Guerre civili, crisi climatica, terrorismo: dalla Somalia al Sud Sudan milioni di persone devastate dalla carestia
9 min letturaUn conflitto che si trascina da anni, la presenza massiccia e aggressiva di al-Shabaab, la carestia, la fame. In Somalia, l’annosa instabilità politica e sociale e la crisi climatica hanno creato una combinazione catastrofica (termine usato dall’ex segretario della Nazioni Unite, Ban Ki-moon). È da anni che la gravità della situazione è evidente. Da anni è anche chiaro che sarebbe - molto probabilmente - peggiorata. La parola in sé è drammatica: carestia. Causata da una siccità considerata la peggiore negli ultimi 40 anni. A pagarne le conseguenze i bambini, prima di tutto. “Oggi in Somalia, ogni singolo minuto di ogni singolo giorno, un bambino viene ricoverato in una struttura sanitaria a causa di una grave malnutrizione acuta”. È l’Unicef a raccontarlo, a rendere visibile attraverso i numeri la gravità del momento. Sempre secondo l’Agenzia dell’ONU quest’anno in Somalia sono già morti 964 bambini, quasi il doppio rispetto allo scorso anno.
Sei le aree più colpite dalla siccità, territori che coprono la maggior parte del paese. Solo un dato per comprendere in modo immediato quanto sta avvenendo (e con quale velocità la fame si sta espandendo): a marzo di quest’anno erano 4,9 milioni i somali colpiti dagli effetti della siccità, il mese dopo erano già 6,1 milioni. Poi si è passati a 6,7 milioni di affamati. E oggi si parla di 7,8 milioni di somali – circa la metà della popolazione - che non hanno sufficiente sostentamento a causa della siccità estrema. Tutto questo nel giro di pochi mesi. Cifre, dunque, destinate a salire se non si trova il modo di intervenire. Subito. E subito appare allo stesso tempo un refrain e una parola priva di senso. È da decenni, infatti, che questo paese è soggetto a periodi di siccità intensa e le immagini dei reportage ci hanno quasi abituato a file infinite di profughi privi di forze che cercano sostegno nei campi allestiti dalle ONG o dalla comunità internazionale; a bestiame riverso a terra e morto di sete; a bambini spauriti e malnutriti.
Alla siccità non si sopravvive. Eppure, in Somalia, non si tratta di una novità. Non si tratta di un evento improvviso che nessuno poteva o ha saputo prevedere. Si tratta di ricorsi storici (non solo climatici). Nel 1992 il paese fu colpito da un grave disastro umanitario, le cui radici, secondo gli osservatori, risiedono nel ventennio di dittatura di Siad Barre (1969-1991). E nel modo in cui questa dittatura finì, con l’avvio di una prima guerra civile. Gli anni di Barre – all’epoca il presidente dittatore aveva un forte alleato nella Russia – significarono cancellazione del dissenso, diritti umani calpestati e anche scelte economiche che non garantirono crescita del reddito e della sicurezza sociale. Negli ultimi tempi della battaglia, per cacciare via il padre padrone, le truppe di Barre si ritirarono verso il sud e il sud-ovest, verso il granaio del paese. Dove ancora oggi si produce l’80% del sorgo consumato dai somali.
Territori distrutti, campagne saccheggiate e un’economia che fissava gli acquisti dei prodotti agricoli a un prezzo fisso a svantaggio dei produttori locali, provocarono una prima grande carestia. E quello che fu definito all’epoca “il peggior disastro umanitario al mondo”. Migliaia e migliaia furono le vittime. Anche se è importante ricordare che le carestie in quella parte del Corno d’Africa si sono verificate a cicli costanti, registrati già dal 1918 – vuoi per la scarsità di piogge, vuoi per incapacità gestionale, vuoi appunto per il perdurare di condizioni politiche instabili. Certo, quella di Barre è stata una stagione cruciale per quello che sarebbe stato il futuro del paese. Una stagione che è stata sinonimo di brutalità, soppressione delle opposizioni, inasprimento delle rivalità tra clan. Tutto questo, dicevamo, portò alla prima guerra civile che, se da un lato significò la caduta di Barre, dall’altro mise in piedi un situazione di instabilità mai risolta. Un vuoto di potere (o meglio, una lotta per il potere) in cui nazionalisti e gruppi islamici - la Somalia è l’unico paese nel Corno d’Africa quasi interamente musulmano - signori della guerra, milizie di clan e sottoclan e altri attori hanno cercato di ritagliarsi fasce di territorio da governare.
Fu con la caduta di Barre che, dopo anni di lotta, il Somali National Movement dichiarò la nascita della Repubblica di Somaliland, un’esperienza con un proprio governo, istituzioni, piani economici – mai riconosciuta a livello internazionale - di relativa stabilità, nonostante i livelli di corruzione e nepotismo, rispetto alla continua tensione civile del resto del paese. E questo nonostante un forte periodo di tensioni e di scontri con il confinante Puntland, altro territorio, anche se meno strutturato del Somaliland – estremità del Corno d’Africa nel Nord-Est della Somalia - costituitosi come entità autonoma nel 1998. I tentativi di tenere insieme il paese attraverso riconciliazioni, trattati, processi di pace voluti perlopiù dalla comunità internazionale, non hanno garantito successi duraturi. Nonostante le missioni UNOSOM I e UNOSOM II (United Nations Operation in Somalia) presenti nel paese proprio all'indomani della caduta di Barre e dall’inizio della guerra civile, o la successiva AMISON (African Union Mission in Somalia) sostituita nell’aprile di quest’anno dalla ATMIS (African Union Transition Mission in Somalia), “progettata per essere più agile, mobile, flessibile e configurata per disporre di forze di reazione rapida per rispondere meglio alle emergenti minacce alla sicurezza”.
La transizione a cui si fa riferimento – e che dovrebbe durare fino al 2024 - dovrebbe aprire la strada al totale trasferimento della responsabilità della sicurezza nel paese alle forze governative. Gli occhi e le speranze sono puntate sul capo di Stato, Hassan Sheikh Mohamud, recentemente eletto, sul nuovo primo ministro e sul suo governo. Sulla capacità reale di combattere due problemi chiave per cominciare a rendere il paese vivibile per i suoi cittadini: la corruzione e il terrorismo. Quanto sarà complicato (e possibile) in un paese dove agiscono due forze: il Governo Federale e i sei Stati membri?
Sono stati i persistenti conflitti tra queste due forze ad aver bloccato le riforme necessarie e la capacità di stabilire la condivisione o la delega di poteri e uso delle risorse. Ma il problema enorme rimane l’espansione di al-Shabaab ( gioventù, in arabo), gruppo vicino ad al-Qaeda, le cui motivazioni sono assai chiare: liberare la Somalia da forze straniere, collegate tra l’altro alla religione cristiana, implementare la Sharia, occupare pian piano tutto il paese. Nate nella cerchia dell’Unione delle Corti Islamiche (ICU), cominciarono a guadagnare visibilità e potere nel 2004, anche se l’inizio delle attività sul campo si fanno risalire al 2006. Sono note le azioni suicide e gli assalti nella capitale Mogadiscio contro i soldati etiopi, venuti in aiuto al Governo di Transizione nazionale, contro lo stesso governo di transizione, contro edifici pubblici e in luoghi affollatissimi e contro i vari contingenti di pace. E sono tristemente noti gli attacchi compiuti fuori dal paese. Come quello al Garissa University College a Nairobi in Kenya (2 aprile 2015) dove furono uccisi 151 studenti non musulmani.
Nel 2020 – nonostante alcuni successi delle forze dei contingenti ONU - le milizie occupavano ancora almeno il 20% del territorio. Soprattutto nelle zone centrali e a Sud del paese, dove al-Shabaab ha dato vita a un governo parallelo. La sua forza maggiore rimane la capacità di attirare, appunto, i giovani tra le sue fila. Giovani che non hanno alcuna possibilità di trovare un impiego, che forse non hanno mai frequentato la scuola, che non hanno conosciuto altro al di là dell’incertezza. Alcuni di loro hanno partecipato agli ultimi recenti attentati, domenica 27 novembre. Presi di mira una prigione gestita dai servizi di sicurezza e un noto hotel di Mogadiscio, Villa Rosa, situato non lontano dal palazzo presidenziale, e frequentato regolarmente da politici e ufficiali governativi. Uno dei più gravi attentati compiuti nella capitale somala. Almeno dieci i morti e decine di feriti, tra cui il ministro della sicurezza, Ahmed Mohamed Doodishe. Insomma, neanche il tempo di riprendersi dagli attacchi di agosto.
Che le milizie di al-Shabaab non possano essere battute sul campo (o che sia molto difficile farlo e questo nonostante la presenza delle “forze di pace”) lo sa bene il presidente (e lo sa bene il primo ministro da lui nominato) che, mentre nel suo primo mandato del 2012 dichiarava che in pochi mesi avrebbe sconfitto il gruppo terroristico, oggi – a dieci anni di distanza e dopo decine e decine di attentati, compreso l’assedio al palazzo presidenziale nel 2015 – ha pensato bene di farsi amico l’ex nemico. Nel nuovo Governo, il ministro degli Affari Religiosi è Mukhtar Robow, ex leader e portavoce di al-Shabaab e tra gli uomini più ricercati dagli 007 statunitensi. Una mossa strategica salutata con favore dal contro-terrorismo ma che da sola non basta per affrontare una crisi di proporzioni enormi. Prima di tutto quella economica e sociale. Quella che non fa rumore ma che, spesso, fa più vittime di quanto possano farne le armi. Una carestia che non ha confronti da quarant’anni a questa parte, dicono gli esperti. Da cinque anni la stagione delle piogge rimane secca, la pioggia non cade o quegli scrosci improvvisi non bastano a ristorare la terra e gli uomini.
Come dicevamo la Somalia non è nuova a periodi di intensa siccità – come quella del 2011 che tuttora il paese ricorda: morirono circa 260.000 persone, la metà erano bambini. Ma questa, dicono gli esperti, è peggiore. In Somalia 7 persone su 10 vivono in condizioni di povertà, l’economia dipende in massima parte dalle importazioni e soprattutto conta sulle rimesse degli espatriati. L’export contribuisce solo per il 14% al PIL. È ancora l’agricoltura, e soprattutto il bestiame, che guida (60% del Prodotto Interno Lodo) l’economia somala. E dunque siccità vuol dire carenza di cibo, distruzione, morte. Senza contare che i prezzi dei beni di primo consumo negli ultimi mesi sono saliti del 36%. Gli alti i livelli di ineguaglianza tra i cittadini, rendono poi ancora più visibile e inconcepibile il dramma che vive la folta comunità di agricoltori, pastori o piccoli commercianti che di queste attività vivono. Insomma, una serie di circostanze che ha posto il paese - ormai da anni - negli indici di sviluppo più bassi al mondo.
È così che aumenta anche il numero dei profughi. Oggi – secondo i dati in continuo aggiornamento dell’UNHCR – ci sono oltre 836.300 rifugiati e richiedenti asilo somali in tutto il mondo (con l’80% di loro ospitati in paesi limitrofi: Kenya, Uganda, Etiopia, Yemen); oltre 33.600 all’interno del paese e quasi 3 milioni di sfollati. Va anche ricordato che l’intenso periodo di siccità sta interessando non solo la Somalia ma anche le altre regioni del Corno d’Africa. Secondo l’IGAD, Organizzazione per lo sviluppo regionale, più di 50 milioni di cittadini di Somalia, Kenya, Uganda, Djibouti, Sudan e Sud Sudan sono alle prese con una grave insicurezza alimentare. Ma, come spesso accade, anche in quest’ultimo caso – il Sud Sudan – la fame non è causata tanto dall’impossibilità della terra a dare frutti, quanto dalla crudeltà dell’essere umano. È una vera e propria tattica quella che starebbero usando il governo sud sudanese e le milizie alleate per affamare la popolazione. Lo afferma un circostanziato report che mostra quanto il conflitto civile scoppiato nel 2013 (a soli due anni dalla conquistata indipendenza dal Sudan) stia portando il paese al collasso. Sono i cittadini a pagare le spese di un conflitto ormai decennale che vede contrapposte le forze governative - South Sudan People’s Defence Forces (SSPDF) - e i gruppi di opposizione. Stupri, distruzione di beni, coltivazioni e proprietà, furto del bestiame, violenze di ogni tipo e la ”fame provocata” sono azioni quotidiane che stanno mettendo in pericolo la vita di quasi 8 milioni di persone. A tutto questo male causato dall’uomo si vanno ad aggiungere gli effetti della crisi climatica che qui si sta traducendo in forti alluvioni che stanno distruggendo i pochi campi rimasti da coltivare. Come ricorda il report, risultato di un anno di investigazioni e realizzato sotto la supervisione di Global Rights Compliance, “Il diritto alla vita e il diritto all'alimentazione sono chiaramente protetti dal diritto internazionale che proibisce chiaramente la fame dei civili come metodo di guerra”. E continua affermando che secondo il diritto penale internazionale una condotta diretta a provocare la fame nella popolazione può costituire un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità.
Ma riallacciamoci alla questione climatica. Ai recenti incontri della COP27 si è sottolineato che tre paesi messi insieme, Somalia, Etiopia e Kenya, sono responsabili di appena l’1,2% delle emissioni di gas serra, eppure sono quelli che stanno soffrendo più di altri gli effetti del cambiamento climatico. Si parla di soldi, di quanti ne occorrerebbero per agire. Un portavoce dell'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) ha affermato che le stime del fabbisogno per combattere la fame in Somalia sono aumentate vertiginosamente dall'inizio dell'anno, da 1,46 a 2,26 miliardi di dollari, di cui l'80% è stato necessario per combattere l'impatto della siccità. Non sono bastati, ne occorreranno altri. Occorrerà più aiuto. Sarà sufficiente? Il presidente Hassan Sheikh Mohamud in una recente intervista afferma che se pure altri aiuti dovessero arrivare non è detto che potrebbero essere distribuiti dappertutto. Potrebbero rimanerne escluse le aree e i villaggi dove è forte la presenza dei nuclei di al-Shabaab che ne ostacolerebbero la distribuzione. È difficile discernere quanta propaganda e quanta verità ci sia in queste affermazioni. Quel che è certo è che fino a quando non ci sarà pace sarà difficile, molto difficile, affrontare efficacemente la carestia.
Immagine in anteprima: Frame video BBC via YouTube