Il problema di Spotify non è (solo) la disinformazione di Joe Rogan
10 min letturaAggiornamento 7 febbraio 2022: Nei giorni scorsi sono arrivate nuove accuse per Joe Rogan e il suo podcast, The Joe Rogan Experience. La cantante India Arie ha infatti comunicato di voler lasciare la piattaforma Spotify, seguendo l’esempio di Neil Young e Joni Mitchell. Nel dare l’annuncio ha puntato il dito su un altro aspetto problematico del podcast: gli insulti razzisti, attraverso una compilation che ne raccoglie alcuni. Rogan si è scusato con un nuovo video, dicendo fra le altre cose che le parole sono state prese fuori contesto, e che lui non è certo un razzista. Nel frattempo circa 113 episodi del podcast sono stati tolti dalla piattaforma, mentre continuano a circolare altri spezzoni problematici: è il caso dell’intervista al troll di estrema destra Chuck Johnson, secondo cui i neri avrebbero un gene che li rende “predisposti alla violenza”. Il CEO di Spotify Daniel Ek, in una lettera ai dipendenti, ha spiegato che la decisione di rimuovere gli episodi è venuta da Rogan stesso, difendendo il conduttore. “Condanno con forza quanto Joe ha detto, e sono d’accordo con la sua decisione di rimuovere gli episodi dalla piattaforma, ma capisco anche che molti vorrebbero di più. E voglio essere molto chiaro su un punto, non credo che silenziare Joe sia la risposta”.
di Marina Nasi
Don't it always seem to go. That you don't know what you got 'til it's gone.
Il ritornello di Big Yellow Taxi, uno dei brani più celebri di Joni Mitchell, ci ricorda che non capiamo mai il valore di ciò che è nostro finché non lo abbiamo perduto. Per il momento, Spotify non sembra dare eccessivi cenni di pentimento per aver lasciato andare la storica cantante canadese, così come pochi giorni fa, all'ultimatum di Neil Young “O me o Joe Rogan”, aveva reagito rimuovendo in meno di 48 ore quasi tutto il catalogo dell'autore di Harvest Moon e Heart of gold.
È un inizio d’anno impegnativo per Spotify. Non è la prima volta che la piattaforma svedese viene esposta a critiche, ma questa querelle è forse la più intensa e mediaticamente esposta. Tutto comincia lunedì 25, quando Neil Young annuncia, con una lettera aperta al suo manager e alla sua casa discografica, pubblicata sul sito ufficiale e successivamente rimossa, che Spotify “diffonde informazioni false in merito al vaccino – potenzialmente causando la morte di chi crede alla disinformazione che lì viene fatta”.
Una Experience da 11 milioni di ascoltatori a puntata
Il riferimento esplicito delle dichiarazioni di Neil Young è il podcast The Joe Rogan Experience, condotto dal cinquantaquattrenne Joe Rogan, personalità televisiva, comico, attore e adesso astro di punta della scuderia Spotify. Con i suoi 11 milioni di ascoltatori per episodio (secondo quanto dichiarato dalla piattaforma) e l'abitudine a intervistare personaggi controversi, Rogan nel suo programma ha regolarmente dato risalto a teorie non accreditate, tra complottismi e disinformazione, anche in merito alla questione Covid, dai vaccini ai protocolli sanitari. “Possono avere Rogan o me. Non entrambi”, concludeva Young, e il seguito è noto: mercoledì 27 gennaio la discografia del 76enne musicista canadese era già scomparsa dalla piattaforma. In più, Spotify faceva sapere all'Hollywood Reporter, tramite un suo portavoce, di prendere con grande scrupolo tanto la libertà di espressione quanto la salute del pubblico, e di avere eliminato oltre 20.000 episodi di podcast con contenuti relativi alla Covid-19. Evidentemente quelli della Joe Rogan Experience non erano stati considerati così dannosi da meritare la rimozione.
Tre ore di Robert Malone
Solo una settimana fa, ha provocato reazioni fra l’indignato e il divertito l’ospitata di Jordan Peterson, psicologo clinico noto per i suoi video provocatori e ultraconservatori su YouTube. Lunedì 25, mentre Neil Young annunciava l’abbandono di Spotify, Peterson si lanciava in una serie di traballanti critiche ai modelli usati dai ricercatori per prevedere l’andamento del riscaldamento globale, che ovviamente lo psicologo negava.
Un altro degli episodi più controversi del podcast di Rogan, andato in onda il 31 dicembre 2021, aveva come ospite il virologo e immunologo Robert Malone, personaggio molto dibattuto. Fresco di eliminazione da Twitter, Malone nel corso di una puntata lunga tre ore ribadiva la potenziale pericolosità del vaccino anti-Covid (nonostante rivendichi per sé la paternità dei vaccini mRNA), oltre a promuovere l'uso off label di ivermectina e idrossiclorochina, sostenere che le cure precoci sono scoraggiate perché gli ospedali ricevono bonus per i ricoveri e per le morti Covid, parlare di una sorta di cancel culture scientifica che zittirebbe i medici non in linea con la narrazione ufficiale e, per concludere, paragonare la “psicosi di massa” degli Americani in merito alla Covid-19 al clima della Germania nazista. Insomma tutti i grandi classici del complottismo sanitario, niente di nuovo, ma considerato l'enorme seguito di Rogan e del suo podcast, l'episodio in questione aveva fatto guadagnare a Spotify unalettera aperta, in cui quasi 300 firmatari appartenenti alla comunità medica esprimevano preoccupazione per la mole di disinformazione promossa sulla piattaforma e chiedevano al colosso svedese di intervenire con una policy chiara sulle fake news sanitarie.
L'abbandono di Joni Mitchell, Nils Lofgren e Graham Nash
La stessa lettera campeggiava il 28 gennaio, un giorno dopo la rimozione da Spotify della discografia di Neil Young, sul sito di Joni Mitchell. Amica di Young, canadese come lui e come lui passata da bambina attraverso la poliomelite, prima che fossero disponibili i vaccini antipolio, la cantante ha annunciato sempre sul suo sito di appoggiare il collega nella sua protesta e di voler rimuovere tutta la propria musica da Spotify, perché “Persone irresponsabili stanno diffondendo informazioni che costano la vita della gente”. Due giorni dopo si ritirava in solidarietà anche Nils Lofgren, meno famoso al grande pubblico ma membro della Bruce Springsteen’s E Street Band e dei Crazy Horse, così come dichiarava di prendersi una pausa (senza dichiarazioni che ne motivassero la causa) la ricercatrice Brené Brown, autrice dei podcast Unlocking us e Dare to lead. E il primo di febbraio anche Graham Nash, collega di Neil Young dai tempi dei Crosby, Stills, Nash and Young, si è ritirato dalla piattaforma, citando la lettera dei 270 e dicendosi preoccupato per la diffusione di notizie “non solo false, ma anche pericolose”.
Il comunicato ufficiale di Spotify
Nel frattempo, ovviamente, Twitter si riempiva di screenshot degli utenti che avevano appena disdetto l'abbonamento alla piattaforma svedese e degli hashtag #Spotifyexodus e #BoycottSpotify. E si arriva a domenica, quando il cerchio sembra chiudersi ma con ben poca chiarezza e una forte sensazione che né le proteste di musicisti storici, né le rimostranze della comunità scientifica, abbiano avuto un peso effettivo nelle scelte editoriali di Spotify. Prima l'annuncio del CEO Daniel Ek, che in un comunicato ufficiale afferma che l’azienda «ha il dovere di fare di più» riguardo la diffusione di informazioni potenzialmente pericolose e annunciando avvisi e disclaimer prima dei podcast. Incidentalmente, sarebbe un passo indietro rispetto alle dichiarazioni lasciate solo la scorsa estate al podcast Axios Re:Cap, in cui invece Ek sosteneva che Spotify non avesse la responsabilità editoriale dei contenuti dei suoi podcast, incluso quello di Rogan, aggiungendo un goffo paragone con alcuni rapper ospitati sulla piattaforma e altrettanto liberi di esprimersi. La dichiarazione ufficiale di Ek è stata commentata positivamente anche dalla portavoce della Casa Bianca Jen Psaki, a dimostrazione di quanta rilevanza mediatica abbia ormai l’affaire Spotify. Interpellata in proposito nel corso del “daily brief” del primo di febbraio, Psaki ha giudicato “un passo in avanti” l’introduzione del disclaimer a inizio episodio, aggiungendo però che si potrebbe fare di più, e che tutte le piattaforme tech dovrebbero impegnarsi meglio a combattere misinformazione e disinformazione.
Sorry but not sorry
Sempre sulla pagina ufficiale sono state pubblicate anche le regole di Spotify, parte delle quali erano già state discusse ufficiosamente in un articolo di The Verge, in cui tra l'altro si notava la debolezza di alcune norme come quella che vieta di “Promuovere o suggerire l'idea che i vaccini siano progettati per causare la morte”, e che quindi non evita assolutamente di dire che i vaccini siano pericolosi o anche letali (evita solo di esplicitarlo). Poi lunedì 31 gennaio, a un mese esatto dalla controversa ospitata di Robert Malone, sul canale Instagram del podcaster e su Spotify compare una spiegazione di nove minuti video in cui lo stesso Rogan si impegna a fare più ricerca prima di parlare di determinati argomenti e si propone di invitare anche ospiti che facciano da “controcanto” alle dichiarazioni più provocatorie. Il conduttore ripropone anche il solito discorso sulla legittimità di ascoltare chi va contro “la narrazione ufficiale” e sul fatto che quelle che oggi sono bollate come fake news potrebbero essere le verità di domani. Insomma, un “Sorry but not sorry” condito di ammirazione per Neil Young, di cui Rogan si dice grande fan, e un'assunzione di responsabilità fin troppo blanda sia da parte del podcaster che da parte dell'azienda.
Un'attenzione crescente per i podcast
Del resto, poteva davvero andare diversamente? Il podcast di Rogan, che Spotify ha acquistato in esclusiva nel 2020 per 100 milioni di dollari, fa numeri trionfali, ogni settimana si arricchisce di almeno quattro di quei famosi episodi da 11 milioni ciascuno, e nel primo mese di messa in rete rappresentava già il 4,5% di tutti podcast della piattaforma a livello globale. Difficile immaginare che la piattaforma svedese voglia disfarsi di questa gallina dalle uova d'oro, anche a fronte delle proteste di artisti noti. Come spiega benissimo il Washington Post, per continuare a fare quei numeri Rogan è essenziale, perché a differenza di tanti artisti presenti sulla piattaforma lui è in esclusiva. È vero che, secondo stime citate da Variety, solo dal ritiro di Neil Young Spotify aveva perso due miliardi in valore di mercato, con un calo del 6% nella sola finestra 26/28 gennaio, ma è altrettanto vero che, anche dopo le “dimissioni” di Mitchell e Lofgren, l'effetto valanga non è automatico. Emblematico è il caso di David Crosby.
Lasciare Spotify non è poi così facile
Un conto è annunciare di essere dalla parte dei colleghi in protesta, un altro è lasciare effettivamente Spotify. David Crosby, altro ex membro degli storici Crosby Stills Nash and Young, ha lasciato un tweet abbastanza disarmante, in cui diceva che se avesse avuto ancora il controllo della propria musica, l’avrebbe ritirata dalla piattaforma come l'amico e collega. Il controllo di tutti i suoi diritti, infatti, Crosby lo ha venduto circa un anno fa alla Iconic Artists Group, dopo avere platealmente annunciato di avere bisogno di soldi per il mutuo e la famiglia, visto che la pandemia aveva cancellato gli eventi dal vivo e considerando le magre entrate ricavate dai servizi di streaming. Tecnicamente, toccherebbe quindi alla Iconic Artists Group, proprietà di Irving Azoff, spalleggiare la protesta ideologica del musicista. E sembra improbabile. Tra l'altro gli artisti, anche quelli che non hanno ceduto i loro diritti di pubblicazione, possono fare tutti gli annunci che vogliono, ma solo le loro case discografiche possono chiedere la rimozione di un catalogo, come ricorda il sito Music Business Worldwide.
La vita agra di chi vive di stream
Tornando poi al tema dei magri compensi, Spotify è stata spesso oggetto di critiche da parte degli artisti. L'ultima è dello scorso dicembre, quando il rapper T-Pain ha pubblicato in un tweet il numero di stream di un brano necessari per guadagnare un dollaro sulle varie piattaforme. Su Spotify, secondo l'infografica, ne servirebbero 315, contro per esempio i 128 di Apple Music. Mesi prima c'era stata la protesta davanti agli uffici organizzata dalla Union of Musicians and Allied Workers, sempre in nome di un compenso equo. Sono molti gli artisti che lamentano un trattamento economico penalizzante da parte della piattaforma, spesso pesci piccoli che non possono permettersi di trattare come fatto a suo tempo da Taylor Swift, in grado di ritirare il proprio materiale dalla piattaforma il tempo necessario ad ottenere il riconoscimento delle proprie richieste.
Gli investimenti nel settore della difesa
Se andiamo indietro di qualche mese, inoltre, scopriamo che già a fine novembre Twitter aveva ospitato un'ondata di hashtag #BoycottSpotify. Il tema però era tutt'altro e riguardava l'annuncio, fatto sempre da Ek, di avere investito 100 milioni di euro, tramite la sua compagnia di investimenti Prima Materia, in una società di intelligenza artificiale dedicata alla difesa, la Helsing. Questa svolta militare non era piaciuta a moltissimi utenti, che per un paio di settimane avevano messo in piedi una protesta su Twitter, poi evaporata. Come non è escluso che evapori la fiammata di indignazione social di questi giorni, come spiega a Valigia Blu la media strategist Mafe De Baggis: "Come in quasi tutte le fiammate, credo che siano molte dichiarazioni d’intenti e pochi fatti, anche perché i tweet sembrano tanti ma quasi sempre, se contati, si riducono a poco. Sarà interessante invece vedere cosa faranno gli altri podcaster, se appoggeranno Spotify o se qualcuno approfitterà della situazione per farsi notare".
Danno reale e danno percepito
Intanto chi sta cercando di approfittare della situazione è ovviamente la concorrenza, con Apple Music che ha già fissato un tweet in cui si definisce “La casa di Neil Young” e Amazon Music che, proprio per bocca di Young (che ha garantito che non guadagnerà un centesimo dalla cosa) ha già lanciato una promozione. In più, non è detto che i grandi addii dei musicisti che regalano titoli ai giornali siano un danno di immagine che durerà nel tempo e che abbiano un effetto davvero significativo. Sempre De Baggis: "Ci sono due discorsi da fare. Il primo riguarda la completezza del catalogo, almeno quella percepita. Spotify dà la sensazione di avere accesso a tutta la musica e quindi qualunque assenza, soprattutto se rumorosa, può pesare sugli abbonati e sugli ascolti. Il secondo discorso è sul peso della musica e quello dei podcast. Spotify sta puntando tantissimo su questi ultimi e ha scelto di difendere un suo investimento editoriale e, nello stesso tempo di evitare "cancellazioni" sulla base dei contenuti. Visti i numeri dichiarati, potrebbe essere la scelta giusta e indicare un cambio di rotta ancora più deciso, simile a quella di Netflix quando ha iniziato a produrre intensivamente i propri show. Ovviamente il fatto che [Rogan] abbia posizioni no-vax rende tutto scivoloso, però ehi, è libertà di espressione senza nessun dubbio. Da noi li invitano in prima serata in tv".
Alla richiesta di un commento per Valigia Blu, la managing director di Spotify per l'Italia Federica Tremolada non ha risposto, mentre dall'ufficio comunicazione sono arrivati i link e i virgolettati alle già citate dichiarazioni ufficiali di Ek e del portavoce di Spotify. Sicuramente, la scelta di non penalizzare in alcun modo Rogan, se non facendo precedere i suoi futuri podcast dall'invito a consultarsi con il proprio medico di fiducia per avere informazioni di carattere sanitario, dice molto dell'orientamento attuale di Spotify, ovvero un'attenzione sempre maggiore a prodotti come i podcast, poco timore di mettere in crisi la precedente identificazione della piattaforma con il solo mondo della musica, e una preoccupazione tutto sommato moderata per l’attivismo via social di quella parte di utenza che ha preso a cuore la protesta innescata da Neil Young.
E c’è anche chi, come la giornalista di The Verge esperta in industria audio e podcasting Ashley Carman, sostiene che tutta questa situazione (non solo le proteste contro Spotify, ma proprio le modalità contemporanee di produzione dei podcast) rappresenti un precedente degno di nota, e non troppo rassicurante, in termini tanto di libertà d’espressione quanto di investimenti sostanziosi. Secondo Carman, con i prodotti culturali audio sempre meno liberi di circolare (perché dietro paywall) e sempre più legati a una sola piattaforma, si va creando un “ecosistema chiuso dei podcast”, qualcosa di cui tutte le piattaforme dovrebbero preoccuparsi.
Immagine anteprima via Dexerto