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La Siria torna in piazza per chiedere la fine del regime, riforme e stabilità

29 Agosto 2023 8 min lettura

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La Siria torna in piazza per chiedere la fine del regime, riforme e stabilità

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“La rivoluzione è un’idea e le idee non muoiono mai”. È il motto che ha reso famoso il siriano Raed Fares, giornalista radiofonico, fondatore di Radio Fresh e attivista, in prima fila dal 2011 nelle manifestazioni pacifiche antigovernative, ucciso in un attentato terroristico nella sua città, Kafr Nabl, il 23 novembre 2018. Era odiato da Assad e dai terroristi per le sue idee liberali e il suo modo rivoluzionario e creativo di comunicare, attraverso slogan e striscioni le cui immagini e parole hanno fatto il giro del mondo. 

Cinque anni dopo la sua scomparsa Bashar al Assad è ancora al potere, ma le piazze siriane hanno ripreso a popolarsi di manifestanti, anche in quelle città, come Sweida, dove nel 2011 non c’era stato un coinvolgimento. La giornalista e attivista Leila al Shami parla, nel suo blog, di “rinascita della rivoluzione”. A Sweida vive prevalentemente la comunità etnico-religiosa drusa, che rappresenta un ramo dell’islam sciita-ismaelita presente, oltre che in Siria, anche in Giordania, Libano, Israele.

A scatenare le rivolte, iniziate il 17 agosto, è stata soprattutto la grave crisi economica che coinvolge tutto il paese, con oltre il 90% della popolazione ormai sotto la soglia della povertà, secondo le stime dell’ONU. I cittadini si sono mobilitati contro l’aumento dei prezzi di cibo e beni, nonché contro la decisione del governo siriano di aumentare i prezzi del carburante. La svalutazione della Lira siriana, precipitata ai minimi storici è un ulteriore elemento di criticità per l’economia del paese mediorientale, con il cambio di 1 dollaro a 15mila lire siriane. In questo contesto la popolazione di Sweida ha anche chiesto il rovesciamento del presidente Assad. In tutto il governatorato di Sweida sono state segnalate oltre quaranta proteste solo nei primi dieci giorni, ha riferito l’emittente Sweida 24.

Le piazza si sono animate, oltre che a Sweida anche a Daraa, Raqqa, al Hasakeh, Deir Ezzore, nel nord di Aleppo e a Idlib. In queste due ultime zone, sotto il controllo dell’opposizione sostenuta dalla Turchia, in realtà le manifestazioni antigovernative non si sono mai interrotte. L’attenzione mediatica è tuttavia concentrata su Sweida, soprattutto per l’elemento di novità. La comunità drusa, essendo religiosamente vicina alla comunità alawita, quella di riferimento del presidente Assad, non si era fatta coinvolgere dalle proteste del 2011, sfociate nelle altre città a maggioranza sunnita, che avevano però coinvolto in parte anche la comunità cristiana e quelle etniche curda e armena. 

Il governo siriano ha sempre usato come strumento per dissuadere le minoranze dall’unirsi alle proteste l’argomento “protezione delle minoranze”, che ha coinvolto anche la comunità drusa, ma la realtà è che la repressione e la guerra hanno colpito anche i cristiani, gli alawiti stessi, gli armeni, i curdi e tutte le altre comunità etnico-religiose presenti in Siria. Le emittenti governative, per tenere fede alla narrazione dominante, si sono limitate a descrivere quelle di Sweida come poteste contro il caro-vita, ma gli slogan scanditi dai manifestanti, così come i cartelli esibiti, tra cui quelli in solidarietà con Idlib e con l’Ucraina, mostrano un’altra realtà.

“In un precedente mai visto ad Sweida da quando il partito Baath ha preso il potere in Siria, la disobbedienza civile è entrata nella sua seconda settimana consecutiva”, si legge sul sito Sweida 24. “La piazza Al-Karamah, che si trova a pochi metri dal quartier generale della polizia e dal palazzo del governatorato nel centro della città, è stata testimone, per l'ottavo giorno consecutivo, di manifestazioni di massa, in cui la gente si è distinta nel creare canzoni rivoluzionarie”. Insieme alla tradizionale bandiera drusa, i manifestanti hanno sventolato la bandiera tricolore verde, bianca nera con le tre stelle, ribattezzata bandiera della rivoluzione o dell’indipendenza, un vessillo già portato in piazza nel 1946 in occasione della sconfitta del colonialismo francese. Il governo di Damasco e i suoi alleati hanno sempre definito terroristi coloro che esibiscono il tricolore diverso da quello imposto dalla dinastia degli Assad, in particolare da quando la Turchia ha imposto ai soldati siriani ribelli che sostiene economicamente, e che ormai rispondono ai comandi di Ankara, di sfoggiare accanto alla bandiera della rivoluzione quella turca.

Per quanto riguarda le aspettative sull'esito delle manifestazioni, il giornalista Nawras Aziz ha detto in una dichiarazione a Orient News che dalle milizie di Assad si attendono tre scenari, “un silenzio sospetto e l’attesa finché la gente non si stuferà, oppure l’assedio alle città di Sweida e Daraa, oppure ci sarà un’opzione militare per attaccare, ma è improbabile”. L'avvocato Ayman Shaib al-Din, presente con i manifestanti nella città di Sweida, ha confermato a Orient News che il discorso di Bashar al-Assad a Sky News e il suo disinteresse verso la popolazione e le sue necessità, hanno spinto la gente all’esasperazione, tanto da scandire slogan per rovesciare il regime, invocando una soluzione politica che salvi ciò che resta della Siria.

Per evitare che le proteste si riaccendano anche in altre città dove storicamente si sono svolte le più grandi manifestazioni antigovernative, Bashar al Assad ha imposto un ampio dispiegamento di forze nella città di Homs, in particolare intorno alla moschea Khaled Ibn al Walid, diventata simbolo della partenza dei cortei dal 2011. Tra le ragioni delle proteste dei giorni scorsi c’è stata anche la ricorrenza del decimo anniversario dell’attacco con armi chimiche ad al Ghouta, periferia di Damasco, il 21 agosto 2013, che provocò la morte di oltre 1400 persone e l’intossicazione di altre 6mila. Nonostante diverse inchieste abbiano provato la responsabilità dell’esercito governativo, non ci sono ancora stati alcun processo e alcuna condanna.

Sul piano militare la situazione resta tesa. All'alba di lunedì 28 agosto, gli aerei da guerra israeliani hanno bombardato l'aeroporto internazionale di Aleppo, nel nord della Siria, e lo hanno messo fuori servizio. Non si conosce ancora l’entità del danno, ma i voli sono stati intanto dirottati verso gli aeroporti di Damasco e Tartous. L’agenzia ufficiale di stampa siriana, Sana, ha citato una fonte militare anonima che ha affermato: “Verso le 4:30 di oggi, il nemico israeliano ha effettuato un’aggressione aerea dalla direzione del Mar Mediterraneo, a ovest di Latakia, prendendo di mira l’aeroporto internazionale di Aleppo”. Si tratta del quarto attacco in un mese. Un altro bombardamento è stato invece effettuato dall’aviazione russa su Arri, a Ovest di Idlib, provocando la morte di due persone, un anziano, Ahmad al-Khaled e suo nipote Taher, 16 anni. 

Secondo Munir al-Mustafa, vicedirettore dei volontari del soccorso conosciuti come White Helmets, altri cinque civili sono rimasti feriti nel raid russo, tra cui due bambini e una donna. Si registra inoltre una forte tensione nelle zone sotto il controllo delle milizie guidate dai curdi delle Syrian Democratic Forces, Sdf, a Deir Ezzore in seguito allo scoppio di violenti scontri tra queste e il Consiglio militare di Deir Ezzore, alla luce dell'arresto da parte delle Sdf stesse del leader del consiglio Ahmed Al-Khabil, detto Abu Khawla, insieme ad altri miliziani. Questi erano stati chiamati a partecipare a una riunione ad Al-Hasakah. 

A confermare la complessità della situazione sul campo, il Syrian Jusoor for Studies Centre in collaborazione con InformaGene for Data Analysis Foundation ha pubblicato un rapporto con una mappa sulle presenze militari delle forze straniere in Siria da cui emerge che nel Paese mediorientale ci sono 830 siti stranieri, di cui il 70% (570) fanno riferimento all’Iran, 125 alla Turchia, 105 alla Russia e 30 alla Coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Il rapporto analitico indica che il numero di siti non riflette la disparità di potere. Gli Stati Uniti rimangono i più influenti sulla scena militare nonostante abbiano il minor numero di siti in Siria. Inoltre, le basi e i punti militari delle potenze straniere in Siria variano in termini di numero, equipaggiamento, compiti assegnati e meccanismi che hanno portato al loro intervento.

In questo scenario di insicurezza e tensione diffuse, la popolazione civile continua a vivere una situazione di grave precarietà dovuta ad anni di guerra e terrorismo e al diffondersi della povertà aggravata anche dalle conseguenze del terremoto del febbraio scorso. Decine di migliaia di sfollati interni nei campi e nei rifugi sovraffollati nel nord-est della Siria non ricevono aiuti in una forma adeguata con un impatto negativo sui loro diritti fondamentali, ha affermato Human Rights Watch. Come si legge in un nuovo rapporto dell’organizzazione dello scorso 22 agosto: “C’è urgente bisogno di alloggi adeguati alle condizioni meteorologiche, di servizi igienico-sanitari sufficienti e di un accesso dignitoso al cibo, all’acqua potabile, all’assistenza sanitaria e all’istruzione”. L’assistenza fornita dalle agenzie delle Nazioni Unite ai campi e ai rifugi nei territori governati dall’Amministrazione Autonoma della Siria settentrionale e orientale a guida curda risulta insufficiente, lasciando alcuni campi e rifugi, soprattutto quelli “informali”, senza aiuti adeguati. “Sebbene le organizzazioni non governative internazionali forniscano un’assistenza limitata, numerose lacune hanno portato a problemi sanitari e igienici e a carenze di materiali essenziali durante periodi di caldo o di freddo estremi. “Sono molte le preoccupazioni sulla possibilità che l’attuale livello di aiuti garantisca i diritti economici e sociali degli sfollati e soddisfi gli standard minimi universali per l’assistenza umanitaria”. 

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Non va meglio nel nord-est, dove gli aiuti continuano ad essere ostaggio delle limitazioni della Russia, che in sede di Consiglio di sicurezza dell’ONU si ostina a porre il veto all’apertura continua del valico di Bab al Hawa, che collega la Turchia alle zone settentrionali della Siria occidentale, ostacolando così l’arrivo degli aiuti che sono vitali per oltre 4,5 milioni e mezzo di persone, di cui quasi due milioni vivono nei campi, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, Ocha. Gli altri valichi sono chiusi da mesi e mesi. Il 90% di questa popolazione fa affidamento sull’assistenza umanitaria transfrontaliera delle Nazioni Unite, fornita dal 2014 in conformità con le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza. 

“La scorsa settimana, abbiamo osservato che il pane è finito nella maggior parte dei campi, insieme alla continua carenza d’acqua e all’aumento dei prezzi per la maggior parte delle forniture alimentari, poiché la consegna degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite attraverso il valico di Bab al-Hawa è stata interrotta per sette settimane. Ciò fa presagire una catastrofe umanitaria che potrebbe raggiungere i livelli di una carestia nella Siria nordoccidentale”, ha dichiarato in una nota il Syrian Network for Human Rights (SNHR). La stessa Rete ribadisce la sua posizione legale già affermata tre anni fa, secondo cui “la consegna degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite non richiede il permesso del Consiglio di Sicurezza. È inoltre essenziale sottolineare che deve essere istituito un meccanismo di coordinamento tra gli Stati donatori per evitare, quando e quanto possibile, l’abuso di controllo da parte del regime siriano e il furto degli aiuti umanitari”.

(Immagine anteprima via YouTube)

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