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La scelta di essere madri e i sostegni alla genitorialità

14 Giugno 2021 9 min lettura

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La scelta di essere madri e i sostegni alla genitorialità

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Nel 2020 l’Italia ha registrato il minimo storico di nascite dall’unità d’Italia. Secondo l'Istat si è passati dai 18 nati vivi ogni 1000 abitanti della seconda metà degli anni ‘60, ai 10 in quella degli anni ‘80 fino ai 7,3 del periodo che va dal 2016 al 2020. Se nel primo anno della pandemia di COVID-19 le nascite sono state 404 mila, le previsioni per il 2021 sono tra le 384 mila e le 393 mila.

In un contesto di calo generale a livello europeo, il nostro paese ha il tasso di natalità (ossia il rapporto tra nati vivi e il totale della popolazione) più basso tra i 27 membri dell’UE, dove è di 9,5. Considerando l’Europa come area geografica, l’Italia ha lo stesso tasso dell’Andorra, e supera di una posizione San Marino (6,7). In Francia è 11,2, in Germania 9,4.

Sono dati che hanno motivazioni complesse, ma che non possono non essere messi in correlazione con alcuni elementi del nostro paese: mancanza di un welfare adeguato, politiche di sostegno familiare non sufficienti, grossi problemi occupazionali che vanno a colpire soprattutto le donne.

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Secondo l’economista Daniela Del Boca «c’è una platea più ristretta di potenziali mamme, frutto di un calo delle nascite di ormai lunga durata. E poi: poco lavoro, pochi soldi, poca sicurezza, pochi servizi. Alcune giovani donne sono meno interessate alle traiettorie di vita più tradizionali, altre si fermano al primo figlio. Pesa anche la questione migratoria dal Sud al Nord e verso l’estero: i nonni sono lontani, alcuni lavorano e non possono dare una mano».

Letizia Mencarini, docente di Demografia all'università Bocconi di Milano, ritiene che i nuovi nati in Italia siano sempre meno perché lo sono anche i giovani adulti, figli a loro volta del calo della fecondità in media di 30 anni prima. E dunque per invertire questa tendenza occorrerebbe un aumento consistente del numero dei figli di ogni coppia. Cosa che non accade, anche perché il progetto di genitorialità spesso viene ritardato di molto. Non per individualismo o egoismo: «Si vogliono fare i figli quando ci sono le condizioni per farli. Siamo più responsabili che egoisti», afferma la professoressa. A differenza di altri paesi, «qui si sa che non c’è un aiuto per il costo dei figli, non ci sono servizi, quindi non si fanno prima di aver raggiunto delle tappe».

Prima di analizzare le ragioni pratiche che portano chi vorrebbe avere dei figli a ritardare questo progetto – o ad abbandonarlo del tutto – bisogna sgombrare il campo da un grande equivoco che abita questo paese: essere madri non è un obbligo né un destino, ma una scelta. E dunque si può decidere di non fare figli anche se sussistono tutte le condizioni economiche, lavorative, familiari o sociali favorevoli.

Vale la pena mettere in chiaro questo punto perché viene costantemente ripetuto il contrario. L’ultimo in ordine di tempo ad avallare questa narrazione è stato il coordinatore nazionale di Forza Italia Antonio Tajani, che in occasione della festa della mamma lo scorso maggio aveva dichiarato che la famiglia «senza figli non esiste», mentre la donna «si realizza pienamente con la maternità».

Come scrive Flavia Gasperetti nel suo saggio “Madri e no. Ragioni e percorsi di non maternità”, la società “ci dice che la vita di chi è genitore ha intrinsecamente più valore di quella di chi non lo è”, e questo crea “uno stigma sociale che può portare chi non ha figli a sentirsi incompleto, mancante, e similmente pesa su chi invece si cimenta nell’impresa e non riesce ad assaporare la felicità promessa”.

Se ne parla poco o con sospetto, ma le donne che decidono di non essere madri esistono. Secondo l’indagine Istat “Famiglie, soggetti sociali e ciclo di vita” (dati del 2016), il 45,4% delle donne di età compresa tra 18 e 49 anni è senza figli. Il 22% sostiene che non intende avere nei successivi tre anni né in futuro, e il 17,4% di queste afferma che la maternità non rientra nel proprio progetto di vita – ossia si dichiarano childfree. Le percentuali variano in base a dove risiedono le donne e quali sono le loro caratteristiche: sono maggiori al Nord rispetto al Centro-Sud, crescono al crescere del titolo di studio e si differenziano tra occupate e non (più alte tra le prime).

Per coloro che invece vogliono dei figli la strada è tutt’altro che semplice – e la pandemia non ha fatto che peggiorare le cose in termini di occupazione, conciliazione dei tempi e cura.

Il recente rapporto dell'organizzazione Save the Children “Le equilibriste. La maternità in Italia nel 2021” rileva che nel mercato del lavoro quando “all’essere donna, già di per sé un oggettivo svantaggio, si aggiunge l’essere madre, il quadro diventa drammatico”.

Il dato da cui partire è che in generale nel nostro paese, di fatto, una donna su due non lavora: il tasso di occupazione femminile è di circa il 48,5 % il secondo più basso di tutta l’Ue, che ha una media del 64%. La differenza con quello maschile è di circa il 19%. Le donne in Italia lavorano in media 33 ore alla settimana, contro le 40,2 degli uomini. Da un'analisi di Openpolis emerge poi che mentre gli occupati tra gli uomini con figli sono l’84,4%, tra le donne sono il 56,3%, la quota più bassa tra tutti i paesi europei. Il divario occupazionale tra donne e uomini con figli è di 28,1 punti.

Stando alle stime dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, nel solo 2019 le dimissioni o risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro di lavoratori padri e lavoratrici madri hanno riguardato 51.558 persone: il 72,9% (oltre 7 su 10) sono donne. La motivazione più ricorrente (quasi 21 mila casi, il 35% del totale) è la “difficoltà di conciliare l’occupazione lavorativa con le esigenze di cura della prole” a causa dell’assenza di parenti di supporto (27%), costi troppo alti per asili o baby sitter (7%), mancata ammissione al nido (2%).

Come evidenzia il rapporto di Save the Children, le donne madri lavoratrici sperimentano inoltre quella che viene chiamata child penalty, ossia decrementi del proprio reddito all’arrivo di un figlio. È un fenomeno che sui padri non viene rilevato. Secondo l’INPS, questa penalità è molto pronunciata nel breve periodo – in particolare nell’anno del congedo e in quello successivo – ma permane anche diversi anni dopo la nascita. “A quindici anni dalla maternità i salari lordi annuali delle madri sono di 5.700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente alla nascita” - ossia il 53% in meno.

Le cause dipendono da possibili discriminazioni legate alla maternità o anche dal persistere di ruoli e stereotipi di genere per cui le madri dedicano più tempo alla famiglia che al lavoro - e dunque, per esempio, accettano con più facilità contratti part-time o altre riduzioni. La "penalità" sul mercato del lavoro legata alla nascita di un figlio, scrive l'INPS nel report, "coglie più aspetti. Può riflettere le preferenze delle madri, che desiderano trascorrere del tempo con i figli e quindi riducono il tempo dedicato al lavoro (questo effetto non è però osservato per i padri). Può altresì riflettere stereotipi e norme sociali che vogliono le mamme come principali o esclusive responsabili della cura dei figli". Inoltre, cattura "le difficoltà di conciliazione tra famigliae lavoro, soprattutto dove è meno capillare la diffusione dei servizi di cura" e può riflettere "il comportamento delle aziende, se i datori di lavoro non riservano alle madri le stesse opportunità di lavoro e carriera disponibili per i padri, in presenza di fenomeni di discriminazione statistica".

Carla Facchini, docente di Sociologia della Famiglia all’Università di Milano Bicocca ritiene che in questi decenni ci sia stato un coinvolgimento crescente delle donne nelle produzione del reddito della coppia, ma che questo non sia stato «accompagnato dal coinvolgimento maschile nel carico della cura».

La pressione sulla conciliazione tra tempi di lavoro e cura è aumentata durante la pandemia, specialmente per le donne con figli fino a cinque anni, tra smart working e servizi all’infanzia chiusi. Le madri hanno dovuto fare i conti molto più dei padri con interruzioni della giornata lavorativa da remoto per far fronte a esigenze e responsabilità legate alla famiglia. Questo, secondo l’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere, diminuisce la produttività delle donne lavoratrici e può avere un impatto sulla progressione della loro carriera e sui loro stipendi.

Quest’ultimo aspetto costituisce quello che Azzurra Rinaldi, direttrice della School of Gender Economics dell'Università Unitelma Sapienza, definisce «l’elefante nella stanza»: le attività di cura non retribuite, che in Italia sono quasi totalmente a carico delle donne.

Un’analisi dell’Osservatorio internazionale per la coesione e l’inclusione sociale (OCIS) pubblicata su Altreconomia rileva come il nostro paese abbia un forte bisogno di “equilibrare i carichi lavorativi ed equiparare le opportunità lavorative tra uomini e donne”, ma “nel complesso l’Italia si colloca tra i Paesi dove è meno incentivata la presenza dei ‘papà a casa’”. L’ultima legge di bilancio ha portato a 10 i giorni di congedo obbligatorio per i padri, contro i 5 mesi di quello di maternità. Un passo avanti (e un adeguamento alle richieste dell'Ue), ma non risolutivo. E di molto indietro rispetto, ad esempio, alla Spagna, dove il congedo di paternità è stato equiparato a quello della madre: ognuno dei due genitori ha diritto a 16 settimane retribuite al 100%.

Eppure, scrive l’OCIS, “sono numerosi gli studi che mostrano come il congedo parentale favorisca una maggiore partecipazione degli uomini alla cura dei bambini con ricadute positive anche in termini di risultati scolastici dei figli, e ri-bilanci i carichi familiari riducendo anche il conflitto nella coppia sulla divisione del lavoro domestico. Il congedo di paternità sembra favorire il coinvolgimento di entrambi i genitori nella crescita dei figli ed è un fattore fondamentale per garantire pari opportunità e benessere dell’intera famiglia, padri compresi”.

C’è poi il tema dei servizi per l’infanzia, a partire dagli asilo nido, fondamentali per supportare le madri lavoratrici. Nel nostro paese però non sono sufficienti. Gli asili italiani coprono il 25% del fabbisogno nazionale (24,7 posti disponibili ogni 100 bambini), contro un obiettivo europeo che è pari al 33%. La situazione non è omogenea in tutto il paese e, anzi, le differenze territoriali sono enormi: in Valle d'Aosta la percentuale è del 47,1%, in Campania dell'8,6%. Significativamente, le regioni con la maggior offerta di asili nido sono le stesse che presentano alti tassi di occupazione femminile.

Anche il Bilancio di genere 2019 rileva come sui servizi per l’infanzia l’Italia non abbia ancora colmato il divario con gli altri paesi europei, nonostante l’aumento di risorse pubbliche dedicate negli ultimi anni. Da uno studio effettuato dalla UIL emerge poi che il costo delle rette degli asili ha un peso non indifferente: per il 2019-2020 la media è di 270 euro al mese - 2.700 l'anno - che incidono per il 7,2% sul budget di una famiglia media.

Infine, c'è la questione degli aiuti per chi mette al mondo un figlio. Negli anni si sono succedute varie forme di sostegno alla famiglia, tra bonus bebè, bonus mamme e simili. Un welfare, come definito da un'analisi pubblicata su InGenere, "frammentato e inaccessibile".

Le lacune del sostegno alla genitorialità sono esplose durante la pandemia, con il lockdown e le chiusure, rendendo necessario per il governo emanare misure come un congedo parentale straordinario e un bonus baby-sitter. Anche in questo caso è emerso lo sbilanciamento del carico di cura all'interno della famiglia: nel 2020 le domande accolte per il bonus sono state 1.078.173 da parte di 720 mila richiedenti (una per ogni figlio), la maggior parte delle quali sono donne. Per il congedo straordinario, a fare domanda sono state donne in 4 casi su 5.

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La legge di bilancio 2020 ha istituito il "Fondo assegno universale e servizi alla famiglia”, non legato alla natura dei rapporti di lavoro dei genitori. A marzo il presidente del Consiglio Mario Draghi aveva promesso che la misura - che sostituisce tutte le attuali forme di sostegno alle famiglie - sarebbe partita dal 1 luglio, prevedendo 250 euro al mese. Vedrà invece la luce nel 2022, e sarà preceduta da una “ponte” - in forma ridotta - per sei mesi, fino a dicembre 2021. L’introduzione dell’assegno universale - seppure ci siano dei nodi da sciogliere - è stato accolto positivamente come un primo passo.

Quello che resta fondamentale è che si intervenga sull’ingresso - e la permanenza - delle donne nel mercato del lavoro e sui servizi. Come afferma la sociologa Giorgia Serughetti, “quello che ormai sappiamo è che nei paesi a sviluppo avanzato la fecondità aumenta con la crescita della parità, del benessere e dell’occupazione femminile”.

Foto anteprima Public Co via Pixabay

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