Perché è importante il principio “Sorella io ti credo”
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I movimenti sono cerchi nell’acqua. La goccia che li ha generati si è già dissolta, ma l’acqua continua a vibrare e ogni onda genera la successiva. I femminismi non fanno eccezione: quando ho cercato di ricostruire quale sia stato il punto esatto della storia in cui lo slogan “Sorella, io ti credo” si è affermato nel linguaggio e nelle politiche dei movimenti femministi, sono risalita fino a un caso ormai dimenticato dall’opinione pubblica: la goccia.
Nel luglio del 2016 una donna viene aggredita da un gruppo di uomini durante le Sanfermines di Pamplona: sono in cinque, la stordiscono con farmaci sciolti nel bicchiere, la stuprano a turno e filmano le violenze. Si scoprirà che facevano parte di un gruppo organizzato, detto “La Manada” (il branco), che si scambiava consigli su come attuare una violenza sessuale.
Lo stupro arriva a processo a novembre 2017, quando in tutto il mondo #metoo e le altre campagne contro le molestie occupano il dibattito pubblico, in tutto l’Occidente a seguito delle rivelazioni su Harvey Weinstein: l’altra goccia. Dalla sentenza per quel processo – solo 9 anni per “abuso”, a fronte delle richieste tra i 22 e i 25 anni fatte dall’accusa – nasce il grido delle donne spagnole, “Hermana, yo sí te creo”. Sorella, io ti credo.
Da quei cerchi incrociati, in Spagna, è nata la legge che ridefinisce lo stupro come assenza di consenso al rapporto sessuale, e che se applicata oggi allo stesso caso porterebbe a condanne ben più severe nei confronti dei cinque aggressori di Pamplona. Ma la frase è rimasta, e si è diffusa in tutto il mondo, arrivando anche da noi, nel paese che ama dire che “le donne sono le peggiori nemiche le une delle altre”. Sorella, io ti credo: c’è una tenerezza, una solidarietà, in questa frase, che ne rende ancora più evidente e sovversivo il sottotesto politico. Io ti credo, perché altri non lo faranno.
Non è possibile comprendere la potenza o l’importanza di questa frase scollegandola dal contesto che la genera. Per moltissimo tempo, e in parte ancora oggi, la parola delle donne ha avuto un peso molto inferiore rispetto a quella degli uomini. Dalle microaggressioni sul lavoro (il capo che si impossessa delle tue idee, il collega maschio che ripete una cosa che hai appena detto e viene preso sul serio, mentre tu no) alla delegittimazione delle accuse anche molto circostanziate di stupro o violenza domestica (in cui la donna che denuncia viene fatta passare per “poco di buono” o mitomane pazza, oppure viene accusata di essersela cercata), la parola femminile ha un peso specifico diverso, più basso.
Del resto, in Italia fino al 1996 una donna non poteva cercare giustizia per una violenza sessuale subita se non accettando di diventare, simbolicamente, proprietà pubblica: fino a quell’anno, lo stupro era reato contro la morale e non contro la persona. Era la comunità a essere offesa, non la donna, il cui corpo diventava un terreno violato, un oggetto rovinato da una violenza che fino a quindici anni prima poteva essere cancellata con il matrimonio. Perché una donna stuprata non ha più valore, è una cosa rotta che nessuno vuole più.
“Que la honte change de camp”, ha detto Gisèle Pélicot durante il processo che la vede protagonista, non come vittima ma come sopravvissuta alla violenza maschile: la vergogna deve cambiare lato. Un’altra frase che si accosta a “Hermana, yo sí te creo” nella creazione di una cultura di ribellione alle norme patriarcali, che vorrebbero scaricare l’onere della violenza su chi l’ha subita e che rifiutano di prendere sul serio le denunce, anche quelle che le donne tentano di portare di fronte a un tribunale.
Non è semplice: fra circa un mese, Donald Trump assumerà per la seconda volta la presidenza degli Stati Uniti d’America, e nel frattempo una causa civile ha stabilito che sì, senza dubbio, il presidente entrante è colpevole di aver stuprato E. Jean Carroll in un camerino di prova di Bergdorf Goodman a metà degli anni ’90. Tra le scelte di Trump per le cariche principali della sua amministrazione ci sono Matt Gaetz, che ha rinunciato sotto minaccia di un’inchiesta perché accusato in maniera credibile di aver pagato per fare sesso con minorenni in festini a base di droghe; Pete Hegseth, anche lui oggetto di accuse di violenza sessuale e di maltrattamenti ai danni dell’ex moglie; Linda McMahon, che insieme al marito Vince è accusata di aver coperto gli abusi su minorenni compiuti da un ex dipendente della WWE (World Wrestling Entertainment). Se nessuna di queste circostanze è sufficiente a rendere questi personaggi ineleggibili, è perché alle donne - e in generale alle vittime di violenza sessuale - nessuno crede.
Viviamo in un clima feroce: un riflusso mefitico che ha come innesco proprio #metoo, i femminismi e i movimenti per i diritti civili. Ogni volta che un gruppo marginalizzato alza la testa, e nello specifico ogni volta che lo fanno le donne o le persone LGBTQ+, prendendo o creando uno spazio nella vita politica, ecco che quasi in automatico arriva il contraccolpo reazionario, volto a rintuzzare ogni rivendicazione con la violenza verbale, fisica o istituzionale. Gli uomini, come gruppo sociale, tendono da sempre a respingere le rivendicazioni delle donne quando queste si fanno più rumorose e minacciano quello che viene percepito come l’ordine naturale delle cose. I flussi elettorali negli Stati Uniti (e non solo) mostrano un orientamento dei giovani maschi, soprattutto bianchi, in favore di figure che fanno di misoginia, transfobia e razzismo una bandiera ideologica sventolata apertamente. Gli incel, che fino a pochi anni fa erano tristi figuri confinati negli anfratti di internet da cui emergevano solo per compiere omicidi o stragi, sono ora una vera e propria forza politica. Non hanno smesso di piangersi addosso, ma ora hanno interi governi dalla loro parte.
“Sorella, io ti credo” non è una richiesta di sbilanciamento giudiziario in favore delle donne, è una risposta alla distorsione cognitiva e culturale che vede le donne come bugiarde e manipolatrici, creature di cui non è il caso di fidarsi, capaci di ogni cosa pur di rovinare bravi ragazzi. È una richiesta di attribuzione di valore alla parola di chi non viene creduto simile a quella insita nello slogan “Black Lives Matter”: certo, tutte le vite valgono, ma per la società le vite delle persone razzializzate valgono un po’ meno. Ramy Elgaml è morto pochi giorni fa in un incidente ancora da chiarire, ma che coinvolge l’arma dei Carabinieri. Se fosse avvenuto il contrario, se a morire fosse stato un membro delle forze dell’ordine, avremmo tutto il governo sugli scudi contro gli immigrati cattivi, appelli a inasprimenti delle pene e nuovi reati inventati sul momento. Invece è morta una persona razzializzata, e sembra che gli unici a protestare per quella morte siano gli abitanti del quartiere Corvetto, in cui Ramy viveva.
Nessuno verrà mandato in carcere senza passare per un processo solo perché le femministe credono alla denuncia di una donna. Lo Stato di diritto esiste, pure se viziato da pregiudizi o inefficienze: i pochi casi che vanno a processo hanno spesso esiti discutibili, si può essere assolti da un’accusa di stupro se una donna lascia la porta del bagno aperta per chiedere dei fazzoletti, da una di molestie se il contatto dura sotto i dieci secondi, o non andare mai a processo se sono trascorsi oltre dodici mesi dal fatto.
“Sorella, io ti credo” nasce anche da qui, da sentenze ridicole e inadeguate, che tutto fanno meno che garantire la persona, da una legislazione che tutela l’aggressore, che non lascia alle sopravvissute il tempo di elaborare il trauma, che assume il consenso anche dove non è stato espresso e non dispone protezioni adeguate per chi è vittima di violenza. Anche la scomparsa di Giulia Cecchettin era stata trattata come un allontanamento volontario dai Carabinieri di Vigonovo: “non in pericolo di vita”, era scritto. Al momento della denuncia, era già morta.
“Sorella, io ti credo” perché le nostre vite e la nostra libertà valgono, e solo chi è in profonda malafede può far finta che la disparità di trattamento non esista. Le tracce di quel dislivello sono tutte intorno a noi, e non basta certo una donna alla Presidenza del Consiglio a farle sparire, soprattutto se quella donna investe così tanto del suo tempo a scagliare frecciate infantili verso chi da sempre lavora per sconfiggere i pregiudizi. “Sorella, io ti credo” perché nessun altro lo farà, e ogni denuncia che arriva a processo è una nuova goccia nel mare troppo calmo, troppo piatto, dell’acquiescenza a un sistema di oppressione.
Il 1522 è il numero gratuito da tutti i telefoni, attivo 24 ore su 24, che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per avere aiuto o anche solo un consiglio chiama il 1522 oppure apri la chat da qui.
(Immagine anteprima: frame via YouTube)