La caduta di Assad e il fallimento di Putin
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Il 30 settembre 2015 una notizia straordinaria viene annunciata a Mosca, immediatamente pubblicata dalle agenzie ufficiali di stampa, per poi poco dopo esser trasmessa in televisione, a reti unificate: il presidente Vladimir Putin ha convocato una seduta straordinaria della Camera alta del paese, il Consiglio della Federazione, per ottenere l’autorizzazione a impiegare le forze armate in Siria, dopo la richiesta venuta da Bashar al-Assad. L’ISIS all’epoca sembrava aver la meglio nello scacchiere mediorientale, controllando il nord-est della Siria e l’Iraq settentrionale, e di lì a poco vi sarebbe stato l’attentato al Bataclan, la sala concerti di Parigi: l’operazione militare russa sembrava poter essere un’occasione anche per l’immagine della Federazione Russa come unica potenza a opporsi sul campo al terrorismo islamista.
In realtà la lotta era guidata da motivazioni strategiche, legate alla tenuta dell’allora ultraquarantennale regime della famiglia Assad, considerato alleato prezioso per il Cremlino non solo in Medio Oriente ma anche nel Mediterraneo già in epoca sovietica, con la firma nel 1980 del trattato d’assistenza militare tra URSS e Siria. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica per quasi un quindicennio la presenza russa in Siria fu alquanto sporadica, per poi vedere i rapporti rinnovarsi dalla fine degli anni Duemila, dopo la guerra in Georgia: il governo di Damasco sostenne Mosca nel conflitto e riconobbe poi successivamente, nel 2018, l’indipendenza di Abkhazia e Ossezia del sud, seguendo la Russia e pochi altri paesi, un segnale di vicinanza a un partner sempre più presente con propri consiglieri militari e personale tecnico nelle basi presenti a Tartus (sede già della Squadriglia navale sovietica del Mediterraneo) e a Hmeimim, quest’ultima costruita nel corso del 2015 direttamente dal Ministero russo della Difesa.
L’intervento di Mosca nella guerra civile siriana, scatenatasi in seguito alle Primavere arabe e alla ribellione contro il regime, avviene attraverso l’impiego degli effettivi regolari dell’esercito russo e di una nuova formazione, il cui esordio era avvenuto nel sud-est dell’Ucraina, la compagnia militare privata Wagner, tra le milizie e le forze protagoniste nell’immaginario collettivo del sanguinoso conflitto, dove armate di irregolari si contrapponevano a truppe, militanti provenienti da vari paesi del mondo si arruolavano nelle fila dell’ISIS o dell’YPG, in un massacro per procura senza alcuna pietà per i civili.
Per il Cremlino, però, immediatamente emergono motivazioni interne, dovute al flusso di cittadini russi provenienti dalla repubbliche del Caucaso settentrionali e di immigrati dall’Asia centrale radicalizzatisi su posizioni islamiste radicali e approdati in Siria per partecipare alla jihad terrorista. Un’ondata iniziata anche prima dell’intervento diretto (e dichiarato) russo, a cui hanno fatto seguito anche donne e intere famiglie giunte nei territori controllati dallo Stato Islamico, spesso attratte dall’utopia distopica del vivere secondo i precetti fondamentalisti. Zhenya Berkovich, drammaturga russa, ha raccontato la tragedia delle donne andate per amore in Siria nel suo Finist jasnyj sokol,(Finist, il chiaro falco), spettacolo prima premiato con la prestigiosa Maschera d’Oro e poi diventato capo d’accusa per una condanna a sei anni di galera per esaltazione del terrorismo, sorte condivisa con la sceneggiatrice Svetlana Petriichuk.
Il disimpegno russo in Siria, 2017-2024
La pandemia da Covid e la crescente attenzione verso l’Ucraina, sfociata nell’aggressione militare ancora oggi in corso, hanno derubricato la Siria nell’agenda globale di Vladimir Putin. La situazione sembrava essersi stabilizzata in un condominio tra le forze sul campo, con il regime di Bashar al-Assad sopravvissuto grazie all’intervento di Russia e Iran, una parte delle milizie armate d’opposizione sostenute da Turchia, Qatar e Emirati Arabi, e la presenza statunitense nella zona orientale del paese.
Di fatto già dal 2017, quando il presidente russo si recò in visita ufficiale in Siria dichiarando la missione conclusa, si era andata formalizzandosi una divisione del paese, accettata più o meno dalle varie potenze straniere interessate ai destini della regione. Ma la guerra in Ucraina ha rivelato come la coperta di Mosca sia corta: l’impiego crescente di uomini e mezzi per la conquista dei territori ucraini è stato reso possibile dal disimpegno russo in altri teatri; una difficoltà dovuta anche alla liquidazione della Wagner, avvenuta dopo il tentato colpo di mano della compagnia mercenaria diretta dall’imprenditore Evgeny Prigozhin, e all’assenza di alternative da poter dislocare nel paese. L’escalation israeliana contro l’Iran e Hezbollah, con la conseguente invasione del Libano meridionale, ha privato il regime di Assad del sostegno delle formazioni sciite, e l’esercito regolare si è rivelato inadeguato a fronteggiare la ripresa delle ostilità, dileguandosi davanti all’offensiva delle formazioni armate.
L’avanzata repentina dell’opposizione siriana e il crollo del sistema hanno colto di sorpresa tutti gli attori internazionali coinvolti: a testimonianza di ciò vi è il tentativo di mediazione esercitato dal gruppo di Astana, che ha coinvolto sin dal 2018 Turchia, Russia, Iran come garanti con in più le monarchie del Golfo Persico, rappresentanti del regime siriano e dei ribelli, soltanto un giorno prima della caduta di Damasco. La confusione delle ore seguite all’entrata nella capitale delle forze dell’opposizione si è estesa anche sulla sorte dei militari russi presenti nel paese, seppur in numero assai ridotto rispetto al 2017: i timori di possibili scontri per il controllo delle basi di Taurus e Hmeimim si sono poi rivelati – almeno fino ad oggi – infondati, alla luce anche delle trattative in campo tra Mosca e le nuove autorità.
Già nella giornata dell’8 dicembre, quando Damasco è stata presa, nel linguaggio dei media ufficiali russi le milizie non son state più definite come “terroriste”, ma “opposizione armata”; mentre Bashar al-Assad con famiglia al seguito veniva in fretta e furia portato via dalla Siria, l’ambasciata a Mosca e il consolato a San Pietroburgo ammainavano la bandiera ufficiale del paese per issare il tricolore verde bianco e nero con tre stelle al centro dei ribelli, tra le scene di giubilo dei diplomatici dal balcone della sede nella capitale russa.
Più di un decennio di sostegno finanziario, a cui si sono poi aggiunte armi, truppe, mezzi, la copertura politica all’interno del Consiglio di sicurezza dell’ONU, la propaganda attraverso la redazione araba di Russia Today, hanno segnato la politica del Cremlino verso il regime di Damasco, riuscendo a puntellarlo fino all’ultimo atto. Il tentativo di rianimare politicamente un sistema soffocato dalla corruzione e retto dal terrore, attuato assieme all’Iran, si è rivelato fallimentare e rappresenta un colpo al prestigio della Russia in Medio Oriente e in Africa, scenari dove la combinazione di intervento diretto, impiego della Wagner e di consiglieri politico-militari in vari settori sembrava poter essere un’alternativa alle politiche degli Stati Uniti, dei paesi europei e della Cina.
La famiglia Assad adesso si trova a Mosca dove, ironia della storia, lo scorso 29 novembre Hafez, figlio e nipote dei dittatori, aveva discusso la tesi di dottorato in matematica, dedicandola agli “eroici martiri” dell’esercito siriano; secondo alcuni osservatori Bashar avrebbe in quella giornata incontrato i vertici politici e militari russi per provare a ottenere rinforzi, ma l’unico aiuto fornito è stato l’asilo politico dieci giorni dopo. Lo sgretolamento del sistema di potere difficilmente si sarebbe arrestato anche in una situazione diversa, dove vi sarebbe stata la possibilità di impiegare le milizie iraniane e di Hezbollah e i contingenti russi, che avrebbero potuto probabilmente ritardare (come fatto dal 2011 in poi) soltanto la caduta della tirannia.
Ruslan Pukhov, direttore del Centro per l’analisi delle strategie e delle tecnologie, in un commento pubblicato dal quotidiano Kommersant, ha sottolineato i limiti della politica di potenza del Cremlino, mettendo in evidenza come
«Mosca non disponga di forze militari, risorse, influenza e autorità sufficienti per intervenire efficacemente con la forza al di fuori dell’area dell’ex Unione Sovietica, e può agire in questi contesti, in sostanza, solo con il tacito consenso delle altre grandi potenze e finché queste lo permettono. Dopo il 2022, questa dinamica appare ancora più evidente, bluffare in merito alla propria forza e alle proprie capacità sulla scena mondiale si può sempre fare, ma è fondamentale non crederci troppo».
Sette anni fa, l’11 dicembre, nel corso della sua visita in Siria, Vladimir Putin si è rivolto ai militari di stanza nella base aerea di Hmeimim complimentandosi per la campagna, ritenuta conclusa, con le seguenti parole: «Tornate vittoriosi alle vostre case, ai vostri cari, ai vostri genitori, alle vostre mogli, ai vostri figli, ai vostri amici. La Patria vi aspetta (...) Buon viaggio, vi ringrazio per aver servito il paese». Sempre a Hmeimim Putin aveva incontrato Assad, complimentandosi per il lavoro svolto congiuntamente nella «distruzione dell’ISIS» e rassicurandolo sui colloqui che avrebbe avuto con Erdoǧan per garantire l’unità della Siria, si legge nel frammento pubblicato dall’ufficio stampa del Cremlino.
Oggi è il presidente turco ad apparire, almeno al momento, vincitore della partita, con proprie risorse all’interno del paese, rappresentate dall’esercito nazionale siriano, e appaiono lontani i giorni in cui l’orchestra sinfonica del teatro Marinskij di San Pietroburgo, diretta da Valerij Georgiev, si esibiva tra le rovine di Palmira appena strappata dopo feroci combattimenti al controllo dello Stato Islamico, un’immagine che contribuì a rafforzare il prestigio di Putin e del suo sistema a livello globale. Cosa resterà dello sforzo bellico russo, di centinaia di militari (e mercenari) caduti nelle sabbie desertiche e tra le macerie delle città siriane, del flusso di denaro speso per sostenere Assad, forse, è ancora troppo presto da dire, visti i negoziati in corso per mantenere le basi, ma resta un fatto: la scommessa di Vladimir Putin di poter mantenere in vita un regime sanguinario e al tempo stesso moribondo si è rivelata fallimentare.
Immagine in anteprima: Kremlin.ru, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons