Storie di corpi costretti a scegliere tra la vita e la dignità
4 min letturaNon per disperazione oggi digiunamo, ma nella speranza di contribuire perché l’Italia diventi un paese civile. Sappiamo che lavorando generosamente siamo la vita. Chi ci impedisce è assassino: non paghiamo le tasse perché il nostro paese, dal mare alla terra, sia una mala galera in mano ai prepotenti.
(Danilo Dolci, messaggio al Presidente della Repubblica)
Io ricordo la storia di Mariarca Terracciano, pur non avendola mai conosciuta.
È una di quelle storie distanti che racchiudono una forza in grado di attaccarsi sotto la pelle. E una volta che finiscono lì non le togli tanto facilmente.
Mariarca era un’infermiera della Asl 1 di Napoli. Un giorno decide di protestare perché gli stipendi non sono più pagati. Sapete come funziona, no? La crisi, il debito pubblico, i soldi non ci sono, o forse ci sono ma la burocrazia è un grovigliaccio e allora ci vuole tempo… Però intanto è meglio lavorare sperando che i soldi tornino, sennò si perde il lavoro in un paese dove il lavoro non c’è, anche se i lavoratori non mancano. Ma se lavori e non percepisci salario, alla fatica che fai non corrisponde la garanzia di un sostentamento, e dunque la possibilità di sopravvivere. Perciò se lavori e non percepisci salario, intimamente convivi con un terrore difficile da spiegare. È il terrore di chi lavora partecipando al proprio potenziale omicidio, e non sa come sottrarsi alla trappola. È come essere costretti a giocare alla roulette russa. Vuoi fare l’infermiera? Va bene, però devi giocare alla roulette russa, mentre lavori. E qui i sacerdoti del merito di solito sono intorno a dire che “il posto di lavoro te lo devi meritare”, quindi la roulette russa è solo un banco di prova, e non un terrore ingiusto e assurdo.
Mariarca Terracciano sceglie di ribellarsi nell’unico modo che forse rimane agli onesti quando i diritti sono negati o ignorati. Mette sul piatto della bilancia l’unica cosa che ha: la vita. Inizia uno sciopero della fame e inizia a togliersi 100 ml di sangue al giorno. Una forma di lotta nonviolenta in cui Mariarca accoglie su di sé, per mostrarne la follia, quella violenza sociale che subisce quotidianamente nel lavoro. Una lotta che è al tempo stesso testimonianza di verità e scandalo, in un mondo politico dove la chiacchiera sembra l’unità di misura del rapporto con i cittadini.
Mariarca è morta durante quella protesta. E di lei non ricordo solo la morte.
Ricordo i discorsi sul fatto che, alla fine, non è morta certo per quei salassi. Probabilmente, hanno detto e scritto, è morta perché già stava male. Come se essere logorati dalla partecipazione quotidiana al proprio potenziale omicidio ricada per intero su chi è costretto a scegliere la trappola, lasciando fuori chi la trappola la impone, la giustifica o la teorizza. Come se la scelta di mettere la propria vita sul piatto della bilancia abbia avuto meno valore, perché alla fine Mariarca è morta per un altro motivo, e la vita è caduta fuori dal piatto proprio all’ultimo. Ma è comprensibile: quando il saggio, per indicare la luna, mette in gioco la propria vita, per lo stolto è fondamentale dimostrare che il saggio, morendo, ha indicato la terra.
Quella di Mariarca è una storia che si ripete. È un coro da cui prima o poi una figura si discosta per recitare l’ingrato ruolo dell’eroe. L’eroe si dà in pasto perché tutti gli altri vedano qualcosa che, altrimenti, resterebbe nascosto, o impossibile da comprendere. L’eroe, a ogni replica di questa tragedia, dice «Se ci sono i lavoratori, come fa a non esserci lavoro? E se non c’è lavoro perché non ci sono i soldi, dove sono finiti i soldi? ».
Celebrare l’eroe, in questi casi, ho imparato essere un astuto inganno: la più nobile tra le scuse per non ascoltare l’eroe, e dunque la più ipocrita. Perché mentre celebri il dito stai ben distante dalla luna, dalle sue implicazioni. Sbrighi in automatico le pratiche sui tavoli della memoria e della coscienza, e poi via: sei pronto per la tua roulette russa quotidiana. Tanto gli altri hanno meno possibilità di farcela, hai calcolato, quindi se un po’ meno in trappola di loro.
Questa è una storia che si ripete anche quando in apparenza cambia forma, e si ripete così spesso che nella mia piccola testa non riesco a tenere il conto. Si ripete a Taranto con l’Ilva, si ripete in Sardegna con i minatori del Sulcis. E si ripete ogni giorno in una città come l’Aquila, da quel 6 aprile 2009. E sono sicuro che, nella vita di ognuno, questa storia vada in scena più spesso di quanto lascino intendere gli status su Facebook o gli aggiornamenti dei blog personali.
Questa storia si ripete quando il corpo diventa testimonianza per colmare un vuoto prima creato e poi mantenuto, e per colmare le conseguenze di quel vuoto troppo a lungo ignorate. Nella testimonianza si rivela la vaporosità delle parole di circostanza, il dire “sto con gli oppressi” come se si trattasse di scegliere quale coccarda abbinare al vestito buono. Si rivela l'inconsistenza di chi giustifica la propria distanza di sicurezza dal problema. Nella testimonianza trova senso un moto di rivolta interiore di fronte ai corpi sceneggiati di ministri che camminano in spiaggia sorridenti, accanto a moglie e figli. Corpi che appaiono sorridenti grazie al fotografo che li ha immortalati molte volte, prima di trovare lo scatto più falsamente vero.
Se uno spazio alle folli maree dell’assurdo si riesce ancora a strappare, forse è perché da qualche parte, sotto la pelle, non si riescono a dimenticare storie come quella di Mariarca neanche volendo. Allora, per convivere con la stretta allo stomaco, si impara a riconoscere quella storia nelle diverse forme che incarna. Riconoscendola, appare per quello che è tutto il frastuono ingannevole delle voci che dicono «no, ma vedi lo spread?», «oh, occhio, questa è la settimana decisiva per l’euro». Voci che tutto sommato vorrebbero essere ringraziate, perché spiegano l’economia del «rigore» ai poveri cristi imbecilli e ignoranti. Ma, come scriveva Borges, «l’umanità dimentica che si tratta d’un rigore di scacchisti, non di angeli», mentre abdica da se stessa.
O forse ricordare storie come quella di Mariarca, tenerle sotto la pelle, è un modo per stare lontani da un atroce domanda: di fronte alla bilancia, cosa mettiamo sul piatto tra la nostra vita e la nostra dignità?
E anche questo, in effetti, provoca un moto interiore di rivolta.