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Stellantis e Ilva, il futuro sempre più incerto dei lavoratori e un paese senza visione

12 Gennaio 2024 8 min lettura

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Stellantis e Ilva, il futuro sempre più incerto dei lavoratori e un paese senza visione

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Queste prime settimane il governo si è trovato impegnato in varie crisi di natura industriale di lunga data. Da una parte il rapporto tra il paese e Stellantis, il gruppo nato dalla fusione tra Fiat-Chrysler e Peugeot. Si tratta di un rapporto cruciale non solo per il numero di occupati che genera il gruppo, ma anche per il futuro del paese nel settore dell’automotive, che è dominato dal gruppo. Dall’altra c’è poi la questione ex-ILVA, con la rottura al momento definitiva con il partner indiano Arcelor Mittal che aveva il compito di rivitalizzare l’industria dopo la gestione dei Riva.

Si tratta di due casi storici, visto che anche i precedenti governi si sono trovati a gestire ambedue le situazioni, a partire addirittura dalla Prima repubblica. Ma sono anche due casi emblematici della politica industriale che il paese ha perseguito nel corso dei decenni, proprio in un’epoca in cui la politica industriale sembra di ritorno. 

Stellantis e l’Italia: un rapporto complicato 

Negli ultimi anni il rapporto tra il gruppo Stellantis e l’Italia è andato peggiorando. Recentemente sono due le aree che destano maggiore preoccupazione. 

La prima è quella della Basilicata, legata in particolare all’impianto produttivo di Melfi. Lo stabilimento aveva fatto la sua fortuna grazie ai modelli endotermici (i motori a scoppio) e anche nell’ultimo anno la produzione era stata incentrata prevalentemente sui modelli a più grossa cilindrata, come Jeep Renegade e Jeep Compass. La crisi del mercato americano, unita ai problemi riguardanti i superconduttori e i piani di trasformazione del settore, aveva messo in guardia i sindacati.

Infatti nonostante la lieve crescita nel 2023, dove la produzione nello stabilimento segna un 3,9%, il confronto con il 2019 è impietoso: una flessione del 24%, che corrisponde a una perdita di 59mila macchine. 

Per rassicurare le parti sociali e i lavoratori, il gruppo Stellantis aveva presentato il piano per lo stabilimento, in un incontro con i sindacati avvenuto il 27 settembre. Nel 2024 dovrebbe tecnicamente arrivare una nuova autovettura DS, parte appunto del gruppo, mentre si interromperà la produzione della 500X. Nel 2025 invece toccherà a un secondo modello DS e a una nuova linea di Jeep Renegade e Jeep Compass. 

I sindacati però temono per questa riorganizzazione, tanto che hanno chiesto alla Regione Basilicata e a Confindustria di convocare un tavolo per la crisi riguardante l’area industriale di Melfi. L’umore degli operai è indicativo della situazione: come riporta un’intervista rilasciata alla testata locale Basilicata24, un operaio definisce l’operazione “un salto nel buio”. I modelli elettrici, a differenza di quelli precedenti, rischiano di costare troppo e di non essere acquistati da nessuno, dichiara l’operaio. 

Come avevamo già detto lo scorso ottobre, d’altronde, il sistema di incentivi all’elettrico in Italia rischia di essere fatale per il futuro del mercato. Nel nostro paese infatti il sistema va a incentivare l’acquisto di mezzi che, in altri paesi, sarebbero considerati inquinanti. Se il passaggio all’auto elettrica è una necessità, sulle modalità vi è ancora molto da fare. 

La seconda area a destare preoccupazione è lo storico stabilimento di Mirafiori, e in generale la città di Torino. Il caso emblematico è un annuncio, pubblicato sulla piattaforma Immobiliare.it, riguardante la vendita di uno stabilimento a Grugliasco, comune vicino a Torino, dove in precedenza veniva assemblata la Maserati, che fa parte del gruppo. 

L’amministratore delegato del gruppo Stellantis, Carlo Tavares, aveva annunciato nel mentre che i lavoratori sarebbero stati trasferiti proprio nello stabilimento di Mirafiori. Ma, nonostante ciò, lo stabilimento è ben lontano dagli antichi fasti. I dati segnalano un calo sia nel numero di auto prodotte sia nel personale. Se negli anni ‘70, periodo record per la Fiat, si arrivava a 70mila dipendenti, oggi a Mirafiori lavorano poco meno di 12mila persone. Mentre la produzione nel 2023 ha registrato un meno 9,3%, mancando la quota 100mila auto a cui si voleva puntare dopo il boom post-pandemico. 

Nel corso dell’anno appena trascorso, Stellantis ha dichiarato l’intenzione di investire maggiormente nella città di Torino. Con un comunicato ha infatti annunciato svariati investimenti a partire dal 2024, primo tra tutti la produzione della nuova 500 Fiat e Abarth, completamente elettriche. Ma, proprio in virtù della sfida dell’elettrificazione e in generale della sostenibilità del settore, il gruppo ha anche annunciato a Torino un Battery Technology Center, per la ricerca e la validazione dei componenti delle batterie, assieme al Polo dell’Economia Circolare. 

I sindacati però non si dicono soddisfatti, e anzi temono per il futuro dello stabilimento e della città. La nuova Fiat Panda Elettrica, che attendevano assieme allo stabilimento di Pomigliano, verrà prodotta in Serbia, mentre la berlina Maserati, la nuova Quattroporte, è rinviata. Di fatto le sorti dello stabilimento Mirafiori risiedono tutte nella 500 elettrica dedicata al mercato statunitense, anche se ci si aspetta una netta frenata nel 2024 come per tutta l’economia.

Proprio per questo motivo i sindacati, visto il sempre maggior disimpegno del gruppo, hanno affermato che è necessario rompere il tabù di un solo produttore in città. D’altronde è da tempo che l’industria cinese punta gli occhi su Torino. Di recente il colosso cinese delle batterie BatteroTech è sbarcato in città, in piena Piazza Solferino, con un centro di ricerca proprio sulle batterie. Luigi Paone, segretario generale della UILM torinese, non si dice contrario a investimenti da parte di imprese cinesi. Le regole, ha spiegato Paone, ci sono e sono chiare per tutti. La speranza è che un investimento del genere porti lavoro in una zona che sta attraversando un periodo di estrema difficoltà dal punto di vista occupazionale. Ciò auspicando ricadute positive anche sull’occupazione collegata, come quella dei sedili per le auto. 

Il problema, spiegano i metalmeccanici, è che mentre i vecchi modelli vengono archiviati non ne arrivano di nuovi. Ma c’è anche il tema generazionale: l’età media dei lavoratori nello stabilimento è di 56 anni. A questo, però, il gruppo Stellantis sembra aver risposto con l’operazione si chiama “Costruisci il tuo Futuro”, che consiste in incentivi per chi vuole lasciare l’azienda e dedicarsi a progetti personali. 

Il caso dell’Ilva di Taranto: tra tenuta occupazionale e ambiente

Le crisi aziendali che il governo è chiamato ad affrontare non si fermano al progressivo abbandono del paese da parte di Stellantis. Proprio in questi giorni è tornata alla ribalta la delicata questione dell’Ex Ilva.

Per comprendere la questione è necessario fare un passo indietro e capire l’importanza strategica dell’Ilva. Fondata negli anni ‘60 e controllata attraverso Italisider dal colosso industriale pubblico dell’IRI, all’epoca rappresentava una delle acciaierie più grandi d’Europa e l’unico stabilimento italiano a ciclo integrale, in grado di creare nuovo acciaio partendo solo dalle materie prime. Questo processo, al tempo molto costoso, garantiva però una maggior occupazione con la promessa di rilanciare il meridione. 

Negli anni ‘80, l’azienda entra  in crisi, e negli anni ‘90 viene inserita nel gigantesco piano di privatizzazioni, con la vendita ai fratelli Riva. L’acquisizione non è certo scevra da polemiche: la vendita avviene a un prezzo di 2.500 miliardi di lire, nonostante la valutazione della società sia intorno ai 4mila miliardi. L’esperienza dei Riva non si conclude però nel migliore dei modi: nel 2012, infatti, la magistratura dispone il sequestro dell’acciaieria per violazioni ambientali. Nella zona emergono sempre più casi anomali di tumore, che secondo l’Osservatorio Nazionale Amianto sarebbero collegati all'industria. Secondo l’accusa, i Riva non avrebbero svolto i necessari investimenti per la salvaguardia della salute. Per questo è arrivato il commissariamento dell'azienda da parte del governo. Nel 2016, dopo l’amministrazione straordinaria, si apre il bando per la gestione di Ilva.

La gara viene vinta da Arcerol Mittal, che però prevede fino a 6 mila esuberi e uno scudo penale. In pratica, data l’importanza occupazionale dell’Ilva, si decide di tenerla aperta, anche se ciò potrebbe comportare per gli amministratori dei reati ambientali. I quali, proprio grazie allo scudo penale, non sarebbero perseguibili fino alla conclusione del progetto di bonifica dell’impianto. Questo scudo è stato più volte discusso, visto che di fatto permetterebbe reati ambientali e il Governo Conte II lo ha per questo cancellato. Secondo i critici, come ad esempio Carlo Calenda, la cancellazione dello scudo e i successivi patti hanno creato una situazione fortemente sbilanciata nei confronti di Arcerol Mittal. Nel mentre, lo Stato è tornato a investire nello stabilimento dal dicembre del 2020 con Invitalia, con un controllo condiviso nonostante la quota di minoranza. 

Proprio quest’ultimo aspetto è stato il pomo della discordia negli ultimi giorni. Da tempo, Arcerol Mittal ha compreso che l’investimento compiuto non è così profittevole, perciò ha ridotto l’attività di Ilva. Anche per questo motivo, negli ultimi giorni il governo ha avanzato una proposta di aumento di capitale che avrebbe garantito il controllo sull’azienda. Questo ha fatto infuriare Arcerol Mittal che inizialmente si è tirata indietro. Tra i motivi addotti dai legali dell’azienda vi sarebbero anche i mancati fondi erogati dal governo italiano per la decarbonizzazione. Allo stato attuale, sembra che il governo e Arcerol Mittal siano giunti a un accordo dove, nonostante le quote invertite dovute all’aumento di capitale, resterà il controllo condiviso. La situazione però è in aggiornamento e non si esclude nemmeno una nazionalizzazione temporanea, nella speranza che si facciano avanti privati disposti a investire nell’impianto. 

Quello di cui però non sembra essersi discusso è il futuro dei lavoratori. Vi sarebbero infatti dovuti essere 1.447 reintegri dopo la fase di bonifica. Ma questa è in netto ritardo. Oltre agli esuberi, vi sono poi lavoratori per cui la cassa integrazione è ormai un’abitudine, tanto da trovarvisi una volta al mese. La produzione infatti si è dimezzata nel 2023 e l’Ilva si sta pian piano fermando. 

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Quale vuole essere la politica industriale del paese?

Queste due vicende mostrano il pressapochismo con cui la politica industriale è stata gestita nel nostro paese, non certo da oggi. L’industria automobilistica è sicuramente centrale per noi, ma anche il settore dell’acciaio si sta rivelando di fondamentale importanza: in Italia vanta infatti 70mila addetti diretti. Non solo: proprio in virtù del suo impatto ambientale, negli ultimi anni si è discusso ampiamente delle tecniche e della ricerca necessaria per rendere sostenibile il settore. Tra le possibili soluzioni, ad esempio, c’è l’utilizzo dell’idrogeno nel processo: già oggi nel nostro paese vi sono esperimenti con l’idrogeno verde, prodotto da fonti rinnovabili e senza materie prime fossili, nella produzione di acciaio. Questo idrogeno, combinato con l’ossigeno, verrebbe utilizzato al posto del gas naturale per produrre acciaio, quindi con un impatto ambientale nettamente minore. 

In Italia invece sembrano preferirsi due correnti di pensiero, tra loro talmente opposte che finiscono per essere simili. Da una parte, abbiamo una fiducia cieca nel mercato, che vede ad esempio in Arcerol Mittal o nel gruppo Stellantis la soluzione ai problemi per i relativi settori. Dall’altra, invece, l’utilizzo dello Stato non per promuovere innovazione e orientare il mercato attraverso la ricerca, gli incentivi o direttamente la proprietà, ma solo per mantenere l’occupazione. Queste due visioni della politica industriale, figlie più degli interessi politici che della ricerca scientifica, rischiano di frenare il nostro paese, che avrebbe invece bisogno di una strategia complessa per settori che saranno stravolti dalla transizione ecologica o digitale, sia per non rimanere indietro con i partner europei sia per garantire un’occupazione di qualità, anche attraverso la formazione.  

Immagine in anteprima via Il Sole 24 Ore

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