in assenza di notizie sul nuovo virus, a forme aggressive di influenza stagionale».

L’ipotesi avanzata dall’Istituto Tumori di Milano ha suscitato immediatamente interesse ma anche molto scetticismo. L’articolo è stato discusso da esperti e giornalisti scientifici ed è stato rilanciato da diversi media generalisti.

Tuttavia, lo studio non sembra portare evidenze abbastanza solide da dimostrare che il virus responsabile della COVID-19 circolasse già la scorsa estate e da riscrivere, quindi, la storia dell’origine della pandemia, retrodatandola di diversi mesi rispetto a quanto appurato finora. Anzi, come spiega in un thread su Twitter il prof. Francois Balloux, direttore dell’UCL Genetics Institute, la ricerca mostra diversi punti critici.

Come già ricordato, allo stato attuale gli studi che hanno analizzato migliaia di sequenze del genoma di SARS-CoV-2 datano l’origine (ovvero il salto di specie negli esseri umani) del virus intorno ai mesi di ottobre-novembre in Cina e indicano poi una rapida diffusione in Europa. Il primo caso confermato di COVID-19 in Cina risale al 17 novembre 2019, mentre alcune analisi realizzate sulle acque reflue suggeriscono che il virus circolasse in Italia già a dicembre 2019.

Date tutte le prove disponibili, osserva Balloux, dire che il virus circolava in Italia in estate è un’affermazione molto forte che richiede prove altrettanto forti che però lo studio dell’Istituto Tumori di Milano non fornisce: «Il documento non è convincente, i metodi sono spiegati male e non è stato fatto alcun controllo positivo o negativo dei campioni testati». 

In sintesi:

1) I dati presenti nel paper non sono sufficienti per sostenere che le persone risultate positive abbiano contratto il nuovo coronavirus e che, pertanto, il virus circolasse in Italia già dall’estate. Quanto scritto nello studio consente di dire che, tra i 959 volontari che hanno partecipato allo screening sul tumore ai polmoni e dei quali è stato analizzato il campione di sangue prelevato, 111 persone potrebbero aver sviluppato anticorpi in grado di riconoscere SARS-CoV-2, ma – come fa notare il prof. Balloux su Twitter – questo non significa che i 111 risultati positivi abbiano incontrato il virus. 

Potrebbe trattarsi di un caso di cross-reattività. Come mostra un articolo pubblicato su Science, alcune persone che hanno contratto uno dei coronavirus che provocano il raffreddore comune negli esseri umani (e che hanno un’omologia con alcune parti della proteina spike del nuovo coronavirus) avevano sviluppato anticorpi contro SARS-CoV-2 pur senza aver incontrato il virus. Lo studio aveva trovato evidenze simili perfino in un gruppo di pazienti risalenti al periodo 2011-2018. E, appunto, potrebbe essere quanto rilevato dallo studio dell’Istituto Tumori di Milano.

Gli autori della ricerca avrebbero dovuto escludere questa ipotesi attraverso un controllo positivo (con persone che hanno contratto il nuovo coronavirus) e negativo (pazienti del 2017-2018 che di sicuro non possono essersi infettati dal SARS-CoV-2), ma non è stato fatto. 

2) Il test di neutralizzazione per verificare che gli anticorpi sviluppati siano effettivamente in grado di legare e bloccare SARS-CoV-2 non sembra aver funzionato. Come osservano Antonella Viola (immunologa dell’Università di Padova), ed Enrico Bucci (Ph.D. in Biochimica e Biologia molecolare e professore aggiunto alla Temple University di Philadelphia, negli Stati Uniti) su Facebook, dei 111 casi positivi sottoposti poi al test di neutralizzazione in vitro, solo sei sarebbero risultati in grado di combattere l’infezione. È il dato enfatizzato dal direttore dell'Istituto Tumori di Milano Apolone nell’articolo su Scienza in Rete. Ma, commenta Bucci, è «un numero pienamente compatibile con errori del test e rumore statistico». 

3) Il test utilizzato per individuare la presenza degli anticorpi nei volontari è fatto "in casa" e non è stato validato. Come scrive sempre Bucci su Facebook, «l'unica descrizione del test disponibile si trova in una pubblicazione pre-print» e «il saggio, finora, risulta eseguito solo dagli autori dello studio, non essendo ancora stato adottato da altri gruppi o validato in altro modo».

«A meno che quanto sostenuto dallo studio non venga validato da evidenze di gran lunga migliori, l’affermazione che il nuovo coronavirus circolasse in Italia già ad agosto può essere tranquillamente ignorata», conclude Balloux. Tutta questa storia, osserva il professore, è rappresentativa «di cosa non va fatto nella scienza (e nella comunicazione scientifica) nell’era della COVID-19. Affermazioni forti supportate da dichiarazioni inconsistenti vengono diffuse su larga scala senza il controllo necessario e la valutazione di un corpo più ampio di evidenze disponibili».

In questo caso i livelli di controllo sembrano essere saltati a più livelli, compresa la comunicazione scientifica. E disinvolta sembra essere stata la decisione degli autori dello studio di pubblicare sulla rivista dell’Istituto cui afferiscono i ricercatori.

«Pubblicare ‘in casa’ non è affatto un peccato mortale, e non c'è anzi nulla di male nel farlo, finché il processo di peer-review è trasparente. (...) Va detto però che ciò che è indicato nel riquadro rosso in basso punta a tutto fuorché alla trasparenza nelle pratiche editoriali, dal momento che la data in cui l'articolo sarebbe stato ricevuto dagli uffici del giornale e la sua pubblicazione coincidono», commenta in un post su Facebook Marco Gerdol, ricercatore all’Università di Trieste. 

In un comunicato stampa diffuso il 16 novembre, gli autori della ricerca hanno difeso la solidità dello studio, pur ammettendo che «si tratta di una prima dimostrazione» e che i dati «andranno confermati da altre banche del sangue, oppure ampliati anticipando ulteriormente l’ipotetico contatto col virus, sempre ovviamente da prelievi ematici di cittadini sani». Ulteriori chiarimenti saranno forniti nel corso di una conferenza stampa il prossimo 19 novembre.

Immagine in anteprima via pixabay.com

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