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Aumento di disoccupazione e inflazione: cosa rischiamo e come evitare la stagflazione

24 Marzo 2022 9 min lettura

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Aumento di disoccupazione e inflazione: cosa rischiamo e come evitare la stagflazione

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Dopo la crisi provocata dalla diffusione del virus SARS-CoV-2 nel 2020, che ha costretto gli Stati europei a misure di contenimento massicce con ricadute sull’economia, il 2021 è stato l’anno della ripresa: in Italia, ad esempio, dopo un calo del PIL del 9% nel 2020, il rimbalzo è stato del 6.6% nel 2021. Tuttavia l’ondata di Omicron, la nuova variante rilevata in Sud Africa, e ora l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin rischiano di mettere in difficoltà le economie occidentali. 

Lo scenario odierno richiama ancora alla mente gli anni ‘70, ma per un altro motivo: la stagflazione. Una prospettiva anticipata ad esempio dall'economista Nouriel Roubini lo scorso luglio in un articolo su Project Syndicate

Breve storia della stagflazione

Che cos’è la stagflazione? Si tratta di un termine composto da stagnazione, ovvero un fase di elevata disoccupazione e recessione economica, e inflazione, ovvero l’aumento dei prezzi medi. Il danno per i cittadini rischia quindi di essere doppio: da una parte la depressione economica potrebbe portare a un aumento della disoccupazione, dall’altra l’aumento dei prezzi potrebbe diminuire il potere d’acquisto. Un fenomeno che non è di certo nuovo, ma di sicuro complesso da maneggiare. 

Negli anni ‘50 e ‘60 infatti si pensava che l’elevata disoccupazione e l’elevata inflazione fossero fenomeni non sovrapponibili. Nel 1958 l’economista Alban William Phillips studiò i dati del Regno Unito e osservò che nel corso di quasi 100 anni il tasso di disoccupazione e quello di inflazione mostravano una relazione inversa, suffragata poi dagli studi empirici del tempo svolti in vari paesi.

Robert Solow, che inserì queste osservazioni empiriche all’interno della teoria, dichiarò che la società poteva permettersi un tasso di inflazione basso o nullo, a patto di pagarne il prezzo sul lato occupazione. Una relazione che va appunto sotto il nome di Curva di Phillips.

Come correttamente predetto dagli economisti monetaristi degli anni ’60, la curva di Phillips e quindi il legame inverso tra inflazione e disoccupazione venne meno negli anni ‘70. 

Nel giorno di Kippur del 1973, infatti, Siria ed Egitto decisero di attaccare lo Stato di Israele, storico alleato delle democrazie occidentali e in particolare degli Stati Uniti d’America. Come ritorsione i paesi del cartello dell’OPEC, che rifornivano gli Stati occidentali del greggio, imposero un embargo nei confronti degli USA. 

Il prezzo del petrolio aumentò da 3 dollari al barile a 12 e, anche quando l’embargo finì, nel 1974, restò più alto rispetto a prima. La situazione, ovviamente, era già precaria negli Stati Uniti: i programmi sociali e il costo della guerra in Vietnam avevano danneggiato l’economia, in stagnazione, e l’indice dei prezzi al consumo era salito dell’11% tra il 1968 e il 1970. L’allora presidente Richard Nixon cercò di mettere una toppa, svalutando il dollaro e con altri interventi mirati che gli consentirono di vincere le elezioni nel 1972, ma venne travolto l’anno dopo proprio dalla crisi energetica. 

Anche in Europa questa crisi si fece sentire. Fu in quegli anni che il leader del Partito Comunista italiano Enrico Berlinguer lanciò la linea dell’austerità, mentre venivano istituite le domeniche a piedi, per diminuire il consumo di petrolio

Dal punto di vista politico fu un momento cruciale: nel 1976, in una Londra attanagliata dalla recessione, il leader laburista Party Callaghan affermò che per anni l’intervento dello Stato aveva garantito la stabilità e la prosperità anche in tempi di recessione, ma che questa opzione non era più sul tavolo. Qualche anno più tardi a vincere le elezioni è Margaret Thatcher, che impone al paese la svolta neoliberista. Più o meno nello stesso periodo negli USA diventa presidente Ronald Reagan che, grazie alle politiche monetarie del presidente della Federal Reserve Paul Volcker, riporta la situazione inflazionistica sotto controllo.

La situazione presente

La situazione oggi appare simile. Abbiamo un pesante contraccolpo sul lato dell’offerta, dovuto sia all’interruzione della catena di fornitura durante la pandemia e alla scarsità di materia prime, mentre tra le conseguenze dell’invasione russa dell’Ucraina c’è l’impatto sul già delicato quadro dell’inflazione. Ancora prima dell’invasione, infatti, l’HIPC in Europa, l’indice armonizzato dei prezzi al consumo utilizzato dalla Banca Centrale Europea per avere il quadro della stabilità dei prezzi, ha toccato il 5.11% a gennaio 2022. I prezzi alla produzione hanno registrato invece un aumento mensile dell’1.2% già a novembre 2021, con un incremento rispetto all’anno passato del 22%.  

Già nei mesi invernali il costo dell’energia è aumentato drasticamente, tanto che il Governo Draghi aveva proposto di rinviare l’introduzione della riforma IRPEF per le fasce più abbienti per finanziare un fondo di solidarietà. Dietro a questi aumenti, oltre al sistema di licenze per le emissioni dell’Unione Europea, hanno giocato e giocano un ruolo fondamentale le tensioni geopolitiche. La Russia di Putin ha infatti diversificato le sue esportazioni, puntando sempre di più verso est. 

In questi giorni abbiamo visto un aumento deciso del prezzo del greggio, arrivato a costare 130$ al barile, e del gas naturale, che ha subito un aumento invece del 62%. Una situazione resa ancora più difficile, come fa notare su Bloomberg Javier Blas, dal costo dei prodotti raffinati del petrolio come il diesel, necessario per i trasporti.

Anche gli strascichi della pandemia si fanno sentire. In questi giorni in particolare la Cina ha ordinato il lockdown per la provincia di Shenzhen, che rallenterà la fornitura di materie prime vista la chiusura delle fabbriche. Il paese, infatti, non ha abbandonato la sua politica di Zero Covid, che consiste nell’intervenire drasticamente per ridurre al minimo i casi con misure stringenti.

Dalla Cina dipendono tuttavia anche gli Stati europei. In questi anni infatti il paese ha sì smantellato la sua industria tech, ma solamente per la parte relativa ai servizi. Ha invece puntato sulle componenti hardware, come per esempio i semiconduttori. Gli effetti sono già visibili: a essere penalizzate saranno aziende del calibro di Volkswagen

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Se da un lato pare scontato trovare dei parallelismi tra la situazione odierna e gli anni ‘70, dall’altra proprio l’esperienza pregressa, insieme al mutato contesto, allontana una prospettiva simile. Che cosa è cambiato, dunque? 

In primo luogo, il minor potere contrattuale dei lavoratori. Una delle incognite, fanno notare Boeri e Perotti su La Repubblica, è la spirale salari/lavoro. In un periodo di elevata inflazione sospinta da motivi di offerta, i lavoratori, vedendo eroso il loro potere d’acquisto, potrebbero pretendere aumenti salariali. Questo andrebbe ad aggiungersi ai costi delle aziende che, naturalmente, lo scaricherebbero sui prezzi dei beni prodotti, innescando quindi un fenomeno a spirale. 

Una prospettiva che però è improbabile in Europa, dove il potere contrattuale dei lavoratori è drasticamente calato dagli anni ‘70, quando sì innescò questo meccanismo. La forza dei sindacati non è più tale da poter pretendere aumenti e anche i meccanismi di indicizzazione non sono paragonabili: si basano infatti sull’indice IPAC che non tiene conto, paradossalmente, del costo dell’energia. Non a caso anche economisti su posizioni diametralmente opposte, come Joe Stiglitz e Larry Lindsey, suggeriscono un intervento fiscale, consapevoli per l’appunto che le rivendicazioni dei lavoratori non saranno ascoltate: se Joe Stiglitz chiede interventi mirati come sconto alle tasse per i ceti meno abbienti, Larry Lindsey propone addirittura un nuovo pacchetto di aiuti.  

Oltre al potere contrattuale dei lavoratori, anche le banche centrali sono diverse. Negli anni di Nixon erano strettamente collegate al potere esecutivo, e la loro politica monetaria accomodava il potere politico di turno come successe, appunto, negli Stati Uniti. La banca centrale acquistava i titoli di debito per finanziare lo Stato e aumentava la base monetaria, ovvero la moneta circolante e i depositi finanziari. Oggi tuttavia le banche centrali sono più indipendenti di quanto non fossero un tempo. Il loro obiettivo non dipende più dalla politica in senso stretto, ma da parametri puramente tecnici: la politica monetaria persegue la stabilità dei prezzi.

Infine, se al tempo ci trovavamo all’inizio di un’ideologia - il neoliberismo - che subentrava a un’economia dominata dagli Stati, oggi la situazione sembra essersi ribaltata. Il neoliberismo è ormai criticato anche da esponenti di punta dell’accademia. Il mondo va verso un ritorno della protezione, come ha scritto Paolo Gerbaudo nel suo The great recoil. Se la stagflazione degli anni ‘70 fu esacerbata dall’intervento statale dell’economia, oggi a contribuire è anche la maggior interconnessione tra le economie del pianeta. 

La differenza, rispetto ad allora, implica un cambio radicale delle politiche per contrastare l’inflazione. La massima “l’inflazione è sempre un fenomeno monetario” di Friedman non appare adeguata alla situazione attuale: siamo consapevoli che questa inflazione non è sospinta, come ripetuto precedentemente, dal lato della domanda quanto da questioni di offerta. 

In presenza di inflazione sul lato della domanda, la soluzione da manuale sarebbe allora un rialzo dei tassi da parte della banca centrale. Riducendo la quantità di moneta in circolazione, si riduce la domanda aggregata permettendo all’economia di tornare in equilibrio. Non solo: proprio attraverso la loro politica, la banca centrale può influenzare le aspettative di inflazione e un atteggiamento attendista potrebbe addirittura peggiorare la situazione.

Ma, appunto, siamo in una situazione complessa. La Banca Centrale Europea, attraverso le parole della presidente Lagarde, ha sposato una linea di compromesso tra i falchi dell’inflazione e il non fare niente, condizionando la fine del Quantitative Easing, il famoso bazooka di Draghi, ai dati del terzo trimestre e aprendo, a parole, a una politica monetaria di tipo restrittivo. Non è da escludere, in Europa, un aumento dei tassi nel corso dell’anno, ma prestando attenzione alla delicata situazione sul fronte della ripresa. 

Discorso diverso per gli Stati Uniti d’America. Qualche giorno fa la FED ha deciso un aumento dei tassi di fronte a un’inflazione ormai fuori controllo. A trainarla, secondo alcuni esperti, sarebbe stato il gigantesco piano di Biden e l’aumento della domanda per beni durevoli rispetto ai servizi, ma anche alla differenza tra Europa e Stati Uniti per quel che riguarda gli stabilizzatori automatici e la risposta politica alla crisi. Tra coloro che si sono dichiarati d’accordo con una stretta monetaria si fa infatti notare che questa deve comunque tener conto degli effetti sull’occupazione

Si corre infatti il rischio che la cura funzioni, ma danneggiando il paziente. Come hanno illustrato Alessandro Guerriero su Huffington Post e Alessandro Bonetti sul sito della Fondazione Feltrinelli, vi è un acceso dibattito sulle misure non convenzionali, ovvero quelle al di fuori del rialzo dei tassi. 

Come ricordava nel dicembre scorso l’economista statunitense Isabella Weber, vi è uno strumento potente per affrontare l’inflazione: il controllo dei prezzi. Sul Guardian Weber ha fatto notare che già a partire dal 2020 i profitti negli Stati Uniti hanno raggiunto un nuovo record: una politica di controllo dei prezzi mirata andrebbe quindi a intervenire su una situazione del genere. Controllando il prezzo di certi beni, i consumatori sarebbero meno colpiti dai rincari e, a patto di mantenere il prezzo sopra i costi marginali, avrebbe un impatto minimo sulle aziende. 

Sembra che anche la Commissione Europea stia valutando questa ipotesi, come dimostrano le parole della presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, assieme alla tassazione degli extra profitti da parte delle aziende energetiche. 

Non è invece auspicabile, per reagire a questa crisi, un approccio su scala individuale. Si è parlato per esempio in questi giorni di un abbassamento della temperatura nelle case o, come ha proposto Federico Fubini, di puntare persino sull’ora legale. 

Si tratta non solo di proposte dal dubbio impatto, persino dannose: in presenza di problemi sistemici, senza interventi da parte dello Stato, azioni come l’abbassamento della temperatura diventerebbero una necessità per i più poveri, costretti a far fronte in un modo o nell’altro ai rincari dei prezzi. 

Questi interventi però intervengono solo sul breve periodo, mentre è necessaria anche una strategia di ampio respiro che riparta, come ha scritto Francesco Saraceno su Domani, dalla politica industriale. In particolare agendo sia sul lato energetico, puntando sulle fonti di energia in particolare rinnovabili, sia attraverso un ritorno della produzione in loco, sempre più subordinata in questi anni di globalizzazione. Non solo politiche di domanda, quindi, ma anche sul lato dell’offerta.

Immagine in anteprima via pixabay.com

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