Chi e come può fermare la furia autoritaria di Trump-Musk
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Dopo meno di un mese dall’inizio della sua seconda presidenza, Donald Trump sta scardinando completamente la burocrazia federale e i sistemi di pesi e contrappesi che limitano il potere dell’esecutivo. In tre settimane ha graziato tutti i golpisti del 6 gennaio, licenziato sia procuratori che ufficiali Fbi che avevano indagato sui golpisti, richiesto i nomi di tutti i dipendenti Fbi che hanno svolto indagini – a qualsiasi livello – sui fatti del 6 gennaio, cancellato i fondi a importanti agenzie governative come il Consumer Financial Protection Bureau (CFPB), che ha il compito di vigilare sui servizi finanziari offerti a vario titolo ai consumatori, e USAID, agenzia che si occupa principalmente di aiuti umanitari all’estero.
Ha poi congelato milioni di dollari in fondi già allocati dal Congresso ad agenzie federali, in chiara ed evidente incostituzionalità in quanto secondo l’Articolo I, sezione 8 del testo costituzionale lo stanziamento di fondi è compito del Congresso. Ha inoltre ordinato a gran parte dei dipendenti pubblici di dimettersi in cambio di otto mensilità, dato accesso a Elon Musk, che non è un membro del governo e la cui nomina non è quindi passata al vaglio del Senato, ai sistemi di paghe del Tesoro, disobbedito a molteplici ordini arrivati dalle corti federali di sbloccare fondi precedentemente bloccati, ostruito la ricerca accademica, vietato alle persone trans di prendere parte ad attività sportive con persone di sesso femminile e cercando di smantellare il Dipartimento dell’Istruzione, che si occupa dei fondi federali per borse di studio, supporto a studenti con disabilità e aiuto contro le discriminazioni. Nessuna di queste norme è stata votata al Congresso, e tutto questo è stato attuato mediante ordini esecutivi presidenziali.
Se può aver stupito la velocità con cui Trump ha agito nel tentativo di avocare a sé la maggior parte dei poteri, non stupiscono i risultati: quello che ha fatto il presidente è ampiamente preventivato sia all’interno di Project 2025, il testo politico scritto dal think-tank di estrema destra Heritage Foundation, che trattava l’espansione del potere esecutivo, sia in alcuni scritti filosofici molto in voga tra i miliardari di destra della Silicon Valley. Uno dei filosofi più apprezzati da Peter Thiel, fondatore di PayPal e considerato il creatore della figura politica del vicepresidente Vance, è infatti Curtis Yarvin, che in un suo scritto ha parlato di una trasformazione radicale ed efficiente del potere esecutivo, la cui figura principale avrebbe dovuto assumere le forme di un amministratore delegato. L’idea alla base di questa filosofia è avere un potere esecutivo decisionista, senza contrappesi o intromissioni di contropoteri, come le corti o il Congresso, che invece la Costituzione garantisce.
Nel comprendere il funzionamento di questo attacco autoritario al sistema di governo statunitense è importante concentrarsi non tanto sulle singole azioni, che sono molteplici e di cui è difficile tenere traccia, ma sul processo entro cui queste azioni avvengono: una branca del potere, l’esecutivo, si sta spingendo apertamente oltre i limiti della sua autorità, con la connivenza di un Congresso controllato in entrambe le Camere dai repubblicani, e disattendendo in tutto o in parte le decisioni delle corti. Bisogna altresì tenere presente che le democrazie crollano non tanto per la presenza di soggetti anti-democratici quanto per l’incapacità di quelle élite, che dovrebbero difendere lo Stato di diritto, di opporsi a queste persone.
Le Corti, e il potere giudiziario nel suo insieme, sono state fondamentali durante queste settimane, nel loro tentativo di rallentare gli effetti degli ordini esecutivi. Più di quaranta cause sono state intentate da procuratori o sindacati, tutte molto rapidamente. Questo perché le Corti non hanno sottovalutato le critiche all’impianto costituzionale che Trump muoveva in campagna elettorale, quando parlava espressamente di riformare la giustizia eliminando gli elementi sgraditi, e fin dalla sua vittoria i procuratori contrari al progetto politico del Presidente si sono organizzati per poter contestare rapidamente le mosse della Casa Bianca.
Per fare un esempio concreto, Trump aveva affermato più volte che avrebbe voluto riconsiderare lo Ius soli, garantito dal quattordicesimo emendamento alla Costituzione, per i figli dei migranti irregolari, e i procuratori avevano già preparato una causa, in modo da poterla sottoporre subito dopo la promulgazione dell’ordine esecutivo. In questo modo, è stato possibile rendere immediatamente nulla una palese violazione costituzionale e si è potuto combattere uno svantaggio strutturale che il potere giudiziario deve affrontare in questo scontro: un potere di controllo, lento per definizione, deve affrontare il sistema di regolamentazione più veloce del paese, l’ordine esecutivo.
Il quadro entro cui ci si sta muovendo oggi è questo: Trump istituisce un ordine esecutivo contestato, un procuratore lo cita in una Corte e un giudice mette preventivamente in pausa la norma dall’applicazione che si riterrebbe immediata. Il primo problema di questa impostazione è che Trump sembra non avere interesse ad applicare ciò che impongono i Tribunali: non ha infatti ancora sbloccato parte dei fondi per alcune agenzie governative che aveva impropriamente congelato, nonostante l’intimazione giudiziaria. Un attacco diretto al potere giudiziario, corroborato dalle dichiarazioni del vicepresidente Vance che ha parlato di “giudici che minano il potere esecutivo”, e della portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, che ha parlato delle mosse dell’autorità giudiziaria come della “vera crisi costituzionale”.
È il tentativo di instaurare un potere autoritario, senza contrappesi: Trump dice chiaramente, con le sue azioni, che la giustizia non può bloccare la volontà dell’esecutivo regolarmente eletto. È palesemente falso, in quanto ruolo precipuo della magistratura è, in tutte le moderne democrazie, la decisione sull’utilizzo legittimo dei propri poteri da parte di legislativo ed esecutivo. Sarà poi fondamentale la posizione della Corte Suprema, alla quale presto o tardi alcuni di questi casi verranno sottoposti per definirne la costituzionalità. Un organo molto sbilanciato a favore dei repubblicani, con tre dei nove giudici nominati direttamente da Trump nel suo primo mandato, ma che, nelle parole del giudice capo John Roberts, “deve preservare la legge” e muoversi contro le minacce all’autorità giudiziaria.
La stessa Corte, però, negli ultimi anni, ha avallato rovesciamenti di sentenze storiche, come quella che ha eliminato il diritto federale all’aborto, e ampliato enormemente le garanzie del presidente, nella contestatissima sentenza Trump v. United States. Dopo quella decisione, il presidente ha ottenuto l’immunità per ogni azione pubblica nell’esercizio delle funzioni, comprese le comunicazioni con ufficiali eletti. Le tre giudici, che hanno votato contro questa estensione delle prerogative costituzionali, hanno affermato che il Presidente diventerebbe un “re sopra la legge”; questo, tra l’altro, andrebbe contro la stessa idea dei padri fondatori di limitare il potere esecutivo che non doveva in nessun modo assumere forme dittatoriali o che si avvicinassero a quelle monarchiche.
Se il potere giudiziario cerca di affermare la sua indipendenza dalla posizione dell’esecutivo, al contrario il Congresso, controllato dai repubblicani, è totalmente schiacciato sulle posizioni dell’amministrazione. In tre settimane, Trump ha avocato a sé la decisione sulla revoca o meno di fondi già allocati dalle Camere, in chiara contrapposizione al testo costituzionale, e il Congresso non ha reagito. Per di più, tutte le nomine del governo Trump, che devono passare dalla conferma del Senato, sono passate senza particolare opposizione, anche le più controverse, come quella di Robert Kennedy alla Salute e di Tulsi Gabbard a capo dell’Intelligence. I repubblicani al Congresso stanno abdicando alla funzione di vigilanza dell’esecutivo, in piena sintonia con la Casa Bianca che per le Camere vorrebbe un ruolo di suggerimento dell’azione politica che non intralci i piani dell’amministrazione. Sono lontani i tempi in cui l’allora leader della maggioranza GOP al Senato, Mitch McConnell, definiva illegale l’uso degli ordini esecutivi di Barack Obama in quanto squalificavano l’attività legislativa delle camere.
Lo stesso McConnell, fino all’inizio di quest’anno leader repubblicano, ha modificato di netto l’approccio verso la presidenza. Il politico del Kentucky è l’unico senatore che ha alzato la voce contro le nomine di Kennedy e Gabbard, votando contro, e ha quasi fatto saltare la nomina di Hegseth alla Difesa, costringendo il vicepresidente Vance a votare per rompere la parità. È difficile definire McConnell parte dell’opposizione, anche perché da leader ha più volte potuto fermare Trump e ha scelto di non farlo, ma è interessante che proprio da lui vengano i voti più contrari alle volontà dell’amministrazione.
I democratici, invece, non hanno molte possibilità di far sentire la propria voce al Congresso: deputati e senatori parlano apertamente di “crisi costituzionale”, ma non c’è grande possibilità di bloccare i lavori, anche perché gli ordini esecutivi non passano dalle Camere. Ci sono stati alcuni tentativi di rallentare i lavori, come la protesta notturna contro la nomina di Russell Vought alla gestione del budget, ma non hanno avuto un riscontro mediatico importante. Proprio per questo i parlamentari si sono uniti alle proteste di piazza contro l’amministrazione dei giorni scorsi, nel tentativo di trovare un luogo in cui avere risalto e attaccare il Presidente.
Se, appena insediatosi, Trump non aveva subito le enormi manifestazioni che avvennero nel 2017, dopo i suoi ordini esecutivi le cose hanno iniziato a cambiare, testimoniando un’opposizione viva. Le prime proteste sono arrivate davanti al Dipartimento del Tesoro, che ha impropriamente garantito a Musk gli accessi al sistema di paghe federale, e poi sono seguite quelle davanti alle agenzie federali che venivano svuotate, coordinate dai sindacati; inoltre, altre manifestazioni hanno riguardato l’ordine esecutivo che proibisce gli sport femminili alle persone trans.
Il primo momento in cui i parlamentari dem hanno fatto sentire la propria voce è stato durante la protesta per la chiusura – che dovrebbe costituzionalmente passare dal Congresso, e non dall’esecutivo – di USAID, l’agenzia che si occupa di fondi per lo sviluppo. In dodici deputati si sono presentati, organizzando una conferenza stampa improvvisata in cui si è parlato di “presa illegale del potere”. È stato il primo tentativo di chiara reazione di un partito che è sembrato fagocitato dagli eventi, e con nessuna possibilità di incidere a livello mediatico.
I media, infatti, sono stati completamente occupati da Donald Trump e dagli ordini esecutivi, tralasciando quasi del tutto le proteste e i tentativi dell’opposizione di riorganizzare il discorso. Per di più, la scelta di narrazione è stata molto spesso orientata al cosiddetto “bothsidism”, dare lo stesso tempo alle opinioni di entrambe le parti, senza rimarcare che una delle due sta compiutamente tentando di distruggere lo Stato di diritto. Le azioni drastiche di un Presidente, spesso al di fuori del recinto di costituzionalità, sono state raccontate come normali e, quando volevano utilizzare espressioni forti, come “colpo di stato” o “crisi costituzionale”, spesso i grandi media si sono trincerati dietro opinioni di terzi, senza assumersi responsabilità editoriale.
Questo anche perché la politica dell’amministrazione verso i media è sempre più lesiva delle loro libertà. Già nel 2019 legali vicini a Trump avevano tentato di intimorire la CNN, affermando che la rete stava mettendo in atto una vendetta contro Trump spacciandola per giornalismo etico. Negli ultimi mesi, le cause contro i giornali si sono mltiplicate, e le società editoriali decidono sempre più frequentemente di patteggiare, evitando lo scontro giudiziario.
Ancora più grave è quello che è accaduto all’agenzia di stampa di fama mondiale Associated Press che è stata bandita dallo Studio Ovale perché aveva deciso di non cambiare il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America, come imposto da Trump con un ordine esecutivo. La senior vicepresident di AP, Julie Pace, ha parlato di “comportamento inaccettabile dell’amministrazione in punizione di un giornalismo indipendente, in palese violazione del primo emendamento”. Questa vicenda è stata trattata in maniera completamente opposta a un’altra simile avvenuta durante il mandato di Barack Obama, quando il Presidente negò a Fox News la possibilità di intervistare Kenneth Feinberg, che aveva appena ottenuto un incarico al Tesoro. In quel caso, le altre reti decisero di non intervistare Feinberg in solidarietà all’esclusione di Fox: è una differenza sostanziale con quello che sta avvenendo oggi, dato che tutti i network stanno continuando il loro lavoro senza protestare in solidarietà con l’esclusione dei giornalisti di AP. La libertà di stampa negli Stati Uniti è un diritto assoluto, garantito costituzionalmente e con pochissime restrizioni legali: anche la riconsiderazione di queste prerogative è parte dei piani dell’amministrazione.
Analizzando le mosse dell’amministrazione e le reazioni dell’opposizione, è semplice ridurre chi ha votato Trump a sostenitore di un cambiamento di tipo autocratico, e chi invece non lo ha votato come garante dell’ordine costituzionale. Trump ha in realtà intercettato il voto di categorie eterogenee, e anche dopo i primi ordini esecutivi il suo tasso di approvazione si mantiene al di sopra del 50%. Questo perché molti cittadini chiedevano primariamente un cambio di passo sull’immigrazione, e Trump ha agito in modo muscolare, con deportazioni anche molto sceniche. Non è un caso che anche nel Regno Unito, il primo ministro laburista Keir Starmer, incalzato a destra dal Reform Party di Farage, stia adottando la stessa tattica del leader americano nel comunicare la lotta all’immigrazione: rimpatri forzati e veloci, senza tentennamenti. I cittadini che danno fiducia a Trump lo fanno perché vedono in lui un leader energico, focalizzato a rendere le promesse elettorali realtà, pronto a fare solo e soltanto gli interessi americani, e non ritengono la democrazia in pericolo.
La durezza di Trump si è notata nel modo in cui ha affrontato le questioni di politica estera in queste prime settimane: ha agito in modo minaccioso, rimarcando che il suo unico interesse era quello di difendere gli interessi americani. Ha minacciato dazi del 25% a Canada e Messico, mandando in crisi le rispettive amministrazioni, e li ha revocati solo dopo aver ricevuto da entrambi i Paesi poliziotti per monitorare i confini, ha chiesto a Egitto e Giordania di occuparsi di tutti i profughi palestinesi e ha rimarcato che Gaza dovrebbe diventare una meta turistica di lusso, su cui i palestinesi non hanno alcun diritto, sta minacciando dazi nei confronti dell’Unione Europea per pareggiare la bilancia commerciale e ha aperto a un negoziato diretto col presidente russo Vladimir Putin, i cui rapporti con Washington erano bloccati da quando il 24 febbraio del 2022 aveva deciso di invadere l’Ucraina, scavalcando il leader ucraino Zelensky, che gli Stati Uniti finora avevano supportato nella resistenza all’invasione.
Posizionamenti forti, che scavalcano gli alleati, trattati non tanto come amici quanto come partner commerciali che non pagano abbastanza, e rischiano di scardinare l’ordine legale internazionale. Proprio i dazi, però, potrebbero rivelarsi una leva per l’opposizione: nel breve termine negli Stati Uniti si alzeranno i prezzi, e Trump era stato eletto proprio con la promessa che avrebbe riportato il paese a un’era pre-inflazione, in cui la classe media avrebbe goduto di ampia capacità di spesa. Dopo le prime mosse economiche, invece, l’inflazione si è rialzata e questo rischia di porre alcune crepe nel supporto dei cittadini a Trump.
Dopo queste prime settimane i piani del Presidente sono sempre più chiari: si rifanno espressamente a una visione politica che odia la democrazia e vorrebbe sostituirla con un governo decisionista, che può agire nel suo mandato come meglio crede, senza burocrazia e contrappesi. D’altronde, è il traguardo di quarant’anni di attacchi ai poteri federali: Reagan parlava dei parlamentari come di inetti, Trump è stato eletto nel primo mandato al grido di bonificare la palude di Washington, e ha fatto campagna nel secondo dicendo che nel primo mandato era stato ostacolato dai burocrati, che hanno rallentato la sua azione di governo.
Le mosse di chi vuole cercare di bloccare lo sbilanciamento autoritario sono chiare: i parlamentari, che hanno poco potere all’interno del Congresso, utilizzano la loro visibilità mediatica per partecipare alle proteste dei funzionari, i sindacati contestano gli ordini esecutivi che riguardano i dipendenti federali, citano in giudizio l’amministrazione e organizzano manifestazioni sceniche davanti ai palazzi sedi delle agenzie che stanno venendo chiuse, mentre il potere giudiziario blocca temporaneamente gli ordini esecutivi. Si tratta di un’azione coordinata che può dare i suoi frutti, anche se Trump ha dimostrato di continuare sulla sua strada nonostante le decisioni delle Corti: questo perché non c’è molto che il potere giudiziario possa fare oltre a comminare multe e sanzioni e richiedere il rispetto delle sentenze.
A farle valere, però, dovrebbe essere il Dipartimento di Giustizia (DOJ), al cui capo è stata posta Pam Bondi, persona di fiducia trumpiana che vuole applicare i piani del Presidente. Negli scorsi giorni, una procuratrice di New York si è rifiutata di archiviare le accuse contro il sindaco della città Eric Adams, che avrebbe accettato regali e fondi illegali per la campagna elettorale: il ritiro dell’imputazione sarebbe dovuto avvenire, secondo un accordo con il DOJ stesso, in cambio di un aiuto del sindaco a contrastare l’immigrazione illegale. Dimettendosi, la procuratrice ha inviato una lettera a Bondi in cui spiegava perché non poteva compiere quell’azione: una posizione che, secondo l’opinionista Robert Hubbell, “è il potere di una singola voce che dimostra coraggio e forza morale”.
Nonostante questo, l’opposizione mantiene una massima pressione nel tentativo di aprire gli occhi ai cittadini su quanto sta avvenendo: non le mosse legittime di una presidenza, ma un rovesciamento del potere in senso autoritario che ha bisogno dell’attenzione del maggior numero possibile di persone per essere sventato.
Immagine in anteprima via Dig Watch
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