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La sfida dello smart working come nuova normalità del lavoro

27 Luglio 2020 16 min lettura

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La sfida dello smart working come nuova normalità del lavoro

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Tra gli impatti maggiori della pandemia di nuovo coronavirus sulla vita di ogni giorno, c’è sicuramente quello che riguarda le modalità di lavoro di milioni di persone. Per contrastare e ridurre la diffusione del virus, in base alle nuove misure di distanziamento e blocchi delle attività stabilite dai governi, moltissime persone hanno smesso di recarsi in ufficio e iniziato a lavorare da casa. 

Grandi aziende con migliaia di dipendenti a partire da febbraio hanno “chiuso” le loro sedi e iniziato a riprogrammare il lavoro quotidiano da remoto. In una nota del 12 maggio scorso, Twitter ha comunicato che nel caso in cui i propri dipendenti vogliano continuare a lavorare da casa anche dopo la pandemia, potranno farlo per sempre. Anche altre grandi società hanno previsto di lasciare gran parte dei propri dipendenti a lavorare dalla propria abitazione per i prossimi mesi e anni e, in caso, anche dopo la fine della pandemia in maniera permanente. Tra queste ci sono ad esempio Facebook, Shopify (tra le principali piattaforme online per gestire siti di e-commerce), il gruppo industriale francese PSA (a cui appartengono i marchi automobilistici Peugeot, Citroën, DS, Opel), la società di software internazionale SLACK, la società tecnologica giapponese Fujitsu, Google (che ha predisposto anche un rimborso di 1000 dollari a dipendente per l'acquisto di attrezzature per lavorare da casa), ecc.

Una scelta “obbligata” che, se diventerà davvero la nuova normalità del lavoro e non l’eccezione, pone sfide importanti con conseguenze a livello psicologico, culturale, ambientale e urbano. 

Prima della pandemia, lavorare dentro le mura domestiche era un’eccezione. Secondo Eurostat, “nel 2019 il 5,4% degli occupati nell'Unione europea di età compresa tra 15 e 64 anni lavorava abitualmente da casa. Questa quota è rimasta costante intorno al 5% nell'ultimo decennio. Tuttavia, nello stesso periodo, la percentuale di persone che a volte ha lavorato da casa è aumentata: dal 6% nel 2009 al 9% nel 2019”. Inoltre, sempre nello stesso periodo, a lavorare prevalentemente da casa sono stati soprattutto gli autonomi e meno i dipendenti, specifica ancora l’ufficio statistico dell’Unione europea. Nel 2019, Paesi Bassi e Finlandia erano in cima alla classifica degli Stati membri dell’Ue per il lavoro da remoto. Subito dietro venivano Lussemburgo e Austria. Alle ultime posizioni, insieme a Cipro, Romania e Bulgaria, spiccava anche l'Italia, ampiamente sotto la media europea.

Ora, con l’arrivo del nuovo coronavirus e le misure di lockdown, in molti paesi questa percentuale è salita notevolmente. In base alle stime di Eurofound (la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro), la pandemia ha costretto al lavoro da casa in media circa il 40% dei cittadini europei. 

Percentuale dei lavoratori che hanno iniziato il telelavoro a causa della pandemia di COVID-19, via Eurofound

In Italia, dieci giorni dopo la notizia del primo caso di COVID-19, il governo Conte II, tra le varie misure è intervenuto sull'accesso al cosiddetto lavoro da remoto (disciplinato dalla legge n.81 del 2017) stabilendo che questa modalità potesse "essere applicata, per la durata dello stato di emergenza (...), dai datori di lavoro a ogni rapporto di lavoro subordinato". A giugno, poi, l’Istat ha documentato che “nei mesi immediatamente precedenti la crisi (gennaio e febbraio 2020), escludendo le imprese prive di lavori che possono essere svolti fuori dai locali aziendali, solo l’1,2% del personale era impiegato in lavoro a distanza”, mentre tra marzo e aprile questa quota è salita all’8,8%. L’Istituto di statistica ha spiegato che i settori più coinvolti sono stati "i servizi di informazione e comunicazione (da 5% a 48,8%), le attività professionali, scientifiche e tecniche (da 4,1% a 36,7%), l’istruzione (da 3,1% a 33%) e la fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata (da 3,3% a 29,6%)”.

Dopo la fine del lockdown (maggio-giugno 2020), l’Istat ha specificato che “la quota di lavoratori impiegati a distanza pur in declino resta significativa (5,3%), soprattutto nelle grandi e medie imprese (25,1% e 16,2%)”. Risultati che “suggeriscono che grazie all’implementazione di soluzioni informatiche e organizzative, una fetta di imprese italiane è riuscita nel giro di poche settimane a estendere forme lavorative in precedenza limitate a una piccola minoranza a quote considerevoli di personale”. Per quanto riguarda, invece, l'utilizzo del lavoro da remoto nella pubblica amministrazione si è arrivati «a punte del 90% nelle amministrazioni centrali e a oltre il 70% nelle Regioni», ha comunicato il ministero della Pubblica Amministrazione.

Quota di personale impiegato in compiti che possono essere svolti in smart working, per sezione di attività economica. Anno 2020, valori percentuali. Via Istat

È però utile fare una precisazione, come spiegato da Sebastiano Fadda, presidente dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (INAPP): «Quello che si è fatto in Italia non è un vero e proprio smart working ma più semplicemente si è trattato di una trasposizione delle mansioni: le stesse che prima venivano svolte in presenza ora invece vengono fatte nello spazio della propria casa: è stato più un telelavoro che uno smart working». Il "lavoro agile" invece, specifica il Sole 24 Ore, si basa su "un approccio manageriale basato sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati". Si tratta quindi di "un’organizzazione del lavoro che dia alle persone la possibilità di auto-organizzarsi nel dove-come-quando per svolgere l’attività".

Ma il telelavoro può essere un primo passo verso il raggiungimento di un vero e proprio smart working. Intanto, con il "decreto Rilancio"approvato a maggio dal Consiglio dei ministri e convertito in legge in Parlamento il 16 luglio – nel settore pubblico la modalità del lavoro da remoto è stata estesa fino e "non oltre il 31 dicembre 2020". Nel privato, invece, i dipendenti "che hanno almeno un figlio minore di 14 anni, a condizione che nel nucleo familiare non vi sia altro genitore non lavoratore o beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell'attività lavorativa" potranno continuare a lavorare da remoto fino al prossimo 31 luglio.

Il governo, tuttavia, intende prolungare la possibilità di lavorare da casa ulteriormente. Per quanto riguarda i dipendenti statali, la ministra della Pubblica amministrazione, Fabiana Dadone, ha affermato che «dall'1 gennaio 2021 si punta a portare il 60% dei dipendenti pubblici in smart working. Il tutto accompagnato da un monitoraggio per l'assistenza in questa fase di riorganizzazione». Nel privato, invece, Cesare Avenia, presidente di Confindustria Digitale, ha espresso «profonda preoccupazione rispetto alla possibile scadenza al 31 luglio prossimo della procedura semplificata per il ricorso al lavoro agile» e chiesto all'esecutivo di considerare «l’opportunità di confermare le semplificazioni normative (...) per aprire un percorso strutturale per l’implementazione dello smart working». Pochi giorni fa, Francesca Puglisi, sottosegretaria al ministero del Lavoro, ha annunciato che il governo sta pensando «di inserire una norma di proroga anche per il lavoro privato nel prossimo decreto che faremo per il prosieguo degli ammortizzatori sociali».

Da parte poi dei lavoratori, in base a diverse indagini e sondaggi, sembrerebbe che ci sia una volontà di proseguire a lavorare da remoto – con diverse modalità – anche dopo la fine della pandemia, ma in base a nuove regole e tutele. Il passaggio improvviso di un gran numero di persone dal lavoro in ufficio a quello in casa, infatti, ha posto ad aziende e dipendenti una serie di sfide e difficoltà da affrontare.

Innanzitutto, come spiega in un rapporto il Centro comune di ricerca (il servizio scientifico interno della Commissione europea), è necessario considerare il fatto che prima dell'arrivo del virus in alcuni settori la quota di persone che lavoravano (a volte o spesso) da casa era superiore al 20%, al 30% e in alcuni casi al 40%. Ad esempio, nell'Information & Communication Technology (ICT), nelle attività educative ed editoriali, nelle telecomunicazioni, nelle finanza, ecc. Al contrario, quote di persone che praticavano il lavoro da remoto erano piuttosto basse nei servizi amministrativi e nella produzione di materiali e oggetti, per motivi anche pratici legati alla natura stessa del lavoro.

Prevalenza di lavoro da remoto per tipologia di lavori in Ue (valori in %), via Centro comune di ricerca

Inoltre, un'ulteriore differenza si nota sul reddito. Molti lavoratori altamente qualificati, ben pagati, che svolgono la maggior parte del loro lavoro con un computer e hanno alti livelli di autonomia erano già abituati alla modalità da remoto e quindi hanno probabilmente saputo rispondere meglio alla crisi. Al contrario di quelli a basso reddito, che lavorano nella produzione o hanno scarse competenze digitali. Una dinamica riscontrata anche negli Stati Uniti d'America.

In questo quadro, secondo il rapporto del Centro comune di ricerca, la pandemia ha aggravato le disuguaglianze tra coloro che possono facilmente passare a lavorare da casa e quelli che non possono, i quali, secondo uno studio del Fondo monetario internazionale (FMI), hanno una possibilità maggiore di riduzione di ore di lavoro o di retribuzioni o di essere licenziate. Tra i motivi di questa situazione, ci sono le non adeguate strutture tecnologiche delle aziende che rendono difficile una riorganizzazione del lavoro, il fatto che in diversi paesi dell'Ue molti dipendenti non avevano precedenti esperienze di lavoro da remoto, né un'adeguata competenza digitale.

Queste criticità, nel breve termine, avvertono gli autori del rapporto, possono portare a possibili implicazioni negative ad esempio sull'occupazione e sul benessere psichico e fisico degli stessi lavoratori, in particolare negli Stati dove la quota di persone che lavorano da casa, prima della pandemia, era bassa.

In base a un sondaggio pubblicato a luglio da Lenovo – realizzato tra l'8 maggio e il 14 maggio 2020 a cui hanno partecipato oltre 20mila lavoratori da Stati Uniti, Brasile, Messico, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Cina, India e Giappone – la produttività per il 63% degli intervistati non ha risentito del lavoro da remoto, anzi le persone si sono sentite più produttive rispetto a quando andavano in ufficio. Al contempo, il 71% del campione ha riscontrato un peggioramento della propria situazione a livello fisico e mentale: mal di schiena, mal di testa, affaticamento degli occhi e difficoltà a dormire.

I lavoratori intervistati hanno segnalato anche altre problematiche: riduzione dei contatti personali con i colleghi, una maggiore difficoltà di separare la vita lavorativa da quella domestica, un aumento di chiamate di gruppo e una maggiore difficoltà nel collaborare da remoto. Inoltre, in totale il 72% degli intervistati si è detto preoccupato (con gradazioni differenti) del rispetto della propria privacy. Su questo aspetto, Rani Molla su Recode scrive che il lavoro da casa ha sviluppato anche l'interesse di alcune aziende – preoccupate della possibile perdita di informazioni riservate o più generalmente di non poter supervisionare le persone al lavoro – a investire nella tecnologia di sorveglianza dei propri dipendenti. «È grande il timore di perdere il controllo», ha detto Stephanie Wernick Barker, presidente di Mondo, agenzia nazionale di selezione e ricerca del personale con sede a New York. «[Il lavoro da casa, ndr] È un grande cambiamento per le persone con valori aziendali della vecchia scuola».

Un possibile nuovo presente prossimo, in cui il lavoro da casa potrebbe diventare una nuova normalità, ha infatti costretto a ripensare certezze acquisite nel tempo. A partire dall'idea di ufficio. A fine aprile il CEO della Barclays, Jes Staley, ha dichiarato che è prevista «una modifica a lungo termine del modo in cui pensiamo alla nostra strategia di localizzazione... l'idea di mettere 7.000 persone in un edificio potrebbe essere un ricordo del passato». Intervistato dalla BBC, André Spicer, professore di comportamento organizzativo presso la Cass Business School dell'Università di Londra, ha previsto una "riduzione radicale" del tempo che le persone trascorreranno in ufficio, specificando però che questo spazio di lavoro non scomparirà del tutto. Secondo Spicer infatti gli uffici saranno degli hub che ospiteranno i senior manager, mentre i dipendenti vi si recheranno una o due volte alla settimana per incontrare i propri capi. 

Un modo differente di pensare, progettare e vivere che coinvolgerà anche le abitazioni, visto che le persone, con il lavoro da casa, vi passeranno molto più tempo. Per l'architetta Manuela Deiana, sentita da AGI, la casa prima del lockdown era pensata soprattutto «come un luogo dove andare solo a dormire». «Costretti allo smart working invece ci siamo resi conto che dobbiamo usare la casa per vivere bene», continua Deiana, che include anche uno spazio ad esempio «dove lavorare nelle condizioni giuste». Quello di cui c'è bisogno, quindi, è una «rivoluzione nella progettazione» che consista nel «ripensare i rapporti illuminanti, e l’areazione degli spazi che devono essere vissuti durante tutta la giornata, non solo la sera». Secondo l'architetta statunitense Melanie Turner le persone, infatti, potrebbero desiderare sempre di più nella propria casa spazi più definiti mentre lavorano, separati da quelli dove passare il tempo libero, in privacy con la propria famiglia.

Cambiamenti che potranno avere impatti sulle grandi città. Ad esempio, metropoli dove si concentrano un gran numero di aziende e uffici  – e quindi tutto un mercato legato ad affitti, ristorazione e negozi – dovrebbero fare i conti con il fatto che migliaia di persone non si sposteranno più per raggiungere il luogo di lavoro. L'esempio è quello di Milano, ma anche di Roma, con bar e tavole calde vuote in più quartieri della città.

Per Nicholas Bloom, professore al Dipartimento di Economia alla Stanford University, il passaggio massiccio verso un lavoro da casa, tra i vari impatti sociali, porterà anche a un blocco delle crescita dei grandi centri urbani: «Le più grandi città degli Stati Uniti hanno visto una crescita incredibile dagli anni '80 quando gli americani più giovani e istruiti si sono riversati nei centri rivitalizzati delle città. Ma sembra che questa tendenza si invertirà nel 2020, con un passaggio delle attività economiche fuori dai centri urbani». Secondo l'esperto tutto questo avrà effetti positivi per i sobborghi e le aree rurali, con la possibilità di lavorare anche a migliaia di km di distanza dalla sede della propria azienda. Inoltre, i futuri investimenti in strade, trasporti pubblici, energia e telecomunicazioni dovrebbero prevedere la probabilità che più persone lavorino da casa.

Come avverte però Stephen Harris su The Conversation, visto che gli impatti del nuovo coronavirus sulle nostre vite sono al centro dell'attenzione pubblica, c'è anche il rischio di enfatizzare eccessivamente il nostro modo di vivere e pensare le città: "(...) La storia ci mostra che i modi in cui le organizziamo sono spesso resistenti ai cambiamenti improvvisi, anche in risposta a eventi catastrofici". L'importante comunque è che i governi siano attenti ai possibili cambiamenti in arrivo, "abbinando tecnologia e opportunità con una visione della città sostenibile dal punto di vista ambientale e socialmente giusta".

Proprio l'ambiente è un altro tema su cui le nuove modalità di lavoro avranno diversi impatti. Meno persone che si spostano verso gli uffici significa meno pendolarismo quotidiano e meno congestione del traffico. Ken Gillingham, economista energetico e ambientale dell'Università di Yale, ha dichiarato a Deutsche Welle che dall'inizio della pandemia «l'inquinamento è decisamente diminuito» grazie a una combinazione di diversi fattori: «Meno mezzi di trasporto, riduzione delle attività delle industrie, dei grandi edifici commerciali e un maggior numero di persone rimaste a casa».

Tuttavia, è necessario specificare che la sostenibilità ambientale legata al lavoro da casa è un tema con molte variabili, avverte la BBC: "La principale è che i modelli di consumo di energia in tutto il mondo sono incredibilmente vari. Ad esempio, in Norvegia, oltre il 40% dei veicoli venduti nel 2019 era elettrico, con un aumento di un terzo rispetto all'anno precedente. L'impatto dei pendolari in Norvegia e in tutti i paesi nordici è di gran lunga inferiore rispetto ad altre parti del mondo che dipendono ancora fortemente dalla benzina, come il Regno Unito e gli Stati Uniti. E molte grandi città che consumano molta energia non si affidano alle auto per i pendolari, ma piuttosto ai trasporti pubblici. Ognuno di questi singoli elementi sposta il calcolo su quanto lavorare da casa sia più sostenibile in ogni città, regione o paese".

Sulla rivista Scientific American, la giornalista Ainslie Cruickshank spiega che, sulla questione ambientale, "lavorare da remoto ha maggiori probabilità di avere un vantaggio se, ad esempio, sostituisce il pendolarismo in auto". Ma se invece lavorare da casa "comporta un maggiore utilizzo dell'elettricità in una zona e richiede la disponibilità di ulteriori centrali a carbone" la riduzione delle emissioni inquinanti che proviene da un minor utilizzo dell'auto diventerebbe inutile. Dall'altra parte, invece, "se quell'elettricità nuova proviene da energia rinnovabile, il telelavoro potrebbe offrire riduzioni delle emissioni in maniera più significativa". Cruickshank aggiunge comunque che potrebbero essere necessari mesi per indagare i dati ricavati da questo "esperimento forzato di lavorare da casa" dovuto alla pandemia per ottenere un quadro più chiaro degli effetti positivi del lavoro da remoto sull'ambiente.

In Italia, lo scorso aprile, l'Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile (ENEA) ha pubblicato un'indagine sui dipendenti della Pubblica amministrazione che sono stati in telelavoro e/o in lavoro agile dal 2015 al 2018 per capire in che modo abbia inciso sulla loro vita. Dal rapporto è emerso che "il tempo dedicato agli spostamenti casa-lavoro-casa risulta essere mediamente di 1 ora e 30 minuti al giorno, in linea con quanto riportato nelle indagini ISTAT condotte a livello nazionale". Così, "il tempo dedicato agli spostamenti lavorativi" è "un aspetto predominante nella gestione della giornata", motivo per cui "la modifica delle abitudini di mobilità" può "incidere sensibilmente sull’organizzazione dei tempi quotidiani (...)".

Inoltre, l'indagine ha valutato anche i consumi e le emissioni evitate, nel periodo preso in esame, da parte dei dipendenti e dalle amministrazioni coinvolte. Dalla stima ricavata "risultano, nel quadriennio, percorrenze complessive evitate pari a circa 46 milioni di km, emissioni di CO2 evitate per circa 8.000 tonnellate e un risparmio per il mancato acquisto di carburante di circa 4 milioni di euro". Per questo motivo, afferma l'ENEA, "il ricorso al lavoro a distanza, immaginato come pratica su larga scala, si presta a essere considerato anche per i vantaggi che è in grado di apportare alla collettività. Appaiono infatti significativi i margini di intervento sui territori per il contenimento di fenomeni locali di congestione del traffico urbano, e dell’inquinamento atmosferico, che si affiancano a quelli di contenimento dei consumi di fonti fossili e di lotta ai cambiamenti climatici".

Come abbiamo visto prima, però, il passaggio repentino di milioni di persone a lavorare da casa presenta anche risvolti negativi: rafforzamento delle disuguaglianze, una giornata lavorativa più lunga essendo i lavoratori sempre potenzialmente "collegati" per rispondere a mail e messaggi, una difficile scissione tra giornata lavorativa e vita familiare e personale, solitudine e in alcune casi depressione dovute alla mancanza di interazione e di confronto quotidiani con colleghi in un ambiente di lavoro.

Tutte questioni di cui i governi, mentre la pandemia nel mondo non si arresta, dovranno farsi carico. Per il presidente dell’INAPP Sebastiano Fadda, per evitare di esacerbare le disuguaglianze già presenti nel mercato del lavoro, "servono politiche di sostegno al reddito per le fasce più deboli ma, soprattutto, politiche di diffusione delle nuove tecnologie e di formazione professionale per i lavoratori più vulnerabili affinché il lavoro da remoto sia un’opportunità per tutti e non una scelta per pochi". Anche perché in Italia, come sottolineato dall'Istat nel suo ultimo rapporto annuale, "carenze nelle capacità digitali possono, da un lato, ridurre la velocità di adattamento del nostro mercato del lavoro e, dall’altro, aumentare il rischio di segmentazione e diseguaglianza. I dati Eurostat evidenziano un ritardo del nostro Paese, che registra una maggiore concentrazione di occupati nella parte bassa delle abilità digitali – nel 2019 il 39% non ha nessuna o scarsa abilità – rispetto alla media Ue (31%); il divario è più marcato se si considerano i paesi nord europei". Ma lo sviluppo di competenze digitali è una questione aperta nell'intero vecchio continente: nel 2019 complessivamente nell'Ue meno del 25% delle imprese ha fornito formazione tecnologica al proprio personale.

Secondo il garante della Privacy, Antonello Soro, lavorare da casa "potrebbe ragionevolmente divenire una forma diffusa, effettivamente alternativa, di organizzazione del lavoro", ma è necessario impedire "ogni uso improprio": "Andranno seriamente affrontati e risolti tutti i problemi emersi in questi mesi: dalle dotazioni strumentali alla garanzia di connettività, dalla sicurezza delle piattaforme alla effettività del diritto alla disconnessione, senza cui si rischia di vanificare la necessaria distinzione tra spazi di vita privata e attività lavorativa, annullando così alcune tra le più antiche conquiste raggiunte per il lavoro tradizionale".

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Da parte del governo, la ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, in un'audizione in Commissione infanzia del 21 luglio scorso, ha dichiarato di voler valorizzare la modalità del lavoro da casa «che ha dimostrato, soprattutto negli ultimi tempi, preziose potenzialità di sviluppo», specificando però che questo «strumento dovrà essere ben strutturato» attraverso un rafforzamento del "diritto alla disconessione" e per evitare anche che si «trasformi da importante misura di conciliazione vita-lavoro, in una condizione di maggior aggravio per le donne, costrette a moltiplicare le energie per ottemperare contestualmente a impegni lavorativi e carichi di cura familiari». Inoltre, riporta l'Ansa, sempre la ministra ha comunicato ai sindacati che sarà convocato un tavolo, la prima settimana di agosto, dedicato proprio al lavoro da casa.

Il punto, secondo Francesco Seghezzi, presidente di Fondazione Adapt ed esperto di tematiche legate al lavoro, è di decidere o meno se fare "una scelta di natura puramente economica e organizzativa": "È comprensibile che ci possa essere il timore di un abuso dello strumento (...), ma questo timore è tale se inserito in una logica organizzativa gerarchica che proprio il moderno lavoro agile dovrebbe superare. Ed è proprio a questo livello che si gioca una delle partite centrali post-emergenza: se sia ancora necessaria, sia per i lavoratori che per le imprese, l'adozione di modelli organizzativi novecenteschi o se invece occorra ripensare i vincoli fiduciari tra persone e quindi gli strumenti che li regolavano".

Immagine in anteprima via Pixabay.com

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