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Sono stato da Emilio Fede

26 Novembre 2012 9 min lettura

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Sono stato da Emilio Fede

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La domenica mattina è bianca, di quella luce opaca che ti entra nel cervello e pulsa negli occhi e rende tutto più vano e rarefatto. Non è giusto accettare supini lo stato delle cose, piegarsi a questo scenario. Sotto quel cielo bianco è solo ributtante disperazione. Un aereo passa rumoroso e rende il tragitto che mi separa dalla stazione della metropolitana ancora più irreale, con quella cantilena che ricorda l'intro dell'intro di Arancia Meccanica. Sotto quell'aereo tutto è spaventosa disperazione, intorno il bianco opaco della domenica e della sinusite, e io sto andando a vedere Emilio Fede che presenta il suo «movimento d'opinione». Mi vedo farlo e rido dentro.

Metro San Babila. L'ingresso del Teatro Nuovo è presidiato da una locandina che mi rassicura sull'effettiva esistenza dell'evento: ore 11, dice, presentazione del nuovo movimento di Emilio Fede Vogliamo Vivere. Nel manifesto dai toni blu e gli accenti verde-terza-età lui, Fede, sorride circondato da ragazzi, lo sguardo in un punto fisso e probabilmente vuoto, la divisa quella d'ordinanza da direttore del telegiornale europeo più vicino ai dispacci delle più ridicole tirannie mondiali. Di fronte alla locandina una troupe televisiva – verosimilmente Servizio Pubblico – cerca di intercettare dei ragazzi che escono dal complesso. «Ma dove andate: non vi interessano i movimenti d'opinione?» - la risposta dei tre, o quattro, è un farfuglio di no e risate. Rido anch'io della domanda quasi strafottente, che vorrebbe stare al gioco di chi Vogliamo Vivere l'ha pensato e stanarne la natura velleitaria.

Mi guardo attorno alla ricerca della sala, scorgo il banchetto per gli accrediti stampa e le magliette e mi riprometto di non tornare a casa senza averne presa una, possibilmente taglia S. Punto verso la platea che mi accoglie col ripetersi ossessionante dell'inno della nuova formazione politica e un silenzio bisbigliato minacciato dai suoni delle riceventi della sicurezza e dai risolini dei giornalisti. «Allora, ti stai divertendo?», «Ammazza» - «Azzanni?», «Mannò, io mordo solo coi potenti. Questo...». È l'ora, ma non è ancora arrivato: mi accomodo appena dietro i posti riservati – ad alcuni dei quali è stato rimosso il cartello, e lasciato per terra – e segnalo la mia presenza qui e ora su Twitter.

Capisco che l'inno di Vogliamo Vivere mi ricorda vagamente l'aria del jingle di Radio Italia. Ragiono sul messaggio forte del brano, che è slogan sui cartelli e citazione dello stesso Fede – come da precisa segnalazione in foto con tanto di firma - : «La dignità è un diritto». Non c'arrivo. Arriva lui. Maglioncino blu notte, camicia bianca, pantaloni comodi grigi, scarpe nere qualsiasi. Il viso bruno. È lui ed è vero. Saluti e applausi, la corsa dei giornalisti verso il palco, le luci e i sorrisi, le prime amarezze.

Non c'è l'atmosfera della 'ridotta', non ci sono superstiti di qualcosa: non c'è proprio nessuna atmosfera. Il Teatro Nuovo, nel centro di Milano, è lo scenario senza spettatori nel quale si dispiega la trama del Paese attraverso la storia della vita di Emilio Fede: come in Forrest Gump l'ex direttore del Tg4 ripercorre le tappe della sua carriera giornalistica, per ricordarci che in ogni momento, tragico e divertente, lui era lì sempre «dentro la notizia» a fare, come oggi, la prima pagina. Pienone o bluff, sintetizza Fede, sono le chiavi per i titoli forti. Mi guardo attorno per la prima volta, la platea sembra suggerire la seconda opzione: da destra, prime file, conto qualche testa d'anziano, un paio di giovani in fondo, soprattutto giornalisti e tecnici audiovisivi. Fede se ne accorge e ringrazia i colleghi accorsi, probabilmente gli unici a riempire i pochi posti occupati. Non è difficile leggere nei volti dei presenti la ragione della loro partecipazione: un paio di anziani incuriositi dalla possibilità di raccontare ai nipoti di averne visto uno famoso, una coppia di ragazzi dalla mimica facciale poco seria, due signore sui settanta, gravi nella loro militanza e bardate di pelo e amore di risulta per Silvio Berlusconi. La platea si arricchirà di qualche altro volto che comunque conosceremo in seguito.

Il discorso del leader è un busto marmoreo – eppure lessicalmente elastico - al Fede giornalista, apprezzato da papi e decani del mestiere, e al Fede uomo, rispettoso delle maestranze domestiche filippine, dei drammi sociali, dell'importanza della beneficenza e della maglieria sartoriale - «Temo di aver lanciato i girocolli», dirà pressapoco. Il ricordo in opere, parole e gesti continuerà per più di un'ora, intervallato da escursioni sulla politica nazionale ossessionate dall'inesauribile dibattito sulle primarie, argomento di poco conto quando in pancia si ha poco più di nulla: credete che alla gente – ricorda – importi qualcosa di Ventola e Bersani? Snocciola dunque due dati, servendosi di un foglietto «perché non me li ricordo» – e d'altra parte parliamo di giornalista leader di movimento candidato a sedere nel Parlamento italiano - : la povertà, gli stipendi, la disoccupazione, nuotare attraverso lo Stretto non basta caro Grillo. Dirà di essere amato, di aver raccolto castagne in corso Buenos Aires fra ali di persone che supplicavano un suo ritorno sulla scena pubblica.

Ritenendo estremamente formativo associare immagini e pensieri nel dispiegarsi di un racconto politico così intenso e vissuto, partirà da adesso una sequenza di foto accompagnate da breve descrizione per esaltare i passaggi cardine dalla mattinata milanese e raccontare lo zeitgeist che vi si nasconde.

Questo è il Fede Redarguente, preciso nelle lamentazioni, che ricorda che l'amore è tutto, che tutti noi siamo «ben d'accordo quando si tratta di appoggiare la lotta all'evasione fiscale» (ciao), che a Monti preferirebbe il catatonico Prodi, che la gente ha paura di usare le banconote, che Fede non è solo Berlusconi, che il suo obiettivo è arrivare a occhi, orecchie e cuori delle povere persone. E lo fa parlando a una platea di disincantati giornalisti, come se questi fossero mille volte tanto, e tutti indigenti vessati da teppisti dei centri sociali in attesa della tua venuta in attesa della tua venuta. Lingua sciolta.

A questo punto il direttore sta introducendo l'artista volontario che ha composto l'inno, Paolo Manila: nome d'arte, voce impostata, grande cuore e destrezza nell'intrattenimento maturata grazie a una lunga carriera da disc jockey – termine pronunciato da Fede con valorosa anarchia linguistica. La figura dell'artista piacione è il simbolo della concezione berlusconiana dell'intrattenimento, entrino i clown, un disimpegno da centro vacanza per professionisti rodati ma ormai imbarazzanti. È monito di fine corsa, di giro di boa, di letto caldo e tisana, ché arrivano i freddi. Manila dichiara di non aver ricevuto un euro né per la voce né per la presenza all'evento – per il quale, precisa Fede, ha speso di tasca sua e solo sua e avrebbe voluto falegnami e idraulici – e tuttavia si barcamenerà come 'inviato' in platea lesto nel saggiare i primi feedback del pubblico. Che non tardano ad arrivare.

Questa foto è chiamata Gente che cerca risposte: per ben due volte il nostro unico rappresentante di popolo e piazza – che per convenzione chiameremo Il Gino - cercherà di intervenire, esprimendo tuttavia lo stesso concetto: non abbiamo idea di chi votare, per la prima volta, Emilio ti prego aiutaci. Il Gino si attarderà osservando un'intervista a sipario calato a due signore prese a giustificare il loro malcelato razzismo di fronte a una telecamera, ma non ho ben capito se lui - Gino - fosse ancora voce di pancia o team intervistante. La presenza scenica, la pronta loquela e la prossemica nel dopo-presentazione mi hanno indotto più di una volta a sospettare una messinscena, specie quando ha giustificato le poche presenze urlando a Fede un ostentato «l'evento non è stato pubblicizzato» abbastanza.

Forse tra le poche persone probabilmente motivate, la signora ha assistito educatamente al lancio della creatura politica fino alla chiusura delle luci e allo scioglimento del gruppo di giornalisti. Il berretto animalier, la sportina da spesa e la posa persa e tendente all'implorazione ne hanno fatto di gran lunga il mio personaggio preferito. Mi piacerebbe incontrarla all'Esselunga.

La storia di questa foto ha del paranormale: le signore ritratte, animate nel loro confabulare parapolitico e convinte nel loro inemendabile sostegno al Berlusconi, sono state l'oggetto di – non esagero – almeno venti scatti. La cattura che vedete qui di sopra è infatti soltanto il risultato migliore che sia riuscito ad ottenere: ho deciso comunque di condividere il risultato finale lasciando che la cattiva messa a fuoco parlasse a tinte mosse della loro evanescenza. Sono venute male.

Un poliziotto e un ragazzo battagliano in manifestazione. Si fermano, tolgono il casco. Si riconoscono entrambi giovani: si abbracciano. «Arrivederci», sipario, musica: è così che Fede lascia la platea, con questo episodio da spot da multinazionale dal volto umano, incalzato con effettivo tempismo dalla sequenza sorriso-saluto-inno. Il resto è scintillio, commozione, applausi: il resto è noi che Vogliamo Vivere. Mi ritrovo ad applaudire, me ne accorgo e ne rido sguaiatamente, vedendomi di nuovo assistere in terza persona allo spettacolo di un uomo che per anni ha devastato l'immagine pubblica del giornalismo, è salpato nei territori dell'indecenza prima a noi ignoti, ha somministrato per anni sostanze tossiche mascherandosi di innocente buffoneria. Mi faccio serio. Un ultimo saluto, e i giornalisti si assembrano attorno al leader circondandolo di domande. Dirà che non vuole spiegare il perché della sua commozione e che i sondaggi lo danno al 3%. Cita Mannheimer appena può.

Mi avvicino al podio e noto con sorpresa che la pila di giornali – scorgo Repubblica e forse Corriere – è sormontata da una copia del Fatto Quotidiano. Decido che è una scelta tutta politica e che è il caso di consegnarla all'immortalità della mia schedina SD.

Menzione d'onore per la t-shirt ufficiale, rigorosamente made in Italy: mi viene consegnata da una ragazza di bella presenza estremamente cortese che neanche per un attimo ho osato immaginare assidua delle residenze berlusconiane. Mi sorride gentile, «Per te una S!»: è nelle mie mani. Ne do notizia in rete e mi disinnamoro di lei facendo le scale – è un mondo difficile.

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In fin dei conti, è così che intendo ricordare Emilio Fede – mani e culo sono suoi - : un uomo attaccato al microfono, la presa forte attorno a un oggetto ormai spento ma col quale ha lottato per anni. Che è ciò per cui probabilmente vorrebbe esser ricordato, lui che nella notizia è «sempre stato». E che sul biglietto da visita, confessa, ha fatto scrivere «Emilio Fede. Giornalista».

Il tragitto verso casa è un respiro pieno, cerco una spiegazione: di ritorno dalla metro riguardo lo stesso angolo di cielo prima bianco opaco, ora più celeste, e penso che fuori dal Teatro Nuovo, in fondo, lo scenario è un po' meno desolante. Ho un pigiama nuovo.

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