Sull’Ucraina gli interessi degli Stati Uniti non sono quelli dell’Europa
8 min letturaChe di fronte alla guerra di aggressione russa nei confronti dell’Ucraina Stati Uniti ed Europa non abbiano interessi totalmente coincidenti non è un mistero. La chiarezza con cui si è espresso il premier italiano Draghi durante la visita alla Casa Bianca è una pacata sottolineatura di questa distanza non siderale.
A dividere i 27 paesi membri dell'Unione Europea da Washington ci sono i pericoli per un conflitto che si combatte all’interno del continente europeo e che rischia di tracimare oltre i confini ucraini, ci sono i costi crescenti dei prodotti energetici e i pericoli per una crisi alimentare le cui conseguenze potrebbero essere nuove ondate migratorie o instabilità crescente nel Mediterraneo. Le prese di posizione di Macron e le parole pronunciate dal presidente del consiglio Draghi durante la sua recente visita a Washington segnalano proprio queste divergenze sulla strada da adottare per uscire dall’imbuto della guerra di aggressione russa. Gli Stati Uniti sembrano invece aver scelto di usare la guerra per rinnovare la centralità del legame transatlantico e costruire le basi di un equilibrio mondiale nel quale gli alleati in ogni quadrante del pianeta sono parte di un blocco che compete con gli avversari di Washington, Pechino in primis.
Il discorso del presidente Biden agli operai della fabbrica Lockheed Martin dell’Alabama dove si costruiscono i missili anticarro Javelin e le dichiarazioni del Segretario alla Difesa Austin in visita a Kyiv lo scorso 24 aprile presentano in maniera piuttosto chiara il punto di vista americano.
L’ex generale a capo del Pentagono aveva parlato di indebolire la Russia in maniera permanente - non cioè di ridurne la capacità offensiva in questa guerra ma nel lungo periodo - un compito che va oltre la volontà di vedere tornare la pace in un’Ucraina sovrana. Il discorso di Biden è più ampio ed è utile perché ci parla anche del versante economico, della Cina e della retorica un po’ da Guerra fredda che questa amministrazione sembra voler usare. Proviamo a segnalare alcuni passaggi importanti.
Parlando agli operai che costruiscono i missili leggeri che assieme ai droni turchi sembrano aver giocato una parte cruciale nella capacità dell’esercito ucraino di fermare l’avanzata russa, il presidente USA ne ha elogiato il lavoro, paragonandoli a quelli che contribuirono a rifornire le linee durante la Seconda Guerra Mondiale, “quando gli Stati Uniti erano noti per essere l’arsenale della democrazia… abbiamo costruito le armi e le attrezzature che hanno contribuito a difendere la libertà e la sovranità in Europa anni fa. Vale di nuovo oggi”.
Come allora, suggerisce Biden, siamo a un punto di passaggio della storia: “Nel mondo è in corso una lotta tra autocrazia e democrazia” e gli operai che costruiscono i missili sono parte di quella prima battaglia sul campo senza bisogno che l’esercito degli Stati Uniti debba venire coinvolto.
Il secondo passaggio riguarda il lavoro: “C'è qualcos'altro da capire. Essere l'arsenale della democrazia significa anche posti di lavoro ben pagati per i lavoratori americani”. Tradotto e interpretato: la spesa pubblica degli Stati Uniti e dei loro alleati è una leva per l’occupazione e non incontrerà l’ostruzionismo che il partito repubblicano ha usato contro le riforme in materia di transizione ecologica.
Il terzo punto di un discorso dalla logica interna ben congegnata: per costruire i missili ed essere competitivi dal punto di vista tecnologico servono i semiconduttori, i microchip e per questo gli Stati Uniti devono investire risorse per diventare un grande produttore. In questo caso si promuove una politica bipartisan, l’Innovation Act che investe risorse pubbliche per colmare il ritardo con la Cina ed è una delle poche cose che repubblicani e democratici sono riusciti a produrre assieme. “Fondamentalmente, si tratta di una questione di sicurezza nazionale. Questo è uno dei motivi per cui il Partito Comunista Cinese sta facendo pressioni per opporsi a questa legge”, dice il presidente USA.
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Questo discorso è dunque utile per capire come guarda al mondo in questo momento l’Amministrazione americana in carica. Gli Stati Uniti stanno innegabilmente lavorando alla costruzione di una rete di alleanze che contribuisca a contenere e competere con la Cina, potenziando e ampliando il ruolo della Quadrilateral Security Dialogue (o Quad) nel Pacifico, cui partecipano India, Australia e Giappone e dove sono stati invitati anche Nuova Zelanda, Corea del Sud e Vietnam. La guerra scatenata dai russi in Ucraina è invece l’occasione per rilanciare e rafforzare l’Alleanza atlantica che non se la passava troppo bene: disegnando un mondo in cui Cina e Russia costituiscono un asse dell’autoritarismo, è più semplice rinsaldare il legame con l’Europa democratica e liberale. Come questa rete si integri e come regga alla prova dei fatti non è scontato: l’India, alleato di ferro in funzione anti cinese, ha mantenuto un atteggiamento neutrale nella guerra ucraina. Quanto la retorica su democrazia liberale e diritti umani non sia un argomento ce lo dice poi proprio l’esempio indiano: il paese guidato da Narendra Modi ha fatto grandi passi verso l’autoritarismo e la discriminazione di parti importanti della popolazione, ma questo non ha messo New Delhi nella lista dei cattivi.
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Come reagisce l’Europa a questo abbozzo di disegno statunitense che, sottolineiamolo, è una reazione alla scelta russa di invadere un paese sovrano? Torniamo a Biden, che qualche giorno fa ha detto di Putin: “È un uomo molto, molto, molto calcolatore. Quel che mi preoccupa ora è che non ha una via d'uscita in questo momento, e sto cercando di capire cosa farà al riguardo”. Si tratta di una correzione di linea o di una battuta? Quel che l’Europa cerca di immaginare è proprio questa via di uscita.
Anche sulla posizione europea occorre fare una riflessione. A muovere i paesi più pesanti dell’UE sono le preoccupazioni relative alla potenziale crisi alimentare e a quella energetica, così come c’è l’urgenza di tornare a concentrare gli sforzi sulla crisi climatica, ma non tutte le europe sono uguali - su questo circola da decenni la battuta, che in realtà Henry Kissinger non avrebbe mai pronunciato, “che numero faccio se devo chiamare l’Europa?”. L’invasione dell’Ucraina ha per certi aspetti portato più unità di intenti, alcuni membri dell’Est che in questi anni avevano resistito a qualsiasi cosa venisse da Bruxelles hanno forse inteso meglio l’importanza di far parte in una comunità più grande. Ma le differenze di attitudine nei confronti di cosa fare di fronte alla crisi restano. La Polonia e i paesi baltici hanno mostrato fin da subito la volontà di una risposta aggressiva alla Russia di Putin. Si tratta degli stessi paesi che hanno voluto (loro) l’adesione alla NATO per sentirsi protetti dagli americani. L’Ungheria gioca una partita politica tutta sua ed è riuscita a bloccare il sesto pacchetto di sanzioni contro Mosca per almeno dieci giorni - mentre scriviamo si parla di un nuovo rinvio e la Germania annuncia che interromperà unilateralmente gli acquisti di petrolio russo. I paesi scandinavi hanno come noto cambiato atteggiamento nei confronti della NATO e della loro storica neutralità. Bisogna mettersi nei loro panni: i confini, la storia, i timori per l’oggi. La scelta scandinava segnala quanto sbagliati siano i calcoli di Putin, ma al contempo fornisce al presidente russo un argomento in più.
Questi atteggiamenti diversi, generati a dire il vero dalla minacce russe, complicano la possibilità di trovare una posizione davvero chiara ed autonoma di Bruxelles. Allo stesso modo la posizione sulle sanzioni è articolata anche e molto in conseguenza dei diversi tassi di dipendenza dal gas e dal petrolio russi. La novità possibile (e sensata) sembra essere l’annuncio imminente di una centrale unica europea per l’acquisto di sistemi d’armi: spendere tante risorse per avere doppioni e sistemi che non si parlano tra loro è stupido, a prescindere da quel che si pensa dell’impazzimento delle spese militari.
In tutto questo, come ha correttamente detto Draghi a Washington, resta il tema di cosa voglia l’Ucraina, perché qualsiasi accordo deve tenere conto di cosa cerchino le parti, non le potenze straniere alleate. La posizione di Kyiv sembra essere quella di una volontà a negoziare una qualche soluzione transitoria che riporti le truppe russe fuori dai confini e consolidi la situazione precedente all’invasione senza però riconoscere formalmente l’annessione della Crimea o l’indipendenza del Donbas. È una posizione più che sensata, il problema naturalmente è farla accettare alla Russia.
Torniamo agli Stati Uniti e alla battuta di Biden che dice di non sapere cosa voglia Putin adesso che i piani originari sono andati palesemente in fumo. La posizione europea è quella per cui tutte le potenze si siedono a un tavolo e lavorano per individuare una via d’uscita e anche un modus vivendi e operandi che eviti nuove crisi. Spesso si è fatto riferimento allo spirito degli Accordi di Helsinki del 1975, che furono uno strumento per raffreddare la tensione tra i blocchi NATO e quelli del Patto di Varsavia. Sono pronti gli Stati Uniti a scegliere una strada simile? Di certo se ne discute nell’establishment di politica estera, ma le opinioni non sono tutte uguali.
Senza fare una rassegna, segnaliamo quanto Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations scrive su Foreign Affairs: “Nel breve termine è altamente improbabile che il successo occidentale comporti un trattato di pace, una vera fine del conflitto o un cambio di regime in Russia (…) per ora il successo potrebbe consistere in una cessazione delle ostilità, con la Russia che non possiede più territorio di quello che deteneva prima della recente invasione e che continua ad astenersi dall'uso di armi di distruzione di massa”. Sul New York Times, un’altra firma dell’establishment della politica estera, l’editorialista Thomas Friedman, ha chiesto per due settimane di seguito a Biden di smorzare i toni (dopo le parole di Austin a Kiev) per poi scrivere: “Dobbiamo attenerci il più possibile al nostro obiettivo originario, limitato e chiaramente definito, di aiutare l'Ucraina a espellere il più possibile le forze russe o di negoziare il loro ritiro quando i leader ucraini riterranno che sia il momento giusto. Ma abbiamo a che fare con elementi incredibilmente instabili, in particolare con un Putin politicamente ferito. Vantarsi di uccidere i suoi generali e affondare le sue navi, o innamorarsi dell'Ucraina in forme che ci coinvolgeranno per sempre, è il massimo della follia”.
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L’idea che non si debba far diventare la guerra ucraina la base per la costruzione di un nuovo ordine mondiale viene quindi dibattuta da molti non lontani dalla Casa Bianca e non nemici di Joe Biden anche negli Stati Uniti. Chi, come e cosa prevarrà è prematuro dirlo. La retorica aggressiva è inevitabile sia da parte dell’aggressore che da quella dell’aggredito, ma se si cerca una via di uscita occorre lavorare all’avvio di un processo che porti a una vittoria che non sia totale come lo furono quelle nella Prima e Seconda guerra mondiale, le più devastanti e gravide di conseguenze. Sul sito della Rivista de Il Mulino, lo storico Guido Formigoni scrive: “Non dovrebbe essere impossibile immaginare un’azione convergente per premere sui contendenti (necessariamente soprattutto sull’aggressore russo) per costruire un processo di conclusione delle ostilità e recuperare un livello di convivenza minimale per tutti gli attori in gioco. In questo compromesso, magari criticabile e senz’altro contingente, ci potranno essere forme diverse di soddisfazione di ciascuno. Senza sconfitte né vittorie totali. Occorre uscire definitivamente dall’ombra lunga dell’età primo-novecentesca della catastrofe”. Difficile non essere d’accordo.
Immagine in anteprima: Gage Skidmore from Surprise, AZ, United States of America, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons