Lo scandalo dello spreco di cibo. E come possiamo fermarlo
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Ogni persona spreca in media 74 chili di cibo ogni anno, a livello globale. Circa un terzo degli alimenti che avremmo a disposizione non viene mai consumato: il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) stima che il 17% della produzione alimentare globale viene sprecata dai consumatori, e un altro 17% viene scartato lungo la filiera. In Italia, lo spreco alimentare vale 15 miliardi di euro all'anno, circa un punto di PIL. Senza considerare i costi ecologici correlati.
Parallelamente ci sono ancora 733 milioni di persone che soffrono la fame, e la situazione va peggiorando con il sovrapporsi di crisi globali come le guerre e gli effetti del cambiamento climatico. Non solo: nel mondo stiamo assistendo a un costante aumento del fabbisogno di cibo di una popolazione in continua crescita. Secondo le Nazioni Unite, alla fine del secolo sfioreremo la soglia degli 11 miliardi di persone. Come garantire cibo per tutti?
Un primo passo sarebbe quello di ridurre la quantità di cibo che finisce nella spazzatura. Oltre allo spreco alimentare (food waste), va considerata anche la cosiddetta “perdita alimentare” (food lost): quest’ultima si verifica prima che l’alimento raggiunga il consumatore - a causa di inefficienze nella produzione e trasformazione del cibo –, mentre lo spreco è responsabilità del consumatore stesso.
A rimetterci è soprattutto l’ambiente: l’UNEP stima che tra l’8% e il 10% delle emissioni globali di gas serra siano associate al cibo prodotto e non consumato. L’agricoltura impiega più acqua di qualsiasi altra attività umana, per non parlare della perdita di biodiversità causata dalle coltivazioni. Entro il 2050, sfamare il pianeta comporterà di “distruggere la maggior parte delle foreste, eliminare migliaia di nuove specie, e rilasciare sufficienti gas serra da superare la soglia di sicurezza degli 1,5 °C rispetto alle temperature medie globali preindustriali”, come si legge nel rapporto Creating a Sustainable Food Future della Banca Mondiale e dell’Onu. E tutto questo per non nutrire nessuno, se poi il cibo viene buttato.
Di cosa parliamo in questo articolo:
La responsabilità dello spreco non è (solo) dei consumatori
Ridurre lo spreco alimentare è un obiettivo che mette d’accordo tutti. La domanda allora è: come raggiungerlo? Spesso siamo esposti alla retorica della responsabilità individuale, che ci dice che basterebbe fare un po' più attenzione a quanto cibo compriamo e a come lo usiamo. Certamente ognuno di noi deve fare la sua parte, ma davvero per risolvere un problema così grande sarebbe sufficiente la buona volontà dei singoli?
A incidere sugli sprechi a livello globale ci sono anche fattori strutturali: gli agricoltori devono rispettare requisiti molto restrittivi per vendere i loro prodotti, e devono assicurare di possedere una certa quantità pronta per la vendita – anche se poi non è detto che quella quantità venga effettivamente acquistata. Capita ad esempio che un grande supermercato richieda a un’azienda agricola di avere a disposizione un certo numero di cespi di lattuga, ma se le temperature si abbassano potrebbe finire per comprarne solo la metà, lasciando invenduta l’eccedenza.
“I rivenditori sono molto bravi a spingere gli sprechi a monte e a valle”, scrive Julian Baggini sul Guardian. “Non solo i fornitori si ritrovano spesso con una produzione in eccesso, ma i consumatori sono incoraggiati a comprare più di quanto possano mangiare”. Questo avviene anche grazie alle offerte e ai prezzi più bassi per i formati più grandi: le promozioni “prendi tre, paghi due” sono tra le più famigerate, finendo per contribuire indirettamente allo spreco alimentare.
Le responsabilità dei rivenditori emergono anche quando si parla della scarsa qualità dei prodotti: il 42% degli italiani afferma che il loro spreco è legato a prodotti che si deteriorano in fretta, mentre il 37% sostiene di gettare cibo venduto già deteriorato. Lo rivela il Rapporto internazionale Waste Watcher 2024, che contiene dati che raccontano la situazione sul nostro paese. Nelle case degli italiani, ogni settimana vengono gettati quasi 700 grammi di cibo a testa, quasi il 50% in più rispetto all’anno scorso. Il Sud e il Centro sono le aree dove l’abitudine allo spreco è più diffusa, con rispettivamente 747 e 744 grammi di cibo buttato a settimana, contro i 607 grammi al nord. A sprecare di più sono soprattutto le famiglie senza figli e i Comuni medio-grandi. Le cause sono molteplici: più di un terzo (37%) afferma di dimenticare gli alimenti in frigorifero e nella dispensa, il 32% compra troppo per paura di non avere abbastanza cibo in casa, e un altro 32%, si lascia tentare dalle offerte della grande distribuzione.
La lotta contro gli sprechi fatica a decollare
Uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite è “dimezzare lo spreco alimentare a livello di consumo”, insieme a quello di “ridurre le perdite alimentari lungo le catene di produzione e di approvvigionamento”. Anche il World Resounces Institute parla della necessità di un cambio nella filiera, oltre che nel comportamento dei consumatori: tra le dieci azioni per contrastare lo spreco, due delle più importanti sono lo sviluppo di strategie nazionali ad hoc e la creazione di partenariati pubblico-privati. Negli ultimi anni, la lotta allo spreco alimentare è diventato una priorità per molti governi, ma nella pratica sono pochi quelli che hanno trovato misure efficaci per fare la differenza.
Il primo ostacolo è la difficoltà nel reperire dati: nella maggior parte dei paesi non si sa con esattezza nemmeno quanto cibo venga perso. Eppure “non si può gestire quello che non si può misurare”, come recita una vecchia massima. Per agire nel concreto servono obiettivi chiari, azioni efficaci, tempistiche definite e strumenti per misurare i progressi.
Tra gli Stati più virtuosi c’è il Canada, che dal 2021 si sta impegnando nella prevenzione allo spreco alimentare, con l’implementazione di una strategia nazionale che prevede finanziamenti per le innovazioni, e incentivi fiscali per aumentare le donazioni di cibo in eccedenza. Allo stesso tempo, molte organizzazioni si sono attivate per collaborare con produttori e distributori di cibo per limitare la sovrapproduzione, e con i consumatori per promuovere iniziative di educazione alimentare.
Ancora prima del Canada, la Danimarca è riuscita a ridurre lo spreco di cibo del 25% in soli cinque anni, tra il 2010 e il 2015. Il cambiamento è partito dal basso quando, nel 2008, è stato aperto il gruppo Facebook Stop Spild Af Mad (Stop allo spreco di cibo). Nel giro di quindici giorni, il gruppo si è trasformato in una grande campagna di sensibilizzazione, finendo per fare pressione su gruppi e istituzioni. Appena tre mesi dopo, la più grande catena danese di discount, Rema 1000, ha adottato varie misure per ridurre gli sprechi, tra cui la fine degli sconti sulle grandi quantità. In quei mesi, sugli scaffali del reparto ortofrutta sono stati piazzati cartelli con la scritta “Prendimi, sono single”, per spronare all’acquisto di singoli frutti o ortaggi. Un rivenditore ha raccontato che, da quel momento, invece di un’ottantina di banane sprecate ogni giorno, ne venivano buttate solo una decina.
Purtroppo, però, la Danimarca è rimasta un caso isolato. “Il nostro è un paese piccolo”, spiega Selina Juul, fondatrice della campagna danese ed esperta di lotta allo spreco alimentare. “Siamo come una tribù ed è molto facile finire sui giornali se si ha una buona storia, molto facile influenzare la popolazione se c'è una buona causa”.
L’approccio danese è stato quello di allearsi con le catene di supermercati della grande distribuzione organizzata: “Molte ONG ambientaliste si mobilitano contro gli attori industriali, ma è l’approccio sbagliato”, afferma Juul. “Se facciamo così, loro non vorranno lavorare con noi. Meglio dire: siamo tutti parte del problema, ma anche della soluzione”. Per ottenere dei risultati, a cambiare dev’essere anche la mentalità delle persone e la logica della sovrapproduzione, che fa sì che oggi produciamo molto più di quello che ci serve: “Se vai in un negozio cinque minuti prima dell'orario di chiusura, trovi comunque tutto sugli scaffali”, continua Juul. “A ristorante, l’incubo più grande per uno chef è che non ci sia abbastanza cibo per i clienti”. Produciamo di più per cercare di vendere di più. Finendo per sprecare di più.
I danni collaterali della riduzione dello spreco alimentare
Il rischio oggi è che la lotta contro lo spreco alimentare diventi anche una forma di greenwashing. Un esempio sono le app che nascono per recuperare il cibo che verrebbe buttato, come Too Good to Go, una piattaforma che permette a negozi, ristoranti e bar di vendere le rimanenze a fine giornata a un prezzo scontato. Ma oggi in alcuni paesi è possibile prenotare la spesa con alcuni giorni in anticipo, il che fa sì che i negozi preparino quel cibo appositamente: queste app stanno diventando semplicemente un altro canale di vendita.
La riduzione degli sprechi alimentari, insomma, è un processo lungo, che si sta rivelando pieno di dilemmi e compromessi. In particolare, c’è un elemento che sarebbe essenziale per diminuire significativamente la quantità di cibo sprecato, ma che a sua volta ha un impatto devastante sull’ambiente: gli imballaggi. La frutta si ammacca più facilmente quando non è conservata in vaschette di cartone e ricoperta da strati di pellicola trasparente, finendo così più facilmente nel cestino. Le foglie di insalata rimangono fresche e croccanti più a lungo quando sono confezionate in sacchetti di plastica ermetici e riempiti di azoto. E gli affettati si conservano per mesi quando sono messi sottovuoto, se no si seccherebbero in pochi giorni.
Idealmente, sarebbe bello andare verso un modello che implica meno sprechi e meno imballaggi, ma nella pratica una cosa sembra escludere l’altra. In ogni caso, non tutti i prodotti sono uguali: alcuni imballaggi sono puramente estetici, mentre altri aiutano davvero il processodi conservazione. Uno studio svedese ha mostrato che il formaggio ha un impatto ambientale 58 volte maggiore rispetto al suo imballaggio, mentre il ketchup ha un impatto solo due volte superiore.
Ci sono, però, realtà virtuose. A Bari, in Puglia, dal 2014 il progetto "Avanzi Popolo" cerca di mettere in contatto i luoghi del bisogno con quelli dello spreco. Anche in questo caso viene una piattaforma, però il gruppo che anima Avanzi Popolo svolgono un lavoro di raccordo e di connessione sul campo. Nel corso degli anni sono state sviluppate oltre 900 azioni di recupero, con oltre 45.000 di kg di eccedenze alimentari recuperate da imprese agroalimentari, esercizi commerciali, cooperative agricole e donate a circa 80 organizzazioni che lavorano nel contrasto alla povertà (Sportelli Caritas, associazioni, enti no profit), sempre avendo cura che il cibo possa percorrere il tragitto più corto possibile e favorendo la relazioni tra i soggetti sul territorio. A questo si accompagnano attività di sensibilizzazione e di educazione rispetto alla gestione delle eccedenze di cibo che rischiano di finire in pattumiera.
Che fare, dunque? Quali scelte sono le più efficaci? E quali tecnologie si stanno rivelando più promettenti per abbassare il nostro impatto? La ricerca ha un ruolo centrale per trovare risposte a queste domande. Una ricerca che vada di pari passo a campagne di informazione e sensibilizzazione lungo tutta la filiera, dall’agricoltore al consumatore.
"Per cambiare le cose bisogna rendere le persone consapevoli", conclude Juul. "Quando le persone agiscono, alche altre persone agiscono, i governi agiscono, e agiscono le aziende".
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