Ritorno al passato: il revisionismo della destra intorno alla strage di Piazza Fontana
11 min letturaEra chiaro sin dai discorsi d’insediamento del presidente del Senato, Ignazio La Russa, e poi della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni: la destra di Fratelli d’Italia è arrivata al potere con l’intento di portare avanti una battaglia ad ampio raggio per imporre la propria narrazione del passato. Nell’estate del 2021, un bollettino di Fratelli d’Italia s’intitolava, programmaticamente, “controegemonia”.
Una narrazione all’interno della quale gli anni Settanta sono un campo d’azione privilegiato, sia perché sono un crocevia complicatissimo, sia perché restano centrali nella definizione dell’identità della destra, attraverso il filo ininterrotto che collega il Movimento sociale italiano a Fratelli d’Italia. Una narrazione da imporre a costo di cancellare anche i pochi passi avanti faticosamente compiuti dal discorso pubblico negli ultimi vent’anni, nel tentativo di superare le ferite e le contrapposizioni ideologiche di una stagione segnata da una molteplicità di fenomeni violenti. E non si è perso tempo. Il 53° anniversario di piazza Fontana, lo scorso 12 dicembre, da questo punto di vista è stato esemplare.
Una premessa: piazza Fontana è una memoria urticante, per la destra di governo, perché è ormai chiara (e iscritta persino nella targa posta in piazza) non solo la generica matrice neofascista, ma l’attribuzione alla galassia terroristica dell’organizzazione neonazista Ordine Nuovo. Il fondatore di Ordine Nuovo, nel 1954, era stato Pino Rauti, oggi considerato uno dei padri nobili della destra al potere; dopo la stagione ordinovista è rientrato nel partito, è stato a lungo deputato del Msi e brevemente segretario. Una figura carismatica amata al punto che una sezione giovanile bresciana di Fratelli d’Italia, insieme a “tante altre persone che credono nei valori della Destra tradizionale” gli ha dedicato un circolo “per riaffermare con forza la continuità ideale della nostra comunità politica”.
Di Rauti si richiamano le posizioni ecologiste (degli anni Ottanta), insieme alla “visione spirituale della vita” e al “dinamismo culturale”: nozioni vaghe, che evocano, senza nominarlo, il pensiero di Julus Evola e le convinzioni antidemocratiche serenamente espresse da Rauti davanti alle telecamere della televisione svizzera nel 1971, posizioni che la Fondazione a lui intitolata ripropone oggi senza avvertire il bisogno di contestualizzarle criticamente (prendete nota di quanto dice l’altrettanto amato padre nobile Giorgio Almirante, prima di Rauti: ci torniamo dopo).
Per colmo d’ironia, alla guida della segreteria tecnica del Ministero della Cultura, Gennaro Sangiuliano ha nominato Emanuele Merlino, che, come ha notato Gianluca Di Feo su Repubblica, oltre a essere uno degli “strateghi” della “controegemonia” di cui sopra (trovate un suo contributo, nel bollettino) è figlio di Mario Merlino, già giovanissimo militante di Avanguardia Nazionale che nel 1969 fu tra in fondatori del gruppo XXII marzo con l’anarchico Pietro Valpreda (il capro espiatorio di piazza Fontana), indicato sin dalle prime indagini come “provocatore”.
Insomma, parlare di destra e piazza Fontana come minimo ci porta dritto a un calderone di ambiguità, genealogie curiose o quanto meno complicate, rimozioni. Allora per la destra, nel flusso tumultuoso dei media, quale strategia può essere più efficace di tacere? Nessuno ha contestato pubblicamente gli esiti giudiziari o l'attribuzione della strage ai terroristi neri, come è accaduto in passato. Si è scelto il silenzio, ovvero una strategia più sottile: ciò che non conviene al mio racconto lo rimuovo, faccio come se non esistesse, e magari parlo d'altro. Il silenzio è stato incrinato infatti solo da due interventi, entrambi molto significativi a loro modo.
All’interno della compagine governativa, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è stato l’unico a ricordare pubblicamente la strage di piazza Fontana. Ha emesso un anodino comunicato di denuncia verso “un atto vile e disumano contro la città, un attentato alla democrazia che provocò la morte di persone innocenti e sconvolse l’intero paese”. Ma, aggiunge, “la risposta dell’Italia a quell’azione terroristica e alle altre che seguirono fu pronta e decisa”. Il Ministro ostenta di ignorare come di quella “Italia” facesse parte, per esempio, la divisione Affari riservati del “suo” ministero dell’Interno, che senz’altro si mosse “pronta e decisa”, ma per depistare le indagini verso una pista anarchica completamente fasulla, lasciando nello slancio il cadavere dell’innocente Giuseppe Pinelli, anarchico ed ex staffetta partigiana, sul selciato del cortile della Questura meneghina, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre.
Non si chiedevano dichiarazioni dirompenti, per carità. Sarebbe bastato avere il garbo di ricordare, come ha fatto il presidente della Repubblica Mattarella, le “strategie eversive neofasciste”, e come “la matrice di quella strage tardò a emergere a causa di complicità e colpevoli inadeguatezze”. Tredici anni fa, a quarant’anni dal massacro di Milano, il presidente della Repubblica Napolitano, già predecessore di Piantedosi al Viminale, dal salone dei corazzieri del Quirinale non solo denunciò i depistaggi nella strage neofascista, ma rese omaggio proprio a Pinelli, “vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine”. Napolitano sottolineava, scanso equivoci: “qui si compie un gesto politico e istituzionale, si rompe il silenzio su una ferita, non separabile da quella dei 17 che persero la vita a Piazza Fontana, e su un nome, su un uomo, di cui va riaffermata e onorata la linearità, sottraendolo alla rimozione e all'oblio”. Non parlava da ex comunista, ma da massimo rappresentante di uno Stato democratico che ha tra le sue risorse fondamentali quella di riconoscere e rigettare gli abusi di potere del passato, una democrazia in cui nessuno dovrebbe morire mentre si trova nelle mani dello Stato senza che, per di più, su quella morte venga mai detta la verità.
In molti avevamo sperato che sarebbe rimasto come un “punto fermo”, nel dibattito pubblico. Ma l’impressione oggi, a giudicare dalla vaghezza quasi offensiva delle parole di Piantedosi, è che la compagine governativa ignori questi importanti passaggi, preferendo coltivare un discorso di parte (che può essere fatto anche, come in questo caso, di eloquenti silenzi), anziché contribuire a rafforzare un tessuto faticosamente costruito in nome dei valori civili condivisi su base costituzionale, oltre le memorie e le narrazioni di parte (evitate, vi prego, l’espressione “memoria condivisa”, che è un nonsense, perché le memorie sono sempre e necessariamente parziali).
Il secondo intervento in realtà non rompe il silenzio su piazza Fontana, ma, evocando un’altra “memoria ferita” degli anni Settanta, mette in atto uno "spostamento" che entra in corto-circuito con l’anniversario della strage, e finisce così per dire più di mille discorsi, sul modo in cui la destra al potere vuole rimodellare l’immagine della stagione dei terrorismi e della violenza politica. Il 12 dicembre, il presidente del Senato Ignazio La Russa pubblica il seguente tweet: “A 47 anni dall'omicidio di Sergio Ramelli, uno speciale Rai affronterà uno dei periodi più bui della nostra storia. Un’occasione, dopo troppo silenzio, per parlare di Ramelli al grande pubblico @Fratelli d'Italia”
Per il resto, sui social e nelle sedi ufficiali, La Russa sembra ignorare del tutto piazza Fontana, muovendosi così in perfetta continuità con il discorso d’insediamento del 13 ottobre 2022. Facciamo un passo indietro: in quell’occasione così densa di significato, La Russa si era soffermato a lungo sugli anni Settanta della sua tumultuosa giovinezza (immortalata nel filmato di un comizio del 1972 che Marco Bellocchio monta all’inizio di Sbatti il mostro in prima pagina, film liberamente ispirato alla criminalizzazione degli anarchici per piazza Fontana, in cui il giovane Ignazio invitava "gli italiani che non hanno rinunciato all'appellativo di uomini" a unirsi "al di sopra dell'ormai superato e in disuso fascismo e antifascismo"), ma in modo peculiare. Nelle sue parole possiamo individuare tre punti focali:
- Lo stragismo neofascista, con le sue oscene coperture istituzionali, non c’è proprio;
- L’intera vicenda dei terrorismi politici italiani, di destra e sinistra (parliamo di almeno 356 vittime), è “riassunta” nel solo omicidio dell’“ispettore Calabresi” (sic), per mano di Lotta Continua nel 1972. Tra tante, è scelta una vicenda che sin dall’origine aveva comportato scontri e divisioni feroci nell’opinione pubblica, prima per l’intreccio con la morte di Pinelli (il commissario Calabresi fu oggetto di una feroce campagna che lo additava come assassino di Pinelli, perché questi precipitò dalla finestra del suo ufficio, anche se il commissario era fuori stanza), e poi per le vivacissime contestazioni alle sentenze di condanna definitive a carico di esponenti di Lotta Continua, in particolare di Adriano Sofri;
- Dopo Calabresi - ed è forse il passaggio di massimo pathos - La Russa si inchina alla memoria di tre ragazzi vittime della violenza politica (ovvero lo scontro fisico, a volte armato, tra ragazzi di estrema destra e sinistra, nel clima di esasperata contrapposizione ideologica dell'epoca), uccisi nella sua Milano, sempre nel dichiarato intento di omaggiare, tramite loro, anche tutti gli altri: per la destra il diciottenne Sergio Ramelli, membro dell’organizzazione giovanile missina, ucciso da militanti di Avanguardia Operaia il 29 aprile 1975, uno dei martiri più cari alla destra italiana (La Russa fu avvocato di parte civile della famiglia), per la sinistra Lorenzo Iannucci e Fausto Tinelli, per tutti Fausto e Iaio, frequentatori dello storico centro sociale Leoncavallo, assassinanti il 18 marzo 1978, ma – peculiare asimmetria – da mano ignota.
In perfetta continuità con quel discorso programmatico, il 12 dicembre 2022 è per La Russa il giorno in cui gioire via Twitter del fatto che la trasmissione di Rai 1 Cronache criminali parlerà di Ramelli al grande pubblico. Il programma in verità ricostruisce anche l’omicidio di Walter Rossi, ventenne militante di sinistra ammazzato a Roma due anni dopo, anche se La Russa non lo dice. La trasmissione, però, come dichiara il conduttore Giancarlo De Cataldo (al 10’ circa), è improntata proprio allo “spirito di riconciliazione” che “aleggiava” nelle parole di La Russa, di cui viene riproposto uno stralcio. Amen.
Il silenzio di cui parlava La Russa c’è stato, eccome. Ho conosciuto da vicino, attraverso i famigliari sopravvissuti, il dolore per la damnatio memorie, lo stigma, i sospetti infondati che hanno colpito tante vittime innocenti, soprattutto di destra, in età repubblicana, quando a sinistra era in voga lo slogan “uccidere un fascista non è reato”. Per le comunità di riferimento, sono traumi molto difficili da elaborare, a volte più per i militanti che per le famiglie.
La Russa però omette di ricordare il lungo cammino già percorso da altri nel segno della riconciliazione. Per superare gli strascichi di quella conflittualità, infatti, dopo decenni di commemorazioni in chiave identitaria, fatte per escludere, o magari provocare, ci sono stati gesti simbolici importanti, in particolare dal 2008: penso all’incontro pubblico tra la madre di Valerio Verbano e Gianpaolo Mattei, sopravvissuto al rogo in cui perirono i suoi fratelli, o la battaglia perché a Padova fosse fissata al muro la targa in ricordo dell’omicidio dei missini Mazzola e Giralucci per mano delle Br, a Padova. Gesti di riparazione nei confronti delle vittime e dei loro cari, tesi ad alimentare il riconoscimento reciproco tra ex militanti di destra e di sinistra e un sentimento di cittadinanza condiviso, oltre le appartenenze ideologiche. Questo percorso accidentato si iscriveva infatti nella scelta del 2007 di dedicare, non senza polemiche, una Giornata della memoria a tutte le vittime del terrorismo in età repubblicana, fissata il 9 maggio (anniversario dell'omicidio di Aldo Moro).
Tra le vittime, erano inclusi dal principio, secondo le indicazioni del Viminale, anche molti caduti negli scontri politici, tra cui Ramelli, Fausto e Iaio, Rossi (qui la pubblicazione ufficiale basata sui dati del Viminale). Nel 2007, dopo un acceso dibattito parlamentare, non si volle scegliere il 12 dicembre di piazza Fontana come data di ricordo “comune”: era troppo urticante, col suo corredo di depistaggi e abusi di potere. Per le destre, poi, non ne parliamo. L'intesa si trova sull'anniversario di Moro, la retorica sugli "anni di piombo" mette in secondo piano il tritolo delle bombe. Il 12 dicembre restava il giorno di piazza Fontana e basta.
Anche per questo oggi stride in modo difficile da sopportare la strategia comunicativa di "forzare” il calendario civile, scegliendo di commemorare pubblicamente la tragedia di Ramelli in primis – tra tutti i giorni dell’anno - il 12 dicembre. Senza nemmeno una parola per le 17 vittime della bomba di piazza Fontana (vi prego di dedicare a loro un momento, attraverso le brevi biografie ricostruite dagli studenti della 5° AS del liceo Galilei di Voghera, scommetto che sarete sorpresi da come s’intreccino con la storia d’Italia ben prima della bomba), oscurando una strage che ha segnato la storia del paese.
In cosa differisce dalla vecchia strategia di contrapporre morti a morti, particolarmente cara alla destra, che avvelena il dibattito da decenni? E soprattutto, che "riconciliazione” sarebbe?
La Russa tutte queste cose le sa benissimo. Avvocato e politico di lunghissimo corso, usa le parole con consumata abilità. Non ho dubbi che sappia scegliere con cura chi portare a esempio e cosa tacere, giocando con sottotesti che bruciano ancora sulla pelle di molti. E' molto più difficile decostruire un discorso accattivante ed emozionale sulla “riconciliazione”, specialmente davanti a una platea mediatica disattenta, sovraccarica e polarizzata.
Concedetemi ora una "fuga onirica" in stile Bellocchio. Pensate che potenza avrebbe avuto se lo scorso 13 ottobre, con la stessa limpidezza disarmante della senatrice a vita Liliana Segre che l’aveva preceduto sullo scranno, anche Ignazio La Russa fosse partito davvero dalla propria biografia, dalle proprie ferite, se avesse fatto cominciare da lì un ideale percorso di rielaborazione dei conflitti del passato – premessa necessaria a qualunque “riconciliazione” che non sia di facciata o una mera giustapposizione di storie per contendersi l’arena pubblica e il pubblico cordoglio.
Se avesse raccontato cosa ha significato Ramelli per i "camerati" della sua generazione, e la lunga cecità per il dolore degli altri. Se avesse ricordato, tra le vittime del terrorismo, l’agente di pubblica sicurezza Antonio Marino, ammazzato lui pure a Milano ad appena 23 anni da una bomba a mano gettata dai neofascisti Vittorio Loi e Maurizio Murelli mentre prestava servizio in occasione di una manifestazione non autorizzata del Msi a cui partecipava anche La Russa, il 12 aprile 1973, il famigerato “giovedì nero” in cui andò in frantumi l’immagine cara ai missini di “partito d’ordine”, e avesse raccontato cosa fu trovarsi a fare i conti, come avvocato e militante, con quella storiaccia.
Se, mentre si inchinava alla memoria dei troppo ragazzi uccisi, avesse ricordato come nel 1971 il segretario missino Almirante, in quel filmato che vi ho indicato prima, si dicesse d’accordo “senza dubbio” coi ragazzi di destra che scendevano in piazza a scontrarsi coi "rossi", perché altrimenti - diceva - "non ci sarebbe nessuno a battersi con l’estrema sinistra", e se magari avesse sentito l’esigenza di spendere qualche parola a riguardo, anziché limitarsi a parlare degli “ideali” dei ragazzi uccisi.
Se avesse parlato delle inquietudini della sua “base”, che devono essere ancora molto forti, se il 13 dicembre 2022 il Secolo d’Italia, storico quotidiano della destra italiana, denunciava come nella trasmissione di RaiUno della sera precedente “i tempi del racconto sono stati diversi”, penalizzando Ramelli rispetto a Walter Rossi, nella logica ferra della par condicio.
Il 12 dicembre 2022, insomma, abbiamo assistito alla posa di un altro tassello nella costruzione – sempre più sottile e mediaticamente avvertita - di una narrazione pubblica del passato da parte della destra, ancora tutta intrisa di un forte senso identitario e di rivalsa rispetto ai torti (veri o presunti tali) del passato. Una retorica a cui fa comodo ridurre gli anni Settanta ad “anni di piombo” e ammazzamenti tra ragazzi con la febbre della politica, in una sorta di fantomatica guerra civile strisciante - in cui spariscono sia la complessità vitale della società intorno, sia le stragi col loro corredo di abusi di potere. Un passato che, a partire da questa rappresentazione falsata, usa la retorica sulla “riconciliazione”, che in Italia piace sempre da matti, in modo vago e suggestivo, peraltro senza ricordare i passi importanti già compiuti. Non si capisce bene in cosa dovrebbe consistere, questa fantomatica "riconciliazione" italiana intorno agli anni Settanta, né chi dovrebbe coinvolgere. Per restare coi piedi per terra, suggerisco che la cosa più importante resti lavorare sul campo dei valori comuni su cui incontrarsi, a cominciare dal rifiuto della violenza come mezzo di lotta in democrazia, evitando di farsi la guerra sulla pelle dei morti e, soprattutto, che qualcuno si arroghi, come accadeva allora, il diritto di consumare “vendette”.
Il 12 dicembre penso sempre che alle 17 vittime di piazza Fontana, accanto a Giuseppe Pinelli, dovremmo aggiungere una diciannovesima vittima, simbolica ma non meno importante: il senso di fiducia di centinaia di migliaia, forse milioni, di italiani nei confronti delle istituzioni e della giustizia, lentamente strangolato dall’impunità costruita ad arte. Ecco, a giudicare dalla forza dell’antipolitica e dei sentimenti di disillusione tanto diffusi, la grande ferita, la prima frattura da riconciliare, secondo me, resta ancora quella tra lo Stato e i suoi cittadini.