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Loggia P2, servizi segreti, terrorismo neofascista. Cosa sappiamo della strage di Bologna

2 Agosto 2021 34 min lettura

Loggia P2, servizi segreti, terrorismo neofascista. Cosa sappiamo della strage di Bologna

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33 min lettura

Questo articolo è stato scritto nel 2021. Oggi, 2 agosto 2024, sono passati 44 dalla strage di Bologna. A così tanti anni di distanza, la strage di Bologna vive un paradosso: è materia da storici e insieme resta un fatto di cronaca. Perché ci sono processi ancora in corso. Perché s’intreccia a doppio filo con l’anima nera di un terrorismo neofascista che si muoveva tra i servizi segreti, la criminalità comune e quella organizzata, dalla Banda della Magliana alla ‘ndrangheta, un’idra le cui teste continuano a sbucare fuori nei decenni successivi, fino a oggi. Last but not least, perché le inchieste sulla strage del 2 agosto sono una trivella che porta dritto al cuore del potere occulto della P2. In particolare, il cosiddetto “processo Bellini”, o “processo ai mandanti”, che si è aperto il 16 aprile 2021, ha scoperchiato meccanismi, reti di relazioni e dinamiche di potere indispensabili per comprendere l’Italia di ieri e di oggi.

Un giorno come tanti
Quello strano 1980
Cosa hanno accertato i processi sulla strage di Bologna
Perché Mambro e Fioravanti si proclamano innocenti, e perché abbiamo motivo di diffidarne
La telenovela dei depistaggi
E la “pista palestinese”?
Perché il “processo Bellini” è importante
La persistenza della P2

Un giorno come tanti

Provate a immaginarlo. 

Primo sabato d’agosto, metà mattina, un caldo boia. Avete chiuso le valigie e siete corsi alla stazione di uno snodo ferroviario importante. Aspettate il treno che vi porta in vacanza - la pausa sospirata da un anno di lavoro, o magari il viaggio con gli amici dopo la maturità. Oppure avete accompagnato un figlio o una figlia che partono per la prima volta da soli e, in piedi al binario, state sudando non solo per il caldo, ma per l’apprensione di vederli spiccare il volo. Oppure vi aggirate tra l’atrio e la sala d’attesa tendendo il collo, in attesa di veder comparire l’amore vostro, o il vecchio amico che dovrebbe arrivare a minuti. Intorno a voi, una folla vociante, colorata, accaldata. Persone allegre, le nonne con borse piene di uova sode e panini alla frittata per i lunghi viaggi verso sud, i bambini che corrono intorno con le pistole ad acqua, una babele di dialetti, qualcuno un po’ scocciato dall’annuncio del treno in ritardo. 

Quante volte vi siete trovati dentro questa scena? 

È questo quadro di allegra normalità a essere squarciato la mattina del 2 agosto 1980. Nella sala d’attesa di seconda classe scoppia una bomba, così potente da far crollare tutta un’ala della stazione. È un massacro. Macerie, urla, sangue, cadaveri, arti smembrati, la polvere grigia e spessa che intasa i polmoni, l’odore di carne umana bruciata che nessun sopravvissuto può dimenticare. 85 vittime (le cui vite sono state ricostruite e raccontate in un commovente cantiere della memoria” collettivo) e 200 feriti, con conseguenze spesso gravi, per non parlare degli effetti fisici e psicologici a lungo termine del trauma, che s’imprime nel corpo come un incubo per sempre presente, congelato come l’orologio fermo alle 10:25, l’ora dell’esplosione, divenuto il simbolo dell’eccidio.

Riuscite a immaginarlo?

In verità, la strage di Bologna, al pari delle altre che hanno costellato la nostra storia repubblicana, sventrando banche, treni, manifestazioni di piazza, è qualcosa che non si può dire né capire fino in fondo. “Fra tutte le azioni delittuose che gli uomini possono compiere contro altri uomini, la strage è quella che più si avvicina al male radicale”, ha scritto Norberto Bobbio. È stata la strage più grave mai avvenuta in Italia in tempo di pace, e anche la più grave d’Europa, finché le bombe di Al Qaeda sui treni di Madrid nel 2004 non le hanno strappato il triste primato.

Una strage efferata e paradossale. Da una parte, infatti, è un atto brutalmente chiaro: tutti gridano subito alla “strage fascista” contro la rossa Bologna, vetrina del buon governo del Partito comunista italiano, negli anni in cui la Guerra fredda gli vietava l’accesso all’esecutivo nazionale. E i processi lo hanno confermato: sappiamo per certo che la strage è opera di terroristi neri dei Nar, i Nuclei Armati Rivoluzionari, che hanno beneficiato dell’attività di depistaggio messa in atto da affiliati alla loggia P2, faccendieri e ufficiali dei servizi segreti. Ci sono molte condanne passate in giudicato a confermarlo.

Eppure resta, allo stesso tempo, la strage più difficile da capire, e quella su cui più spesso si sollevano dubbi. Perché accade in un momento storico molto complesso, e perché i vertici della loggia massonica P2, servendosi dei servizi segreti e delle forze di sicurezza dello Stato, hanno fatto di tutto per rendere l’evento indecifrabile e alimentare semi velenosi di incertezza, attraverso un’orgia di depistaggi d’intensità mai vista. Una proliferazione di piste in cui si mescolavano dati veri, falsi e verosimili, suggerite o amplificate da campagne a mezzo stampa, che ha fatto perdere moltissimo tempo ai giudici, oltre a generare un durevole senso di confusione e di sfiducia nell’opinione pubblica. Un polverone che il variegato e agguerrito fronte impegnato a sostenere l’innocenza dei Nar risolleva a ogni anniversario, per contestare le condanne passate in giudicato. Un dato che rende la strage di Bologna particolarmente interessante da studiare per capire i meccanismi della disinformazione.

È a causa di quest’orgia di depistaggi se, a 41 anni dal fatto, ci sono processi penali ancora in corso. Il più importante vede accusato per strage l’ex neofascista e killer di ‘ndrangheta Paolo Bellini, e sta vagliando la mole di documenti e testimonianze da cui Gelli e la P2 risultano essere non solo i depistatori, ma i mandanti che ordirono e finanziarono il massacro, con capitali sottratti in modo fraudolento al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi.

Ma andiamo con ordine. Riavvolgiamo il nastro, per tornare a quella maledetta estate di 41 anni fa. 

Quello strano 1980

Nell’estate del 1980, alla radio impazzano il pop melodico di Billy Joel insieme a Sono solo canzonette di Edoardo Bennato e l’ammiccante “Kobra” di Donatella Rettore. Molti italiani si portano in vacanza da leggere Il nome della Rosa, il sorprendente bestseller che Umberto Eco ha dato alle stampe all’inizio dell’anno.

Il quadro politico italiano è più confuso e instabile che mai, un groviglio che persino frate Guglielmo da Baskerville farebbe fatica a districare. La breve stagione dei governi di “solidarietà nazionale”, ovvero l’accordo politico voluto da Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, per cui la Democrazia cristiana governa con il voto di fiducia del Partito comunista, che però resta fuori dall’esecutivo (siamo in piena Guerra fredda, gli Usa mantengono fermo il veto all’accesso dei comunisti al governo), è stata definitivamente archiviata, dopo i due governi guidati da Giulio Andreotti tra il marzo del 1978 e l’agosto ‘79. È un dato importante: oggi possiamo affermare con tranquillità, in base ai processi e alle ricerche storiche, che le grandi stragi neofasciste tra il 1969 e il ’74 (piazza Fontana, Brescia, l’Italicus) dovevano arginare lo slittamento a sinistra dell’asse politico e l’avvicinamento del Pci all’area di governo. Ma la strage di Bologna si consuma in un contesto diverso, quando quella parabola, toccato l’apice, è già in irreversibile declino.

Nell’estate dell’80 alla presidenza del consiglio c’è Francesco Cossiga, tornato al vertice del potere nonostante, nella terribile primavera del 1978, da ministro dell’Interno, avesse subito lo smacco del sequestro e omicidio di Aldo Moro. Cossiga guida due governi, ciascuno durato pochi mesi, il primo “centrista”, sostenuto da socialdemocratici e liberali, il secondo più sbilanciato a sinistra, con socialisti e repubblicani.

Intanto, dietro le quinte, la loggia massonica segreta P2 è all’apice dell’influenza: i suoi affiliati sono ai vertici dei servizi segreti, dell’esercito, dell’Arma, della Guardia di Finanza, sono ben inseriti nei gangli delle burocrazie ministeriali, in Parlamento, persino nel governo. La loggia, inoltre, controlla in modo occulto il Corriere della Sera, e drena risorse dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, affiliato alla P2 come già il banchiere mafioso Sindona, lui pure travolto dalla bancarotta. Il 5 ottobre 1980, Gelli si presenta al grande pubblico con una trionfale intervista a tutta pagina sul Corriere, a firma del fratello P2 Maurizio Costanzo. 

La volatilità degli equilibri politici e la pervasività della P2 inducono a leggere la strage del 2 agosto secondo la chiave offerta dal terrorista nero reo confesso Vincenzo Vinciguerra: le stragi servono a “destabilizzare per stabilizzare”, i governi e lo status quo, in senso conservatore.

Il volto patinato degli anni Ottanta, coi paninari, il disimpegno e l’alta moda made in Italy, non si è ancora palesato. A leggere i giornali, il 1980 sembra ancora tutto dentro gli anni Settanta, nei loro aspetti più cupi. La violenza tocca l’acme: sono 36 le vittime di attentati individuali, 30 di sinistra, 6 di destra. Si parla di “terrorismo diffuso”: a sinistra, alle Brigate Rosse si aggiungono decine di gruppuscoli con sigle diverse, formati da ragazzi sempre più giovani che si contendono l’attenzione dei media uccidendo bersagli in grado di catalizzare l’attenzione. A destra, i Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar), attivi soprattutto a Roma, emulano i brigatisti optando a loro volta per gli attentati a figure-simbolo, alimentando così l’escalation di violenza. Si proclamano “nemici del sistema”, anche se, come vedremo, parecchi elementi ci dicono il contrario. 

Il leader carismatico dei Nar, Giuseppe Valerio (detto Giusva) Fioravanti, è stato indagato a lungo anche per il delitto eccellente di mafia e politica che inaugura il 1980, il giorno dell’Epifania: l’omicidio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, a Palermo. È Falcone a incriminarlo. La vedova Mattarella, seduta in auto a fianco del marito quando gli sparano, è sicura di aver riconosciuto Fioravanti, inoltre lo accusano del delitto, il fratello Cristiano e altri esponenti della destra eversiva, ma le prove a carico del terrorista non sono sufficienti a una condanna. In anni recenti, però, dalla documentazione raccolta agli atti di altri processi, sono emersi nuovi elementi che collegherebbero lui e i Nar al delitto. Negli anni, molti ex “camerati”, tra cui il fratello Cristiano, lo hanno descritto come killer al soldo della P2 e altri interessi tutt’altro che “antisistema”.

L’estate dell’80 è già stata segnata dallo choc per la strage di Ustica. La sera del 27 giugno, nei pressi dell’isola, un Dc9 Itavia sparisce dai radar e precipita in mare, causando la morte di tutti i passeggeri e membri dell’equipaggio, 81 persone in tutto. Attenzione però a non farsi trarre in inganno dalle parole: sebbene, con tutte quelle vittime, sia stata indubbiamente una “strage”, Ustica non fu un atto di terrorismo, bensì la tragica conseguenza di un “atto di guerra non dichiarata”. Decenni d’inchieste hanno portato a concludere che l’aereo civile cadde a causa di un missile sparato da uno degli aerei militari statunitensi o francesi in volo quella sera, a caccia di Mig libici. Nell’80, la Guerra fredda si è riacutizzata, la Libia del dittatore Muhammar Gheddafi è sempre più una spina nel fianco per gli americani e molti paesi europei (mentre per noi è un partner economico vitale) e, in generale, il Mediterraneo e il Medio Oriente sono travagliati da forti tensioni. L’Italia, terra di confine nel mondo bipolare e portaerei della Nato nel Mare Nostrum, si trova proprio nel mezzo di questo marasma. 

Infine, sabato 2 agosto, Bologna. Chi ha voluto il nuovo massacro? E perché?

Cosa hanno accertato i processi sulla strage di Bologna

In un desolante panorama di stragi terroristiche rimaste in larga parte o del tutto impunite, la strage di Bologna è quella che ha visto il maggior numero di condanne passate in giudicato, pur nel corso di un iter giudiziario lungo e tormentato (online trovate un riassunto delle vicende processuali curato da chi scrive, mentre sul sito Fontitaliarepubblicana.it sono disponibili tutte le sentenze). Condanne che hanno suggellato un’equazione: Bologna uguale terrorismo nero più P2. 

Il primo, lunghissimo processo, concluso dalla sentenza di Cassazione del 1995, ha infatti condannato come esecutori materiali il Nar Giusva Fioravanti e la sua compagna, poi moglie, Francesca Mambro, all’epoca poco più che ventenni. Insieme a loro, sono stati condannati per depistaggio il gran maestro della Loggia P2 Licio Gelli, il faccendiere Francesco Pazienza, e due ufficiali del Sismi, il servizio segreto militare dell’epoca: Pietro Musumeci (iscritto alla P2) e Giuseppe Belmonte (massone ma non P2). Insieme, costoro hanno inquinato l’inchiesta a tal punto da provocare un conflitto tra i magistrati e il conseguente intervento del Csm, con la sostituzione di alcuni inquirenti, rallentando pesantemente l’istruttoria e minando in modo ancor più grave la credibilità dei giudici. 

Tra i depistatori, Pazienza è forse la figura più inquietante: massone, pur senza incarichi ufficiali era di fatto il potentissimo braccio destro del capo piduista del Sismi, Santovito (morto nel 1984) e aveva entrature ai massimi livelli con la destra statunitense, in particolare con personaggi chiave dell’amministrazione Reagan che si insedia nel gennaio 1981.

Il processo ricostruisce inoltre il quadro di un’estrema destra eversiva in cui la strage è considerata un mezzo di lotta legittimo, recuperando e valorizzando lo straordinario lavoro d’inchiesta condotto a Roma dal p.m. Mario Amato, lasciato solo a indagare sull’eversione nera, e per questo assassinato, proprio dai Nar, il 23 giugno 1980. 

Poco prima di essere ucciso, Amato denunciava al Csm come l’ambiente della destra romana avesse “legami e diramazioni dappertutto”. Per immaginarsi il clima avvelenato negli uffici giudiziari della Capitale, basti pensare che il terrorista dei Nar Alessandro Alibrandi, detto “Alì Babà”, era figlio di un suo collega, il giudice istruttore Antonio. 

Amato stava indagando sul potente criminologo Aldo Semerari, perito di fiducia di camorristi e mafiosi nonché ideologo influente tra i neofascisti, che si scoprirà poi essere affiliato alla P2. Fu ammazzato in modo efferato nel 1982 (lo trovarono nella sua auto decapitato e incaprettato), mentre era sotto inchiesta per la strage di Bologna. Un pentito di camorra si è assunto la responsabilità del delitto, ma non esiste ancora una ricostruzione esaustiva.

Successivamente, un processo celebrato davanti al Tribunale dei Minori (1997-2007) ha accertato il coinvolgimento nella strage del 2 agosto anche del Nar Luigi Ciavardini, 17 enne all’epoca dei fatti e già condannato per l’omicidio del giudice Amato, insieme al Nar Gilberto Cavallini.

Cavallini, già condannato per banda armata nel primo processo, è l’imputato principale di un ulteriore procedimento ancora in corso; il 7 gennaio 2021 è stato condannato in primo grado per strage, ora è in preparazione il giudizio d’appello. Il “processo Cavallini”, oltre a confermare la responsabilità dei Nar e corroborare la ricostruzione offerta dai precedenti processi, ha aggiunto al quadro complessivo molti elementi importanti. Da una parte, gli stretti legami tra Cavallini e i suoi sodali con il mondo della vecchia eversione di destra in Veneto, cioè con la galassia di Ordine nuovo, responsabile delle stragi di piazza Fontana a Milano nel 1969 e piazza della Loggia a Brescia nel '74. Dall’altra, ha fatto emergere nuovi elementi a supporto dei contatti tra Nar e servizi segreti. Il dato più sensazionale (ora al vaglio del “processo Bellini”) è stata la scoperta che dal 1981 alcuni membri dei Nar avrebbero occupato un covo in via Gradoli 96 a Roma, nella stessa unità immobiliare dove, nel ’78, avevano vissuto il capo delle Br Mario Moretti e la sua compagna Barbara Balzerani. Immobile gestito, per di più, da società fiduciarie dei servizi segreti.

Comunque, il coinvolgimento dei Nar nella strage di Bologna dovrebbe essere ormai un dato pacifico. Invece, poiché Mambro e Fioravanti continuano a proclamarsi innocenti, in tanti credono a loro, invece che alle sentenze. Perché?

L’iter giudiziario della strage di Bologna si compone finora di cinque processi, due dei quali sono ancora in corso, a 41 anni di distanza dal fatto (giugno 2021).

  • Il primo processo, quello principale (1980-1995), ebbe come imputati principali i terroristi dei Nar, insieme a Licio Gelli e alcuni ufficiali del Sismi (ex Sid), il servizio segreto militare dell’epoca (già condannati nel processo al c.d. “Supersismi” celebrato a Roma tra il 1984 e l’85, a carico del gruppetto di ufficiali del Sismi legati alla P2).
  • Il secondo processo, il cosiddetto processo Ciavardini, dal nome dell’imputato principale, pure appartenente ai Nar (1997-2007), è di fatto una costola del primo, celebrata presso il tribunale dei minori perché l’imputato aveva solo 17 anni all’epoca della strage. primo).
  • Il terzo processo, il cosiddetto processo sui depistaggi (1999-2003), approfondisce le indagini sulle responsabilità dei servizi segreti e il ruolo di Massimo Carminati, esponente della Banda della Magliana legato ai Nar.
  • Il quarto processo, il cosiddetto processo Cavallini (dal nome del principale imputato, pure membro dei Nar), apertosi nel 2020 è ora in fase d’appello.
  • Il quinto processo, il processo Bellini, che include la cosiddetta “inchiesta sui mandanti”, cominciato, sempre a Bologna, il 16 aprile 2021. A questi giudizi si aggiunge la lunghissima istruttoria incentrata sulla figura del tedesco Thomas Kram” e la cosiddetta “pista palestinese”, terminata in un nulla di fatto.

Perché Mambro e Fioravanti si proclamano innocenti, e perché abbiamo motivo di diffidarne

Facciamo un passo indietro. Il 16 maggio 1994, la Corte d’Assise d’Appello di Bologna condanna all’ergastolo Mambro e Fioravanti per la strage, condanna che sarà confermata in Cassazione circa un anno dopo. Nel frattempo accadono cose interessanti. In particolare, il 12 giugno 1994, poco dopo la formazione del primo governo Berlusconi, sostenuto da Alleanza nazionale (partito erede del Msi), esce sul Corriere della Sera un’intervista di Gian Antonio Stella a Mambro e Fioravanti, dal titolo “Loro al governo, noi all’ergastolo”, in cui parlano di camerati di gioventù come Storace, Gasparri, Fini. Quasi tutti i membri dei Nar, infatti, avevano militato nell’organizzazione giovanile missina, frequentando le sezioni romane del partito di Almirante. La rottura arriva al principio del 1978, dopo la strage di Acca Larentia (cioè l’agguato del 7 gennaio, rivendicato da una sigla di sinistra, in cui furono uccisi due giovani missini, Francesco Bigonzetti e Franco Ciavatta, mentre uscivano dalla sezione sita appunto in via Acca Larenzia, nel quartiere Tuscolano di Roma), “quando”, racconta Fioravanti, “un carabiniere sparò e uccise un amico di Francesca [Mambro]”, il 17enne Stefano Recchioni. 

I rapporti sono complessi, ma ci sono. Nell’aprile 2018, a Roma, alla commemorazione dei fratelli Mattei (figli di un militante missino uccisi da un rogo appiccato alla loro casa nel quartiere romano di Primavalle da esponenti di Potere Operaio nel 1973), presente il senatore Gasparri, l’ex sindaco Gianni Alemanno si è presentato insieme all’ex Nar Luigi Ciavardini, già condannato in via definitiva per la strage del 2 agosto. 

Larga parte della destra parlamentare, di fatto, ha sempre difeso quei figli ribelli e mai riconosciuti, negando la matrice neofascista della strage di Bologna e attribuendo le condanne ai pregiudizi e alle presunte macchinazioni delle “toghe rosse”. Ancora nel 2018, una deputata di Fratelli d’Italia tornava all’attacco, ripetendo che “i giudici di Bologna sono sempre stati prigionieri di logiche ideologico-giudiziarie”. Nell’area di estrema destra, poi, si è radicata la vulgata per cui Bologna è una “strage di Stato”, di cui i neofascisti sono solo capri espiatori. Questo basso continuo innocentista, che innerva l’intero spettro politico della destra italiana, influenza ampi settori dell’opinione pubblica.

Poco dopo la clamorosa intervista del ‘94, inoltre, nasce a Roma il comitato “E se fossero innocenti?”, che è trasversale alle appartenenze politiche, e dà vasta eco mediatica alle tesi difensive dei due condannati, sebbene già ampiamente confutate in sede di giudizio. Tra i promotori ci sono l’onorevole radicale Mimmo Pinto, ex di Lotta continua, e l’ex terrorista rosso di Prima linea Sergio d’Elia. Tra i firmatari, nomi di spicco del mondo politico, della cultura e del giornalismo, da Liliana Cavani a Giovanni Minoli, da Oliviero Toscani a Luigi Manconi (teniamo presente che negli stessi anni divampa la campagna innocentista contro le condanne a Lotta continua nel processo per l’omicidio Calabresi, che ha acuito molte sensibilità a sinistra su questi temi).

Non stupisca il coinvolgimento di ex terroristi rossi nel comitato pro-Nar. In carcere, Mambro ha stretto amicizia con le ex brigatiste Barbara Balzerani e Anna Laura Braghetti. Nel 2007, intervistato da Riccardo Bocca per il libro Tutta un’altra strage, Cossiga racconta che è stata proprio Braghetti, già carceriera di Moro e assassina del vice presidente del Csm Vittorio Bachelet, a persuaderlo dell’innocenza dei Nar. “Credo molto di più ai terroristi rossi, che ai magistrati. Tra la loro serietà e quella dei magistrati c’è un abisso”, ha dichiarato il presidente emerito della Repubblica nonché premier all’epoca della strage, che governò circondato dai piduisti (ignaro di ciò, a suo dire) sin dagli anni al Viminale. Il disprezzo per i giudici accomuna l’ex presidente e gli ex terroristi, che hanno bollato i magistrati bolognesi come “dilettanti prevenuti e incapaci”.

Cossiga a parte, Mambro e Fioravanti hanno sempre negato ogni coinvolgimento nella strage, e quest’argomento ha una forte presa emotiva su tantissime persone, che ripetono: hanno riconosciuto la propria responsabilità in numerosi omicidi (Fioravanti è stato condannato per 8 attentati individuali, Mambro addirittura per 10), perché mai non dovrebbero confessare anche la strage, se fossero davvero colpevoli? Sembra un argomento di buon senso, ma in realtà non lo è. Senza bisogno di lanciarsi in valutazioni psicologiche o morali, esistono infatti ottime ragioni per cui è logico e comprensibile che ammettano tutto tranne la strage. Vediamo le più importanti.

Primo: motivi “d’immagine”. La strage non è un reato come gli altri. Lo stesso mondo dell’eversione di destra, all’epoca dei fatti, era molto diviso a riguardo, al proprio interno. La strage è un delitto vigliacco, opposto alla mitologia eroica dello scontro a viso aperto accuratamente coltivata dai Nar. Mambro e Fioravanti si sono sempre descritti come combattenti in lotta contro il sistema, senza collusioni, ma questa romantica auto-narrazione fa acqua da tutte le parti. Sono stati del tutto reticenti riguardo ai rapporti con la vecchia guardia del terrorismo di destra (i cosiddetti “tramoni”, dall’espressione giornalistica “trame nere”, riferita allo stragismo e alle coperture dei servizi), rapporti su cui il processo Cavallini ha fornito nuove, solide evidenze. Giusva, poi, beneficiò di strane “protezioni” sin da ragazzo: per esempio, non subì conseguenze dopo aver utilizzato in un’azione alcune bombe a mano rubate in un deposito dell’esercito mentre faceva il servizio militare, sebbene i servizi fossero a conoscenza del furto.

Secondo: ragioni di strategia processuale. Non confessare la strage lascia aperto uno spiraglio di dubbio, il che può rendere più facile la concessione di benefici, permessi e sconti di pena. E infatti, Fioravanti e Mambro, seppure condannati rispettivamente a 8 e 9 ergastoli, dopo meno di vent’anni di detenzione hanno potuto usufruire di ampi benefici e poi della semilibertà. Nel 2009, dopo 26 anni, Fioravanti è uscito definitivamente dal carcere; la pena di sua moglie (che aveva da scontare un ergastolo in più) si è estinta invece nel 2013. Oggi sono entrambi liberi.

Terzo: prudenza, convenienza e paura. La confessione obbligherebbe i due ex terroristi a dar conto delle ragioni della strage e a identificare i complici. Gilberto Cavallini e Paolo Bellini sono, seppur tardivamente, incappati nelle maglie della giustizia, ma quanti altri l’hanno fatta franca? Per non parlare del fatto che le indagini sui depistaggi e, oggi, il “processo Bellini” rivelano, dietro la strage, una trama di potere complessa. Parlarne poteva (e potrebbe) essere controproducente per gli interessati, se non pericoloso. La storia delle stragi è costellata infatti di morti misteriose e omicidi di persone che “sapevano troppo”. Ermanno Buzzi, per esempio: condannato in primo grado come organizzatore ed esecutore della strage di Brescia (mentre le inchieste successive gli attribuiscono piuttosto un ruolo di supporto logistico), fu ammazzato in carcere nel novembre 1981, dopo aver fatto trapelare di voler dire tutto quello che sapeva, in particolare sugli “stivaloni”, cioè i Carabinieri.

I Nar condannati e chi sostiene la loro estraneità alla strage insistono molto sul carattere indiziario del complesso probatorio che ha portato alle condanne. Attenzione, però: a causa dei depistaggi messi in opera dai servizi segreti e dalle altre forze di sicurezza dello Stato, tutti i processi per le stragi di matrice terroristica sono stati processi indiziari! Questo non li rende meno solidi o meno equi sotto il profilo delle garanzie per gli imputati. Esistono criteri severi e ben precisi, definiti con sempre maggior precisione nel corso di decenni dalla Cassazione, per la valutazione dei complessi probatori indiziari, e le condanne per la strage di Bologna hanno superato ripetuti vagli, prima di essere confermate, con dovizia di motivazioni.

Fuori dalle aule di giustizia, però, la messa in ridicolo degli elementi lungamente vagliati nel processo, con la riproposizione delle tesi difensive, funziona benissimo dal punto di vista comunicativo. E poi, grazie ai depistaggi della premiata ditta P2-Sismi, c’è un vasto repertorio di piste alternative esotiche e intriganti da risfoderare in ogni occasione, soprattutto in prossimità degli anniversari. Vale dunque la pena di passarle brevemente in rassegna.

La telenovela dei depistaggi

Cominciò tutto con Gelli, manco dirlo. Al principio di settembre del 1980, incontra il questore piduista Elio Cioppa, in servizio al Sisde e gli dice che per la strage di Bologna bisogna seguire la pista internazionale. In quel momento, l’ipotesi ventilata nelle prime ore, che il massacro alla stazione avesse a che fare con Ustica, o comunque con le tensioni tra Italia e Libia intorno all’isola di Malta, è già tramontata (ricordiamoci che Gheddafi, all’epoca, possedeva il 10% della Fiat, oltre a tenere in scacco l’Italia col petrolio, dunque aveva parecchi mezzi meno cruenti e più efficaci per far pagare all’Italia qualsivoglia sgarbo), mentre le indagini puntano con decisione verso la galassia della destra eversiva romana e veneta. Anche perché, già nelle settimane precedenti la strage, dall’ambiente carcerario erano venute inquietanti anticipazioni, secondo cui la destra radicale preparava qualcosa di cui avrebbero parlato i giornali di tutto il mondo.

Gelli parla, e i servizi segreti si scatenano. Costruiscono una fantomatica “pista libanese” prospettando la collaborazione dei falangisti (la fazione cristiana) con terroristi di destra francesi e tedeschi. Prospettano il coinvolgimento (rivelatosi infondato) di figure di spicco dell’estremismo nostrano, come Franco Freda e Giovanni Ventura, i responsabili di piazza Fontana, o del leader carismatico Stefano Delle Chiaie, mescolando accortamente notizie vere e false. L’arte della mistificazione tocca l’apice con la finta collaborazione del faccendiere Elio Ciolini, che a partire dal 1982 sforna racconti su una fantomatica, potentissima “loggia di Montecarlo”, sfruttando l’impressione profonda lasciata nell’animo degli italiani dallo scandalo P2, scoppiato nel maggio 1981 con la pubblicazione delle liste degli affiliati alla loggia di Gelli. 

Oltre a intralciare indagini, i depistaggi ottengono l’effetto di generare confusione, sfiducia e scetticismo nell’opinione pubblica, con effetti devastanti. Ieri come oggi, le persone che non credono più in niente si allontanano dall’informazione e dalla politica, perché “tanto è tutto marcio” e “sono tutti uguali”, oppure diventano facile preda delle più bizzarre illazioni, sulla base di vicende criminali magari appena orecchiate. 

Pensate cos’è accaduto con le rivelazioni dell’avvocato Amara sulla presunta “loggia Ungheria”, di cui Valigia Blu si è già occupata. A prescindere da cosa, nella sostanza, verrà confermato oppure smentito dalle indagini in corso, i suoi racconti hanno sortito l’effetto immediato di sollevare un gran polverone, gettare discredito e suscitare ulteriore diffidenza nei confronti della magistratura.

Rispetto alle stragi precedenti, i servizi utilizzano una metodologia più complessa e sofisticata, che si serve largamente della stampa, su cui la P2 aveva un’influenza pervasiva. Tramite agenzie compiacenti e giornalisti amici, o comunque abbordabili, diffondono false piste su cui dirottare i magistrati, oltre a sfornare direttamente note informative mistificanti.  Arrivano al punto di predisporre una valigia di false prove, fatta ritrovare il 13 gennaio 1981 grazie alle presunte confidenze di una fonte informativa inesistente. 

A causa della “valigia del depistaggio” a un certo punto le inchieste lambiscono anche Massimo Carminati, il “cecato”, all’epoca trait d’union tra i terroristi di destra e la Banda della Magliana, in anni recenti, ancora orgogliosamente neofascista, re del “Mondo di Mezzo” tra criminalità e politica scoperchiato dall’inchiesta “Mafia Capitale”. Lui e Fioravanti erano molto legati, sono stati indagati insieme per l’omicidio Mattarella, ed erano in rapporti con Franco Giuseppucci e Danilo Abbruciati, boss storici della Banda della Magliana. I Nar affidano loro i proventi delle rapine da reinvestire (per lo più attraverso il prestito usuraio) ed eseguono in cambio attività di intimidazione o vero e proprio killeraggio. 

Tra le armi contenute nella “valigia del depistaggio” c’era un mitra MAB, il Moschetto Automatico Beretta in uso a militari e forze di polizia fino agli anni Settanta, modificato in un modo particolare, in uso negli ambienti della destra eversiva. Due MAB come quelli erano stati dati alla Banda della Magliana in cambio di altre armi, sparite dopo essere state affidate a un giovane terrorista nero, attraverso la mediazione del criminologo piduista Semerari (quello decapitato e incaprettato, ricordate? Lavorava spesso anche per Giuseppucci e soci, offrendo perizie compiacenti). Quei due mitra MAB modificati finiscono in un deposito d’armi della Banda che si trova, nientemeno, che nello scantinato di un palazzo del Ministero della Salute a Roma. E tra le persone che vi avevano libero accesso c’era proprio Carminati. Pazzesco, no? 

Per inciso, la presenza di quell’arma nella “valigia del depistaggio” ci aiuta a capire le sottigliezze dei depistaggi messi in atto dal Sismi. Oltre a sviare le indagini, servono anche a mandare “messaggi in codice”. Nel gennaio del 1981, per esempio, quel MAB nella valigia aveva una doppia valenza, allo stesso tempo rassicurante e intimidatoria. Rassicurante perché dice: tranquilli, ci stiamo occupando di allontanare i sospetti da voialtri. Intimidatoria perché, nella stagione in cui si moltiplicano i “pentiti” di terrorismo, comunica a chi potrebbe avere la tentazione di parlare: occhio, possiamo incastrarti quando vogliamo.

È proprio a partire da quei mitra che Carminati, tra il 1999 e il 2003, è stato processato per depistaggio, insieme all’ufficiale dei servizi segreti Federigo Mannucci Benincasa (che è stato il capo del centro di controspionaggio del servizio segreto militare a Firenze per oltre vent’anni, dal 1971 al ‘91), in relazione alla strage del 2 agosto. Entrambi assolti, dopo le condanne in primo grado. Benincasa per la verità ne aveva combinate di tutti i colori, ma i reati erano prescritti. Questo dettaglio chiama un’ultima considerazione. 

Parliamo di “depistaggi”, ma il reato per cui sono stati condannati Gelli & co. era quello di “calunnia”. Il reato di depistaggio all’epoca non esisteva, è stato introdotto soltanto nel 2016 grazie alla battaglia condotta dall’Associazione delle vittime del 2 agosto e in particolare dal suo presidente Paolo Bolognesi, all’epoca deputato del Pd. Rispetto alle fattispecie disponibili in precedenza, come il falso o la calunnia, esso prevede pene più gravi, quindi si prescrive più tardi. Questo è fondamentale, perché laddove l’indagine è ostacolata proprio da chi dovrebbe svolgerla, ci vuole quasi sempre molto tempo, e l’instaurarsi di nuove indagini affidate a soggetti diversi, perché il misfatto possa venire alla luce. A conferma del fatto che i depistaggi sono una costante delle vicende penali che lambiscono pezzi dello Stato, la nuova fattispecie di reato è stata impiegata anche nel “processo Bellini” attualmente in corso.

E la “pista palestinese”?

Tra le ipotesi alternative sostenute con maggiore accanimento dagli innocentisti c’è la cosiddetta “pista palestinese”, che è anche una delle ipotesi più antiche. Balena per la prima volta subito dopo il 2 agosto 1980. Riemerge poi nel giugno 1981, quando un falangista libico accusa il palestinese che, complice il Sismi, aveva lanciato con un’intervista la “pista libanese”, puntando il dito contro i falangisti, di aver organizzato la strage di Bologna e quella all’Oktoberfest di Monaco del 26 settembre 1980 (per cui fu infine condannato un neonazista): un ottimo esempio di come la macchina del depistaggio, una volta messa in moto, continui a proliferare e alimentare il caos, anche grazie a ripicche e ritorsioni.

Il rilancio in grande stile arriva però con la cosiddetta Commissione Mitrokhin, ovvero la commissione parlamentare istituita all’epoca del secondo governo Berlusconi per indagare sulla documentazione italiana di Vasilij Mitrokhin (ex funzionario del KGB sin dagli anni di Stalin, fuggito nel Regno Unito con alcune casse di documenti segreti nel 1992), documentazione riguardante soprattutto i presunti collaboratori dell’intelligence sovietica nel nostro paese durante la Guerra fredda. La commissione, attiva dal 2002 al 2006, è stata forse la più pasticciata e controversa della storia repubblicana, ed è servita soprattutto ad alimentare polemiche strumentali da parte delle forze politiche di centrodestra, all’epoca largamente maggioritarie. Offrì anche cartucce da sparare contro i processi sulla strage di Bologna (all’epoca si stava celebrando presso il tribunale dei minori di Bologna il processo contro il Nar Ciavardini). Nel corso dei lavori, infatti, viene fuori che il terrorista mercenario Ilich Ramirez Sanchez, alias Carlos, avrebbe messo in relazione Bologna con la rottura di un lodo (cioè un accordo) d’intelligence segreto (chiamato spesso “lodo Moro”, perché lo statista democristiano fu tra i suoi sponsor principali, insieme al colonnello Stefano Giovannone), stipulato tra i servizi italiani e le principali organizzazioni palestinesi; l’accordo prevedeva il libero transito di uomini e armi sul nostro territorio, purché non compissero attentati. 

La strage alla stazione, secondo questa tesi, sarebbe stata la ritorsione per l’arresto di un giovane palestinese nel 1979. Peccato che, sulla base della documentazione dei servizi finora rinvenuta, il lodo, nel 1980, reggeva ancora. Ben 12 anni, dal 1973 all’85, separano la prima e la seconda strage di Fiumicino, entrambe opera di terroristi palestinesi. Inoltre, la differenza tra le stragi indiscriminate di matrice neofascista e il modus operandi dei terroristi palestinesi, che prediligeva omicidi mirati, dirottamenti o attacchi a obiettivi connessi a Israele, come velivoli e postazioni delle linee aeree negli aeroporti, balza agli occhi.

L’autorità giudiziaria bolognese ha svolto comunque un’inchiesta approfondita sulla pista palestinese collegata a Carlos, indagando gli ex estremisti di sinistra tedeschi Christa Margot Frolich e soprattutto Thomas Kram, presente a Bologna tra l’1 e il 2 agosto. L’istruttoria è terminata con l’archiviazione, accertando, tra le altre cose, che Kram si trovava a Bologna per ragioni personali (“una faccenda da fidanzatini di Peynet”, è l’ironica sintesi dell’ex magistrato Giuliano Turone, che ne ha scritto nel libro Italia occulta), smontando l’unico elemento con una parvenza di solidità. Ma poco importa: la pista palestinese resta il cavallo di battaglia prediletto della destra per attaccare le risultanze processuali sulla strage. Oltre alla destra, tra i suoi sostenitori ci sono il giudice Rosario Priore (che ha svolto l’ultima istruttoria sulla strage di Ustica) e alcuni giornalisti. 

A questo punto del racconto, non vi sorprenderà scoprire che anche Cossiga ci ha messo una buona parola. Nel 2008, intervistato in occasione del suo ottantesimo compleanno, ha detto che “la strage di Bologna è un incidente accaduto agli amici della ‘resistenza palestinese’ che, autorizzata dal ‘lodo Moro’ a fare in Italia quel che voleva purché non contro il nostro paese, si fecero saltare colpevolmente una o due valigie di esplosivo”. Tutte le perizie effettuate negli anni, manco a dirlo, escludono una simile ipotesi.

Durante il “processo Cavallini”, la pista alternativa è stata rilanciata a seguito di una macabra scoperta di anatomopatogia forense: nell’agosto ’80, un lembo facciale femminile fu attribuito a Maria Fresu, madre di Angela, una bimba di tre anni, la vittima più giovane della strage, ma un nuovo esame del resto aveva rivelato che non poteva essere suo, perché aveva un diverso gruppo sanguigno. Apparteneva forse a una 86ma vittima mai identificata? e la mancata identificazione era forse dovuta al fatto che si trattava di una terrorista? Non vi sono prove, in questo senso. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado contro Cavallini, in base alle relazioni peritali, si spiega che “purtroppo le ricerche dei corpi all’epoca non sono state fatte con un criterio ‘moderno’. La foga (giustificata) di cercare qualcuno vivo ha prodotto azioni che hanno sicuramente determinato la dispersione e il mescolamento di parti organiche”.

Nel 2019, naturalmente in prossimità del 2 agosto, due deputati di Fratelli d’Italia hanno richiesto l’istituzione di una commissione bicamerale d’inchiesta sui fenomeni del terrorismo interno e internazionale connessi all’attentato del 2 agosto 1980, evocando alcuni documenti acquisiti agli atti della seconda commissione Moro che suffragherebbero la pista palestinese, non ancora liberamente consultabili perché coperti dal “segreto funzionale. Attenzione: quest’ultimo non c’entra nulla col famigerato “segreto di Stato”, è solo una previsione che riguarda documenti depositati presso Camera e Senato, già visionati dai membri delle commissioni d’inchiesta, che però possono restare “riservati”, cioè non liberamente consultabili, a tempo indeterminato (sebbene comunque accessibili alla magistratura). Quest’ennesima fattispecie di sottrazione al pubblico di documenti è “un’anomalia archivistica”, anche a detta del capo dell’Ufficio dell’Archivio storico del Senato Giampiero Buonomo. Finora, purtroppo, è stata rimossa solo per gli atti di commissioni parlamentari concluse prima del 2001.

Tornando a Bologna, i parlamentari della destra post missina hanno rilanciato la proposta della Commissione d’inchiesta nel giugno 2021. Non è un caso. Dal “processo Bellini” in corso a Bologna, infatti, arrivano nuove mazzate alla “pista palestinese”. Secondo quanto emerso, sarebbe stata prospettata addirittura prima della strage. Gelli avrebbe infatti bonificato una lauta somma di denaro a Mario Tedeschi, ex senatore del Msi, iscritto alla P2 e direttore della rivista di destra “Il Borghese”, molto legato al potentissimo Federico Umberto D’Amato, affinché propalasse tramite la propria rivista false notizie costruite ad arte, collaborando alla gestione mediatica del depistaggio. Sostenendo, indovinate un po’? Anche la “pista palestinese”. 

Perché il “processo Bellini” è importante

A leggere lo scarno atto di rinvio a giudizio, il processo apertosi il 16 aprile 2021 davanti alla Corte d’Assise di Bologna potrebbe sembrare un fatto residuale, specialmente a chi non conosca a fondo certe pagine di storia politico-criminale. Tre gli imputati: un presunto ulteriore esecutore materiale neofascista; un vecchio Carabiniere in pensione, che ha depistato le indagini in anni recenti per coprire vecchie malefatte; un amministratore di condominio bugiardo in odore di servizi. Il quarto, un altro vegliardo depistatore, è passato a miglior vita prima dell’inizio del dibattimento. 

E invece è un processo importantissimo, forse addirittura uno dei più importanti della storia repubblicana, secondo l’ex magistrato Giuliano Turone, perché, a prescindere da quelle che saranno le risultanze sotto il profilo penale, sta gettando nuova luce sui meccanismi e le dinamiche del potere occulto e gli intrecci tra storia politica e criminale del paese. 

Cominciamo dall’imputato principale, Paolo Bellini, da cui il processo prende il nome. Incarna alla perfezione l’anima più oscura del terrorismo di destra, quella che finisce per intrecciarsi con la criminalità organizzata e le manovre inconfessabili dei servitori infedeli dello Stato. Cresciuto a Reggio Emilia, legato in gioventù alla destra di Avanguardia Nazionale, reo confesso per l’omicidio del militante di sinistra Alceste Campanile nel 1975, a lungo latitante in Brasile sotto falso nome e dedito al traffico di opere d’arte e mobili antichi, a un certo punto diventa killer di ‘ndrangheta e poi, detenuto in carcere con un boss mafioso, è coinvolto in un filone parallelo della trattativa Stato-mafia, per scegliere infine di collaborare con la giustizia. Il 21 luglio 2021 ha fatto sensazione la deposizione in aula dell’ex moglie, che lo ha riconosciuto in un video amatoriale girato alla stazione poco prima dell’esplosione, facendo crollare l’alibi che gli era valso il proscioglimento in una precedente indagine (basata sulla testimonianza di due persone che avevano dichiarato di averlo visto sul luogo del delitto). La donna ha chiesto di non farsi filmare e ha deposto protetta da un paravento. Nella stessa udienza, davvero toccanti le parole della figlia, che aveva nove anni all’epoca della strage. Sebbene non abbia ricordi di quella mattina, ha voluto deporre comunque al processo, per dare un segno di vicinanza concreto alle vittime e alla loro ricerca della verità.

Paolo Bellini secondo il riconoscimento della ex moglie. Immagine dal video del turista straniero girato nella stazione di Bologna a mattina del 2 agosto 1980.

Il riconoscimento di Bellini è un dato importantissimo. Un elemento analogo (l’identificazione in una fotografia scattata in piazza la mattina della bomba) è stato determinante per la condanna definitiva del neofascista e informatore dei servizi Maurizio Tramonte per la strage di Brescia, nel 2017. La sempre maggiore consistenza assunta dal coinvolgimento di Bellini rafforza inoltre il peso delle parole di Carlo Maria Maggi, leader di Ordine Nuovo nel Veneto (ovvero il mondo assiduamente frequentato dal Nar Cavallini) e condannato per la strage di Brescia insieme a Tramonte. In alcune intercettazioni ambientali del 1996, Maggi conferma che la strage di Bologna l’hanno fatta i Nar, e la bomba l’avrebbe portata “l’aviere”, alias Bellini (aveva il brevetto di pilota e il volo era la sua grande passione). Maggi offre anche una chiave di lettura della strage: tra le ragioni del clamoroso eccidio ci sarebbe stata l’esigenza di distogliere l’attenzione da Ustica, una spina nel fianco per il grande alleato statunitense e la Nato. Un’ipotesi che non cozza con le responsabilità accertate, neofascisti e P2: non dimentichiamo quanto la loggia di Gelli e Pazienza fossero legati all’oltranzismo atlantico e alla destra statunitense.

L’amministratore Domenico Catracchia è indagato per falsa testimonianza riguardo al famigerato immobile di via Gradoli 96, quello che ospitò prima le Br e poi i Nar, gestito tramite una società fiduciaria dei servizi segreti. Gli approfondimenti su questo scampolo di processo potrebbero aprire nuovi scenari sulla strumentalizzazione dei terrorismi da parte dell’intelligence, nientemeno. 

Inquietante anche il fatto che l’ex ufficiale dell’Arma Piergiorgio Segatel si trovi sotto accusa per aver mentito – ancora nel 2019 – riguardo le attività d’indagine svolte prima della strage nell’ambiente di Ordine Nuovo (in particolare presso la moglie di un militante), circa l’allarme lanciato nel luglio dell’80 da un detenuto nel carcere di Padova, Vettore Presilio. Questi aveva raccontato a Giovanni Tamburino, all’epoca magistrato di sorveglianza, che nell’ambiente di destra si parlava di un attentato in preparazione, qualcosa di cui avrebbero parlato i giornali di tutto il mondo. Cosa avrebbe voluto nascondere, a decenni dal fatto? Sono forse state ignorate per errore, o colpevolmente nascoste, informazioni che avrebbero potuto scongiurare il massacro?

La persistenza della P2

In aggiunta a tutto questo, il processo sta mettendo sotto scrutinio il possibile ruolo di Gelli e del “cervello finanziario” della P2 Umberto Ortolani come mandanti della strage. Per questo, sulla stampa il “processo Bellini” è stato chiamato anche “processo ai mandanti”. In verità, di mandanti alla sbarra non ce ne sono. Gelli e Ortolani sono morti da tempo, come Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, accusati di averli assistiti nell’organizzazione e nella gestione mediatica dei depistaggi. 

La procura generale di Bologna però ha incriminato Bellini per aver agito in concorso con i piduisti, oltre che con i Nar già condannati: per questo motivo, per valutare le sue responsabilità, la Corte d’Assise deve esaminare anche la posizione di personaggi morti e sepolti. 

Gelli e suoi sono chiamati in causa a partire dalla documentazione relativa a una serie di bonifici effettuati prima e dopo la strage. In particolare, quelli di cui lo stesso Gelli aveva preso nota a mano su un foglio a quadretti ripiegato su se stesso, con intestazione dattiloscritta “Bologna”, seguita da un numero di conto corrente cifrato, che gli era stato trovato addosso al momento dell’arresto a Ginevra, nel settembre 1982. I processi precedenti non se n’erano mai occupati perché quel foglio scottante apparteneva agli atti del processo per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, celebrato a Milano, e quando era stato trasmesso in fotocopia agli atti del primo processo per la strage del 2 agosto, l’intestazione “Bologna” risultava provvidenzialmente “tagliata”, quindi nessuno se ne curò. Soltanto grazie all’ostinato lavoro di analisi incrociata degli atti di diversi procedimenti, sostenuto dall’associazione dei famigliari delle vittime con i suoi consulenti, reso possibile dall’ampio programma di digitalizzazione dei grandi processi d’interesse storico, anch’esso sostenuto con forza dai famigliari delle vittime di strage, dopo l’esperienza-modello rappresentata dagli atti del processo sulla strage di Brescia, il “documento Bologna” è riaffiorato nel formato originale, e, raccordato con altri documenti, ha cominciato a svelare i propri segreti ai nuovi inquirenti.

Il quadro che sta emergendo è sconcertante e conferma, tra le altre cose, come lo scoperchiamento della loggia P2 nella primavera del 1981 non abbia segnato la fine dell’influenza pervasiva di quel sistema di potere occulto e ramificato. 

Diversi testimoni hanno raccontato come Federico Umberto D’Amato abbia continuato a frequentare le stanze del potere e i vertici dei servizi, esercitando la propria influenza anche dopo aver lasciato ogni incarico ufficiale (così come era stato il capo de facto dell’intelligence civile sin dal 1967, ben prima di ricevere un’investitura ufficiale). 

Uno squarcio eclatante è stato aperto dal cosiddetto “documento artigli”. Nel settembre 1987, Gelli si era costituito alle autorità italiane (era evaso dalle carceri svizzere dopo l’arresto dell’82 a Ginevra). Un mese dopo, il suo avvocato difensore, Fabio Dean, viene ricevuto da Umberto Pierantoni, capo della Direzione centrale della polizia di prevenzione, ovvero l’ex Ufficio Affari riservati del Viminale (quello che era stato il regno di D’Amato). Quanti imputati beneficiano di un trattamento simile? Si parla dei documenti riservati sequestrati a Gelli al momento dell’arresto, nell’82, tra cui c’era proprio il “documento Bologna”: Gelli, infatti, avrebbe dovuto essere interrogato a breve dai giudici milanesi che indagavano sulla bancarotta dell’Ambrosiano. “Gelli potrà avallare o meno, a seconda di come gli verranno poste le domande”, dice il legale.  Prima blandisce, poi minaccia: “Se la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli, allora quei pochi che ha li tirerà fuori tutti”. Il contenuto del dialogo finisce in un appunto riservatissimo all’attenzione dell’onorevole signor ministro dell’Interno (all’epoca Amintore Fanfani), firmato dall’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi, gestito al di fuori del circuito archivistico ufficiale, e per questo ritrovato solo tardivamente.

La procura generale è da mesi all’inseguimento di Marco Ceruti, factotum finanziario di Gelli, che alcuni documenti già acquisiti dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 collegherebbero ai bonifici del “documento Bologna”. Seguendo il denaro, inoltre, la pubblica accusa ha riscoperto la figura di Giorgio Di Nunzio, “mediatore d’affari” che, tra le altre cose, incassò bonifici di Gelli in Svizzera riportando poi i denari in Italia. Parlando di lui e del clima di potere in cui si muoveva, il figlio Roberto ha offerto in aula una vivida descrizione del reticolo che manovrava nell’ombra fiumi di denaro e leve decisionali, un reticolo informale in cui si mescolavano generali e banditi della Magliana, ufficiali dei servizi e cardinali, affaristi svizzeri e militanti di destra. Di Nunzio era molto legato a Mario Tedeschi, e frequentava il potentissimo D’Amato. Il figlio ha ricordato come alla sua morte, nell’ottobre 1981, in camera ardente si parlasse dell’arrivo di certi “svizzeri”, e della necessità di distruggere i documenti contenuti nel suo ufficio.

In aula si è pure ascoltato come, prima che una “manina” facesse sparire l’intestazione “Bologna” dall’appunto coi bonifici (riducendolo alla forma mutila trasmessa agli atti del primo processo per la strage), quell’intestazione, insieme al resto del documento, fosse stata riprodotta, ben chiara ed evidente, in un lungo rapporto investigativo della Guardia di Finanza, consegnato ai giudici istruttori che indagavano sul crack dell’Ambrosiano nel luglio dell’87. L’investigatore della Finanza Cataldo Sgarangella lo ha illustrato in aula a beneficio della Corte d’Assise, con tanto di slides, nell’udienza del 7 maggio 2021. Non era chiaro cosa volesse dire “Bologna”, precisava il rapporto. Eppure l’allora giudice Bricchetti (oggi presidente di sezione in Cassazione) e il collega Pizzi (defunto), interrogando Gelli, due volte, nel maggio 1988, non glielo chiedono. Bricchetti, in aula, si rammenta di Gelli “nella nostra stanza” (evidentemente l’ufficio istruzione): “Ci fu un primo interrogatorio in cui secondo me [...] Mi permetta Presidente questa opinione personale, venne a sondare il terreno con il suo avvocato a capire che tipo di domande gli potessero essere fatte”.

A Gelli non viene fatta nessuna domanda su quella strana intestazione, “Bologna”, anche se il primo processo per la strage che lo vede già imputato per depistaggio (un’accusa che il suo legale definiva “ridicola”, nel colloquio privato con le alte sfere del Viminale) è in pieno svolgimento, e ne parlano tutti i giornali. Avrebbe fatto qualche differenza, se gliene avessero chiesto conto? È quasi certo che Gelli, come al solito, non avrebbe risposto nulla. E tuttavia, una domanda diretta sarebbe rimasta nel verbale trasmesso ai magistrati bolognesi che indagavano sulla bomba del 2 agosto, e avrebbe potuto attirare la loro attenzione, spingendoli, magari, a cercare l’originale della fotocopia tagliata del documento, e allora, chissà. Invece il “documento Bologna” sparisce in un mare di carte, come lo slittino “Rosebud” nei depositi stracolmi della reggia di Citizen Kane, e Gelli può morire in pace a casa propria, come desiderava, come chiedeva il suo avvocato perorandone la causa presso le alte sfere del Viminale, stando al famoso “documento artigli”.

Reticenze, disattenzioni, omissioni, complicità, ricatti: davanti alla Corte d’Assise di Bologna viene dissezionata l’anatomia del potere occulto in Italia, un potere i cui tentacoli si protendono dal 1980 attraverso i decenni successivi. Onore a Radio Radicale, che rende accessibile l’audio di tutte le udienze nel proprio sito.

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Il 6 aprile 2022, si è concluso il primo grado del "processo ai mandanti" con la condanna di tutti gli imputati: Paolo Bellini all'ergastolo, per strage, l'ex Carabiniere Piergiorgio Segatel a sei anni, per depistaggio, e Domenico Catracchia, ex amministratore degli immobili in via Gradoli, a quattro anni, per aver fornito false informazioni ai p.m. al fine di sviare le indagini. La Procura generale ha inoltre disposto ulteriori indagini su alcune testimonianze (per verificare se sussistono i reati di depistaggio e falsa testimonianza).

L'8 luglio 2024, la Corte d’Assise d’Appello di Bologna ha confermato l’ergastolo per Paolo Bellini e le condanne anche per i coimputati Segatel e Catracchia. La sentenza deve passare il vaglio della Cassazione per essere definitiva.

In base alla sentenza la strage non è il frutto di alcuni criminali isolati ma parte di un coordinamento più strutturato tra diversi gruppi terroristici di estrema destra e apparati deviati dello Stato. Inoltre, viene confermato l’impianto sulla responsabilità dei mandanti. Pur non imputabili – perché morti – i giudici hanno stabilito che mandanti, organizzatori o finanziatori dell’attentato furono Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi.

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