La sottorappresentazione delle donne: al di là di Rula Jebreal e Propaganda Live
7 min letturadi Giulia Blasi
Come molte Grandi Polemiche di Internet che finiscono per tracimare sui media nazionali, anche il caso sollevato da Rula Jebreal quando ha ritirato la sua partecipazione a Propaganda Live è andato presto oltre il caso particolare per allargarsi a una questione generale, ben più ampia. Jebreal – per chi avesse bisogno di un riassunto – era invitata alla puntata del 14 maggio per parlare della nuova escalation di violenze nei territori palestinesi occupati da Israele dal punto di vista dei palestinesi. Una prospettiva necessaria, data la tendenza dei media nazionali e internazionali ad assumere il punto di vista israeliano nella narrazione di un conflitto troppo complesso e troppo stratificato per poter essere schiacciato su una sola versione. Jebreal vede il parterre degli ospiti, nota che sono tutti di genere maschile a parte lei, e si ritira.
La cosa ovviamente non passa inosservata, se non altro perché Propaganda Live è un programma considerato quasi all’unanimità fra i migliori – se non il migliore in assoluto – nel raccontare i temi cari alla sinistra italiana. L’accusa indiretta di maschilismo (per quanto involontario) nella scelta degli ospiti colpisce autori, conduttore e fan in un punto sensibile, quello di chi pensa sinceramente di stare dalla parte giusta, anche quando si tratta di questioni di genere.
Non è possibile negare che Propaganda Live faccia un lavoro straordinario di narrazione del presente e dell’umano. La camera a mano di Diego Bianchi è diventata un linguaggio riconoscibile e unico, così come l’approccio informale, il punto di vista dichiarato e mai falsamente neutro, la capacità di entrare in relazione con gli intervistati, di renderli vivi e non semplicemente rappresentanti di un caso, una causa, un fenomeno. Negli anni, Propaganda Live (e prima ancora Gazebo, che di Propaganda Live è il Genitore 1) ha raccontato le migrazioni da ogni angolatura possibile senza dimenticare mai che chi arriva o parte è prima di tutto una persona, con una storia, delle aspirazioni, una personalità, e il diritto inalienabile all’esistenza, alla sicurezza e alla libertà di movimento. Ha raccontato i lavoratori, braccianti, operai, rider, di ogni genere, età e identità, e per farlo si è spesso affidato allo sguardo di una donna, così come sono spesso (anche se non spessissimo) donne quelle che vengono chiamate a commentare la situazione politica, oltre alle ospiti fisse in studio Constanze Reuscher e Francesca Schianchi. Il basimento dello staff di Propaganda Live nel sentirsi messi di fronte a una mancanza grave è proporzionale alla buona fede con cui in questi anni sembrano avere lavorato a correggere il tiro, rispetto a una situazione di partenza molto più monogenere.
Lo strappo di Rula Jebreal non è del tutto ingiustificato, ed è stato comunque molto discusso, ma proviamo a superarlo per andare dal particolare al generale. La presenza delle donne nell’ambito pubblico – che sia la televisione, la politica o in generale il mondo del lavoro, nello specifico le professioni ad alta visibilità – è un punto molto controverso e molto discusso. Non nella sostanza, perché ovviamente quasi nessuno pensa che le donne non meritino di essere viste (non a livello conscio, comunque) ma nel modo in cui questa presenza possa e debba essere aumentata. Partiamo dai numeri che riguardano le trasmissioni Rai, che anche se naturalmente imperfetti perché divisi lungo linee di genere molto rigide sono comunque indicativi di uno squilibrio. Secondo i dati riportati dall’Osservatorio di Pavia, gli uomini rappresentano il 63,7% degli ospiti delle trasmissioni, contro un 36,3% di donne. Le politiche intervistate sono il 18,1%, le portavoce il 22% dei casi, il che rispecchia, in parte, la situazione di grave sottorappresentazione interna alla politica, soprattutto ad alto livello. Ma se la politica è legata in qualche modo all’attribuzione di un ruolo e di una carica che passa per il voto o per una nomina a una carica ufficiale, le esperte sono molto più numerose e facili da trovare. Eppure rappresentano solo il 24,8% delle ospiti dei programmi Rai, e riescono a essere la minoranza anche fra le celebrità: 33,1% contro il 66,9% di uomini.
Sono numeri, e i numeri dicono poco, se non vengono qualificati, ma di sicuro ci dicono che il servizio pubblico riserva pochissimo spazio alle donne in generale, e alle donne esperte e qualificate in particolare. Alla luce di queste proporzioni, il Diversity Award esibito da Diego Bianchi per rivendicare la varietà della composizione di genere del suo programma esce un po’ depotenziato, se teniamo conto che dall’altra parte ci sono programmi come Cartabianca (condotto da Bianca Berlinguer) che di donne non ne ospita quasi mai più di una o due a serata contro un parterre di dieci e più ospiti di genere maschile, o Che tempo che fa, in cui le donne non sono solo la minoranza, ma sono quasi sempre attrici, conduttrici, musiciste o atlete, più di rado scienziate o politiche: autrici, filosofe e intellettuali di ogni ordine e grado compaiono di rado (Jebreal in questo senso rappresenta un’eccezione). A fare meglio ci vuole poco.
La questione è quindi in primis quantitativa, in secundis qualitativa. Le donne che ci sono, cosa fanno? Che ruolo svolgono, di cosa parlano, che esperienza portano? Come sono presentate? L’ospitata di Rula Jebreal a Sanremo 2020, con un monologo sulla violenza domestica, era importante per il tema e per la platea che poteva raggiungere (come ha spiegato la stessa Jebreal in un’intervista con Tiziana Ferrario), ma si inseriva in un contesto in cui le donne erano considerate quasi intercambiabili: undici contro un conduttore e mezzo, Amadeus e Fiorello. Molte donne, tutte presenti per poco tempo, con poco peso specifico individuale, soggette allo sguardo paterno e talvolta paternalista dell’uomo che rappresentava il centro di gravità della narrazione del programma. Cosa fanno le donne è importante quasi al pari di quante donne sono presenti. Perché è sia sulla presenza che sul ruolo che si giocano non solo la varietà dei punti di vista, ma anche la questione dell’autorappresentazione. Le donne, che di rado vedono sé stesse nel ruolo di chi dà forma a una narrazione (di un programma o del mondo) con le loro idee ed esperienze, faticano a proiettarsi in quel ruolo, preferendo quello più modesto di “giocatrici di squadra”. Non è un caso che nelle redazioni, lontano dallo sguardo delle telecamere, ce ne siano sempre tantissime: l’ancillarità non è naturale, è indotta. Se vedi poche donne parlare davanti a una telecamera, e quelle poche sono quasi tutte giovani e belle (e quindi pongono anche un problema di presentabilità percepita) diventa più difficile pensarsi come portatrici di contenuti interessanti o degne di un palco grande. Si finisce inevitabilmente per domandarsi: sarò abbastanza giovane e bella da potermi sentire degna di parlare? Posso parlare anche se non sono in abito da sera? O finisco per prendermi i pomodori, com’è successo a Giovanna Botteri, corrispondente della Rai di lungo corso umiliata in pubblico perché non pettinata ammodino durante un collegamento?
Per non parlare delle persone chiamate a far ridere. Il recente successo di LOL, reality show prodotto da Amazon, ha portato alla ribalta le comiche incluse nel cast, che si sono conquistate la copertina di Vanity Fair (anche qui, se ne potrebbe parlare: non lo faremo in questa sede). Le donne facevano ridere anche prima, ma a guardare il palinsesto e il cast della maggior parte dei programmi non si direbbe proprio.
La questione qualitativa, infine, tocca anche la scelta degli argomenti trattati. La falsa neutralità attribuita al genere maschile, che deriva direttamente da una dominanza pressoché totale del discorso politico, culturale ed economico costruita nell’arco di secoli e molto difficile da smantellare, fa sì che un programma d’informazione scritto e condotto da uomini sia un programma d’informazione, mentre un programma scritto e condotto da donne sia, per citare la giornalista Alessandra Quattrocchi, “la TV delle ragazze”. Le donne possono quindi occuparsi di temi ritenuti universali, come il lavoro, la politica, i diritti umani; difficilmente quello che attiene per lo più allo specifico femminile (per fare alcuni esempi: i diritti riproduttivi, la situazione precaria di CAV e consultori familiari, i mille ostacoli posti alla legge 194, la questione del consenso, la violenza domestica e in generale la violenza maschile sulle donne, la disparità in ambito lavorativo generata dall’assenza di servizi oltre che dall’indisponibilità degli uomini a farsi carico dei compiti di cura) viene considerato universale e parte del discorso generale sull’umano. Che siano le donne a parlare di donne alle altre donne, in spazi dedicati alle donne: tirare in ballo il ruolo degli uomini nella generazione delle disparità è considerato quasi maleducazione. Sembra quasi impossibile portare il tema all’attenzione pubblica, uscendo dai recinti dei dibattiti “al femminile” e spostando il discorso dal comportamento di chi subisce a quello di chi agisce, cercando di costruire un ragionamento più ampio sugli incroci e le convergenze culturali che finiscono per generare la violenza. Si parla quindi – e giustamente – di razzismo, ma non si accetta di parlare di sessismo o misoginia. Questo è in parte anche legato alla costante opera di delegittimazione intorno ai temi proposti dai femminismi operata dai media nazionali, che non risparmiano fuoco (nemico e amico) all’indirizzo di chi prova a sollevare questioni vitali, ridicolizzandole e minimizzandole. Se non sono i temi o il modo in cui vengono affrontati e comunicati a essere delegittimati, lo sono direttamente le persone, cercando di coglierle in fallo, di screditarle e metterle alla berlina: l’importante è che non si parli di niente.
Lì dove lo sguardo è interamente maschile (o assume la prospettiva maschile, come spesso accade fra le donne che hanno fatto carriera in un ambiente che non premia la dissidenza), è quasi inevitabile che anche i temi toccati, nonché il modo in cui vengono toccati, siano in qualche modo influenzati dalla prospettiva di genere. Nessuno di noi vede tutto. Nessuno di noi vede le cose allo stesso modo di chiunque altro. Tutti vediamo le cose attraverso il filtro della nostra esperienza, istruzione, classe sociale, provenienza, cultura. È vero per gli uomini come per le donne, ma solo la prospettiva delle donne è considerata “di genere”, quindi secondaria. Questo è contemporaneamente causa e conseguenza del pregiudizio che porta infine a ritenere gli uomini “più competenti” in quasi tutti i campi dello scibile umano. Una cecità selettiva di cui è impossibile rendersi conto da soli, ma che non risparmia nessuno, dato che è impastata nel modo in cui siamo cresciuti.
In un dibattito così importante è fondamentale non polarizzarsi, ma ricordare che ogni cambiamento è un processo, e che la critica non è una condanna, ma un’esortazione all’auto-analisi, all’applicazione di correttivi anche lì dove non sembrano necessari. Si può sempre fare di meglio, e in qualche caso è vitale farlo, non per evitare le critiche, ma per costruire insieme una cultura diversa, più ampia e più accogliente.
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