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Una «sconfinata» Resistenza

12 Novembre 2024 7 min lettura

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Una «sconfinata» Resistenza

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di Chiara Colombini e Carlo Greppi

Pubblichiamo un estratto dell'introduzione dal libro 'Storia internazionale della Resistenza italiana' (Laterza, 2024) a cura degli storici Chiara Colombini e Carlo Greppi. Chiara Colombini è responsabile scientifica dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” e fa parte del comitato scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri. Carlo Greppi, tra le firme di Valigia Blu, per Laterza cura la serie “Fact Checking” ed è autore di numerosi saggi sulla storia del Novecento.

Che la presenza di partigiani stranieri sia diffusa e che contestualmente ai fatti sia percepita come «normale» o come una particolarità locale di un conflitto comunque globale, sono osservazioni che non la rendono più semplice da decifrare oggi. Se la complessità del movimento partigiano è un’acquisizione storiografica consolidata, la partecipazione internazionale allo stesso aggiunge un’ulteriore tessera al multiforme mosaico, rafforzando l’immagine di un’esperienza che è per sua natura un incontro tra mondi distanti. Una complessità in questo caso tanto più accentuata, perché le diverse provenienze geografiche dei combattenti stranieri, e soprattutto le storie di guerra pregresse che portano con sé, non consentono di delineare una realtà omogenea al proprio interno, ma al contrario appena disegnata nei suoi confini esterni dal tratto comune del ritrovarsi sospinti dalle circostanze in un Paese straniero, e qui nelle condizioni di combattere contro i fascismi.

Non diversamente da quanto la storiografia ha insegnato per gli italiani che diventano partigiani, anche per coloro che tali divengono distanti dal loro Paese occorre tenere conto, dunque, della molteplicità dei percorsi personali e della pluralità delle motivazioni che spingono alla lotta, in uno spettro che vede agli estremi opposti la semplice ricerca di una strategia di sopravvivenza individuale e la scelta politicamente motivata in senso antifascista e internazionalista. Un ventaglio di possibilità che però risulta inevitabilmente connotato dalle peculiarità che accompagnano i combattenti stranieri: diversità di lingua (oltre che di età e di estrazione sociale); limitata conoscenza del territorio; difficoltà nei contatti con la popolazione.

A fronte di tutto ciò – una presenza diffusa, segnata da caratteri comuni, e insieme cangiante al proprio interno –, non è arbitrario domandarsi se possa essere utile aggiungere una quarta guerra alle tre individuate nel 1991 da Claudio Pavone come categorie di analisi per esplorare la complessità della Resistenza. Lo stesso Pavone non mancava di tenerne conto, soffermandosi sui tratti che fanno del secondo conflitto mondiale una «guerra di religione europea e mondiale», e considerando questa quarta dimensione universale – che pure resta in secondo piano nella sua riflessione – come un elemento costitutivo della natura ideologica dello scontro in corso: «I resistenti, motivando la propria lotta con l’appello a grandi valori che andavano oltre “il politico”, da una parte tendevano davvero a vedere incarnati nei loro nemici disvalori assoluti; dall’altra però avevano proprio nei valori professati, in quanto universali, l’antidoto contro questa degenerazione». Il prevalere di formule patriottiche per definire la guerra partigiana, ha sottolineato Pavone, ha finito per oscurare la sua «seconda» dimensione, quella di guerra civile – nonché, va aggiunto, appunto la quarta –, in favore di una rappresentazione, quella di guerra di liberazione nazionale, «tranquillizzante», «levigata e rassicurante».

Evidenziare una guerra ideologica internazionale accanto alla guerra patriottica, alla guerra civile e alla guerra di classe è pertanto un invito a complicare lo schema interpretativo di Pavone, ma è al tempo stesso una conferma della sua pregnanza. Perché enucleare una guerra internazionale si rivela proficuo a patto di tenere presente il suo intersecarsi, secondo combinazioni variabili, con gli altri tre piani di analisi. E, naturalmente, è il rapporto con la dimensione patriottica della Resistenza a balzare in primo piano.

Se è illusorio presupporre un’uniforme inclinazione internazionalista nei combattenti stranieri – fatti naturalmente salvi quelli con una precisa connotazione ideologica: i «rivoluzionari professionali» comunisti e gli anarchici su tutti – e, a maggior ragione, se è ingannevole pensare che tale inclinazione arrivi a orientare ampiamente nella stessa direzione le formazioni di cui essi entrano a fare parte, nondimeno questa spinta esiste nei fatti, e la presenza di una guerra condotta per un’idea di umanità in cui l’appartenenza nazionale non è rilevante va ad arricchire di sfumature la tela. Benché sia da considerare il tasso di retorica legato alla funzione “pedagogica” dei giornali delle formazioni, è ugualmente significativo ciò che scrive, nell’estate del 1944, il periodico della Divisione ligure «Cichero», con una folta presenza di stranieri: «Se la formazione partigiana è l’espressione dell’unità del popolo italiano, dato che ne fanno parte inglesi, russi, polacchi, francesi rappresenta insieme una più vasta unione: quella di tutti i popoli che lottano contro il nazifascismo per la libertà». Certamente induce a sottolineare il peso delle motivazioni ideologiche e internazionaliste quanto afferma Roberto Battaglia a pochi mesi dalla Liberazione circa la marginalità dell’idea di patria tra le motivazioni della lotta che ha potuto constatare nella sua esperienza resistenziale:

“non c’è strada più semplice che quella d’interrogare qualche partigiano e domandare a lui stesso perché abbia scelto questa nuova e rischiosa condizione di vita. Le risposte, non troppo varie, si possono riassumere intorno ai seguenti motivi: «L’ho fatto per fuggire alla cattura dell’esercito repubblicano e del servizio del lavoro», o «Sono divenuto partigiano perché i tedeschi m’hanno bruciato la casa – oppure – perché uno della mia famiglia è stato ucciso in una rappresaglia – o anche – perché sono comunista o anarchico o di Giustizia e Libertà». Qualcuno delegherà a un altro la responsabilità della sua decisione, dichiarando d’essere entrato in banda perché già c’era un suo parente o un suo amico; qualcuno spingerà la sua onestà fino a confessarvi che non aveva altra soluzione, essendo privo di ogni mezzo economico; qualche altro, più colto, vi dirà che quella vita l’ha attratto per il suo sapore insolito d’avventura. Nessuno o quasi nessuno affermerà, e ciò può interpretarsi come un naturale senso di riserbo o di spirito di misura posseduto dagli italiani, specie negli strati sociali più umili, che l’ha fatto «per amor di patria».”

Eppure, anche circoscrivendo l’attenzione al 1943-1945 e lasciando da parte i successivi meccanismi di costruzione della memoria, la prospettiva nazionale resta ineludibile, per la convergenza di più fattori. Come sottovalutare, infatti, l’incidenza e la vischiosità di un concetto – patria, nazione – che fa parte della formazione diffusa delle generazioni che prendono parte alla Resistenza, con un percorso che il fascismo accentua ma che ha origini più risalenti nel tempo? Un concetto che, per di più, inteso come l’Italia intera o come «piccola patria» in cui si vive ogni giorno, perde ogni astrattezza, reso clamorosamente evidente dall’occupazione tedesca. Tanto che, per chi anima e organizza la lotta, puntare sulla guerra di difesa del territorio invaso si dimostra una leva di mobilitazione potente (serve appena nominare la «Grande guerra patriottica» dell’Urss). Nel caso italiano, poi, la leva appare utile nei confronti di una popolazione che progressivamente ha voltato le spalle al fascismo, che vuole la fine del conflitto, senza però per questo essere disponibile in automatico a contrastare in modo attivo l’occupazione e la Rsi. L’idea di patria, d’altronde, prioritaria per le formazioni di carattere militare o autonomo, è rilevante anche per gli antifascisti che concepiscono la Resistenza come una guerra ideologica (a prescindere dai diversi orientamenti politici), i quali, dopo esserne stati esclusi per vent’anni, con un forte senso di rivalsa aspirano a riappropriarsene, per ridefinirne il significato in antitesi al fascismo e per riscattarne la dignità. Non è certo casuale che molti gridino o lascino per iscritto come ultime parole «Viva l’Italia» o «Viva l’Italia libera» (espressione in cui sostantivo e aggettivo hanno uguale valore). Gli esempi in questo senso potrebbero moltiplicarsi, ma è più che sufficiente notare che gli organismi politici unitari della Resistenza, a livello sia centrale sia locale, prendono il nome di «comitati di liberazione nazionale». In ultimo ha un’importanza non secondaria che i vertici politici e militari delle formazioni Garibaldi, che forniscono la metà degli effettivi alla lotta partigiana, dopo la cosiddetta «svolta di Salerno» del Pci di aprile 1944, diventino determinati sostenitori della guerra unitaria di liberazione nazionale.

[...]

È stata dunque la «nostra» una Resistenza meticcia o transnazionale, locale o globale, è stata espressione di un internazionalismo patriottico o di un patriottismo internazionale?

Forse, semplicemente, la Resistenza è stata tutte queste declinazioni al contempo: perché se il nazifascismo ha avuto un’indubbia efficacia è stata quella di saper compattare le file di chi gli si è opposto, in ogni luogo e in ogni tempo. In un cortocircuito che non si risolve definitivamente, umiliando i popoli e il concetto di umanità, nazisti e fascisti hanno suscitato oggettive convergenze e solidarietà trasversali, rendendo al tempo stesso ancora desiderabili le appartenenze nazionali calpestate.

Forse sulla risposta incide la prospettiva che si vuole adottare: le cose cambiano se si intende impiegare il caso della Resistenza in Italia e della sua composizione come uno strumento per riflettere sull’internazionalismo oppure, con uno scarto che sposta i termini del problema, se si assume la partecipazione internazionale come un mezzo per approfondire la conoscenza della natura e delle dinamiche di quella lotta.

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La Resistenza italiana – la Resistenza in Italia – è stata anche una somma di combattenti che hanno portato «una bandiera negata» diversa dalla propria: disertori austriaci bastonati a morte e sudafricani rimasti fino all’ultimo, «mongoli» saliti ai monti a centinaia e jugoslavi impegnati a combattere per una «nuova, migliore e degna vita umana»; è stata gli africani della Banda «Mario», il «fochinàu» degli inglesi di Meneghello, le «Aquile rosse» sovietiche, e Jacobs che cade sulle porte dell’Albergo Laurina e molto altro che troverete in queste pagine.

Ogni combattente l’ha vissuta a modo suo, ma nei fatti, nell’essenza delle cose, la guerra partigiana è stata fedele a sé stessa: ha sconfitto armi in pugno un’idea del mondo prevaricatrice ed escludente, anche perché hanno combattuto fianco a fianco più generazioni di uomini e donne, di ogni credo politico e religioso e ceto sociale, e di ogni nazione.

Immagine in anteprima via laterza.it

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